Situazione economica e culturale degli amerindi Warao
Vivono sul delta del fiume Orinoco, nel Venezuela orientale; in
maggioranza abitano in case con tetto di paglia sopra palafitte, al riparo
dalle fluttuazioni delle maree; vivono di pesca, caccia e raccolta dei frutti
della foresta: sono i Warao, popolazione amerinda unica nel suo genere per
storia e cultura millenaria. Ma il confronto con il mondo occidentale moderno
sta minacciando di disintegrare la loro cultura insieme alla loro
organizzazione economica e sociale.
Da una decina d’anni un gruppo di
missionari e missionarie della Consolata condividono la vita, annunciando il
Vangelo di Cristo, con i Warao, un’etnia amerinda che da molti secoli vive
sulle sponde delle numerose ramificazioni del Delta dell’Orinoco, nel Nord Est
del Venezuela.
Proprio qui, alle foci
dell’Orinoco, giunsero Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci nel loro terzo
viaggio, nel 1498-1499, e chiamarono questa terra Venezuela, ossia Piccola
Venezia. Giunto a queste sponde il 5 agosto 1498, Colombo scrisse nel suo
diario: «Divisé unas tierras – las más hermosas del mundo – y muy poblada…
Corrí esta costa hasta el cabo de la sierra y me ha encantado la belleza de su
vegetación… Artísticas frondes cubren el piedemonte costero… Grandes
indicios son estos del Paraíso terrenal… Esta es una tierra de gracias».
L’Orinoco è il fiume più grande
del Venezuela e il terzo dell’America del Sud. È uno dei fiumi più ricchi
d’acqua del mondo, con una media annua di 38 mila litri al secondo.
Attraversata Ciudad Guayana, il fiume si dirige verso l’Oceano Atlantico,
trasformandosi in una complessa rete idrografica, dividendosi in numerosi rami,
lagune, zone allagate, che si intrecciano tra loro fino a raggiungere l’Oceano
dopo oltre 200 km. Tutta questa regione si chiama Delta Amacuro o Delta del Río
Orinoco, con una superficie approssimativa di 22.000 km quadrati.
Gli ecosistemi terrