Quale Cesare abbiamo scelto come nostro Dio? | Rendete a Cesare (2)
Per leggere la prima parte
Rendete a Cesare quel che è di Cesare | Rendete a Cesare (1)
«Un servitore non può servire due padroni» (Gv 19,15; Es 20,3)
Durante la passione di Gesù, secondo la versione di Giovanni (cf Gv 18-19), gli stessi che presentano la moneta con l’effige dell’imperatore si trovano davanti a una scelta, come i loro antenati al tempo di Samuele: scegliere tra Dio e Cesare. Consapevolmente e senza esitazione essi rinnegano Dio come re e riconoscono Cesare come loro signore e padrone. Quando Pilato, in rappresentanza dell’imperatore, li obbliga a scegliere, essi non hanno esitazione:
«13Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare… 14Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,12.14-15).
Una questione antica
Nel secolo VI a.C., quando furono redatti i libri di Samuele, gli antenati degli scribi e dei farisei, agirono allo stesso modo, rinnegarono Dio come loro re e chiesero a Samuele un imperatore che li giudicasse: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). A Dio dispiacque questa richiesta perché «non si può servire due padroni» (Lc 16,13). Con quella risposta, essi annullarono la specificità d’Israele che fu scelto tra tutti i popoli, come «popolo di Dio»; essi invece vollero essere «come avviene per tutti i popoli».
In forza della Scrittura e in nome della loro storia privilegiata, storia di elezione e di alleanza sponsale, gli Ebrei dovrebbero farsi ammazzare piuttosto che contaminarsi con l’immagine dell’imperatore, che pretende di usurpare la regalità di Dio. Essi, al contrario, fanno una professione pubblica di fede davanti a Cesare: «Non abbiamo altro re che Cesare», che è l’opposto esatto del primo comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Ci troviamo in piena apostasia, allo stesso modo che nel deserto del Sinai, quando gli Ebrei sostituirono il Dio di Mosè con un vitello d’oro fuso, che invocarono come loro liberatore (Es 32,4.8).
Le parole dei suoi correligionari, per di più pronunciate davanti al rappresentante del potere romano, che era potere di occupazione, devono essere risuonate amare e scandalose nelle orecchie di Gesù. La questione era talmente delicata che al tempo di Gesù, lo stesso procuratore romano, Pilato, per non urtare la sensibilità degli Ebrei, la cui religione vietava le immagini sacre, aveva fissato la propria residenza a Cesarea Marittima, cioè lontano dal tempio, centro religioso della vita degli Ebrei. A Cesarea, egli può tenere le insegne con le effigi dell’imperatore, ma quando andava a Gerusalemme evitava di portarle con sé, per rispetto degli Ebrei, ma anche per paura di sommosse popolari.
Il rappresentante dell’imperatore ha, per la religione ebraica, quel rispetto che gli stessi membri del sinedrio dimostrano di non avere. Essi sanno bene che portare le monete romane significa macchiarsi di contaminazione e d’impurità, perché con le monete portano con sé l’effige di Cesare. Essi usano il denaro di Cesare nei loro traffici e con questo si dichiarano sudditi e schiavi, abdicando non solo dalla loro condizione di figli, ma anche dal loro ruolo di guide del popolo. Se l’autorità stessa rinnega il Dio della creazione, come può pretendere di guidare il popolo verso l’autorità di Dio? Gli stessi che portano con sé l’immagine di Cesare, proibiscono ai Giudei di entrare nel tempio con la moneta romana, proprio perché riproduce l’effige dell’imperatore romano che si considerava e veniva considerato «divino», cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto.
La questione è molto grave e lo si deduce anche da un altro fatto: poiché il denaro romano portava l’effige dell’imperatore, non poteva essere versato nel tesoro del tempio perché sarebbe stato un sacrilegio. Per ovviare a ciò nel portico del tempio vi erano i cambiavalute, che scambiavano la moneta romana con lo shèkel, la moneta ufficiale israeliana. È questo il motivo per cui Gesù nel tempio scaccia i cambiavalute e i venditori con l’accusa di avere trasformato la casa di preghiera di Dio in un covo di ladri (cf Gv 2,13-19): essi per interesse trafficano l’«immagine di Cesare» nel tempio di Gerusalemme, il trono della Gloria di Dio che aveva posto la sua «immagine» nella carne di ogni uomo e donna, sacramento della sua presenza nella storia.
La moneta romana, «sacramento imperiale»
Portando con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, cioè la gerarchia religiosa nel suo complesso, dichiarano pubblicamente di avere sostituito «l’immagine» di Dio (cf Gen 1,27), di cui erano custodi, con quella mercantile del re pagano che, come un novello faraone, tiene sotto sequestro il popolo eletto.
Per affermare la propria autorità, Roma aveva tolto al sinedrio il diritto di comminare la morte (ius gladii) e, contemporaneamente, custodiva le vesti solenni del sommo sacerdote, che erano consegnate ogni volta che servivano. I due fatti erano il segno clamoroso e umiliante della sottomissione totale, giuridica e religiosa. Doveva essere chiaro chi era «il re d’Israele».
La conseguenza logica che si deduce dai testi e dai fatti è semplice: i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo, quelli che hanno in mano i mezzi di governo e anche dell’economia, rinnegano Dio come loro Re e Signore. Essi si adeguano alle convenienze e vogliono essere «come tutti gli altri popoli»: cioè schiavi di un dittatore che li spreme come limoni, perché fa loro pagare le tasse per sé, per il senato e concede anche, bontà sua, che paghino una tassa supplementare per il tempio. Gesù aveva messo in guardia: «Coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni [perché] dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,41).
Senza rendersene conto, chi pone la domanda a Gesù se sia lecito pagare le tasse, mette in evidenza una questione che riguarda la persona di Dio e il rapporto che ogni Israelita ha con lui. Gesù, con la sua risposta, mette a nudo il loro dramma e li richiama alla responsabilità della «teshuvàh – conversione».
Le parole svelano le intenzioni del cuore
Tenendo conto di questo quadro, vediamo il testo. Alla luce di questa panoramica contestuale che tiene conto di tutta la Scrittura, il contesto immediato dei tre Sinottici, e particolarmente in Lc, è di complotto e di tensione:
– Lc 20,19: «Gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo». È in atto una macchinazione per perseguire un fine ingiusto.
– Lc 20,20: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore». È evidente una collusione/ complicità con il potere pagano e impuro, con l’obiettivo esplicito di servirsi del potere pagano.
– Lc 20,25: «Egli disse: “Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio”». La risposta di Gesù, tecnicamente, si configura come risposta ad hominem, cioè diretta. Egli non fa un discorso generale sulle tasse, ma riprende, strettamente parlando, la risposta da essi data: poiché l’immagine della moneta appartiene a Cesare, come essi stessi ammettono, è un suo diritto, dice Gesù, averla indietro.
Se Gesù si fosse limitato a questa prima parte, tutto sarebbe finito con un insegnamento esemplare e coerente: poiché voi vi servite del denaro di Cesare che vi offre un servizio, è giusto che vi chieda un qualche corrispettivo. Se volete contestare l’autorità di Cesare, non usate il suo denaro, cioè siate voi stessi coerenti. La novità di Gesù sta nella seconda parte della risposta, con la quale riprende quello che i suoi interlocutori avevano omesso o dimenticato: Dio. Il testo greco dice alla lettera:
«E pertanto, dunque/di conseguenza, restituite (una volta per tutte) le cose di Cesare a Cesare e (= nello stesso tempo) le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio – Ho de eîpen pròs autoús: Toìnuyn apòdote ta Kàisaros Kàisari kài ta toû theoû tōi theōi».
Le parole hanno un senso oltre le apparenze
La parola «toínyn», in greco è una congiunzione cornordinante consecutiva o conclusiva (cf Blass-Debrunner §451,9) e per questo traduciamo in modo da dare alla risposta un tono definitivo e conclusivo. In questo modo, Gesù afferma che con la loro risposta sono essi stessi a darsi la risposta. Gesù si limita a trarre la conclusione logica e coerente di quanto affermato da loro. In altre parole, la risposta di Gesù non è una sua conclusione, ma quella cui essi stessi obbligano con il loro agire e con il loro pensare.
Per la restituzione (restituite), l’evangelista usa il tempo imperativo aoristo «apòdote» che indica un’azione compiuta in se stessa, avulsa dal tempo. Non può avvenire a rate o a spizzichi perché non lascia spazio per un tempo di riflessione. Deve essere un fatto unico, conseguenza di una decisione e di una conversione radicale: «Restituite una volta per tutte».
Infine, l’espressione «le cose di Cesare» ha il genitivo di origine o di appartenenza (Blass-Debrunner §162,9 e § 266, 5a): le cose in generale, qui la moneta, che sono «già» proprietà di Cesare. In altre parole Gesù dice che il possesso della moneta romana da parte dei Giudei è illegittimo, per cui restituirla al proprietario significa restaurare l’ordine della legittimità e della verità.
La questione non riguarda le tasse, come volevano gli scribi; Gesù sposta la discussione sul possesso della moneta, da parte di chi professa una religione che impone il divieto assoluto delle immagini della divinità. Questo divieto è così grave che viene codificato addirittura nel comandamento (Es 20,3). Poiché l’imperatore si considera «dio», è grave che la sua moneta, la sua «insegna», si trovi nelle mani di chi si appella al Dio di Mosè.
Si direbbe che l’autore usi la struttura della lingua greca per affermare con più forza il senso del pensiero che vuole esprimere. È straordinario come Gesù non si fermi mai alle apparenze, ma obblighi ad andare al cuore della questione. I farisei e i capi dei sacerdoti pensavano di metterlo in imbarazzo; invece, si ritrovano davanti a loro stessi, alla loro superficialità o, ancora più grave, alla loro religione di finzione, perché parlano in nome di Dio, ma ne disattendono i comandamenti.
Contesto prossimo: il complotto
Non è sufficiente, però, tradurre le parole del vangelo, bisogna anche collocarle nel contesto immediato e prossimo, se vogliamo afferrarne il senso profondo. È quello che facciamo, osservandolo da vicino.
Il capitolo 20 di Luca si apre con due polemiche fortissime:
– Lc 20,1-8: Gesù si oppone ai «capi dei sacerdoti e gli scribi con gli anziani» (v. 1) che pretendono di limitare la sua autorità; Gesù li mette all’angolo con una domanda trabocchetto: il Battesimo di Giovanni viene da Dio o dagli uomini? Se rispondono che viene da Giovanni, corrono il rischio che la folla si ribelli, perché Giovanni aveva la fama di profeta; se rispondono da Dio, si autoaccuserebbero perché non gli hanno creduto. Non hanno più alibi. In questo modo Gesù raggiunge il suo obiettivo: li mette alle strette e con le spalle al muro. Infatti, essi si rifiutano di rispondere perché non possono.
– Lc 20,9-19: la parabola dei contadini omicidi obbliga gli uditori a trarre le conclusioni, o come si dice, la morale. Infatti, gli interessati capiscono subito: «Avevano capito che aveva detto quella parabola contro di loro» (Mc 12,12). A questo punto, non si può andare tanto per il sottile, perché uno che mette in difficoltà il sommo sacerdote, che costringe all’angolo i membri del sinedrio, che contesta la loro autorità e mette in dubbio la loro moralità di trafficanti con il denaro immondo, non può restare libero. È un pericolo per l’istituzione religiosa che si sente screditata. L’autorità non si può discutere, perché s’indebolisce e si delegittima.
I capi religiosi vogliono però umiliare Gesù a ogni costo; per loro la questione delle tasse è strumentale, perché il loro vero obiettivo è il complotto per mettere Gesù fuori gioco, in modo definitivo. Il clima da servizi segreti con spie e travestimenti è descritto da Luca 20,20, in modo impressionante e preciso: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore».
È il metodo del tranello e del fango, dell’inganno, della manipolazione della verità e realtà. C’è lo spionaggio che significa una scelta cosciente: pur di raggiungere il fine qualsiasi mezzo è lecito. L’atteggiamento e la perversione dei capi religiosi ha fatto scuola nella storia fino ai nostri giorni anche nella Chiesa. Un papa che si dimette, come Benedetto XVI, perché non è stato in grado di fermare «individualismi e rivalità» che hanno generato «le divisioni che deturpano la Chiesa», come egli stesso ha ammesso (Omelia delle ceneri, 13 febbraio 2013, in San Pietro), mettono in luce che, quando prende il sopravvento la religione d’interesse, gravi sono le conseguenze sul piano della fede; possono arrivare anche a produrre le dimissioni come ipotesi di soluzione del conflitto.
La risposta di Gesù: la coerenza nella verità
Gesù sventa il tranello e va alla radice della questione. Chiedendo retoricamente di chi è l’«immagine», come se lui non lo sapesse, sposta la riflessione sul problema radicale: quale autorità governa su Israele? In altre parole, più esplicite: chi è il «Dio» di Israele? È il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Mosè, oppure è il «divino Cesare», imperatore di Roma?
Tutti, al tempo di Gesù sapevano che gli imperatori romani, come qualsiasi altro potente, facevano imprimere la propria effige sulle monete di metallo per due motivi di ordine pratico. In un tempo senza macchine fotografiche e senza tv, un modo per farsi riconoscere era la divulgazione dei lineamenti imperiali su tutto il regno. Il secondo motivo, più politico, era di affermare la propria autorità sui propri sudditi, perché chiunque avesse usato la moneta con l’effige, di fatto ne riconosceva la legittimità e quindi si sottometteva alla sua autorità giuridica e fiscale.
I capi religiosi che avrebbero dovuto guidare il popolo, il cui re è il Dio d’Israele (cf Sal 144/143,15), invece, riconoscono l’autorità di un imperatore che non può godere di alcun diritto di governo su Israele. In questo modo essi conducono il popolo nella schiavitù di un pagano e straniero, usurpatore della legittimità di Dio. Essi sono responsabili della decadenza religiosa e della devianza etica del loro popolo perché confondono Dio con Cesare.
(continua – 2)
Paolo Farinella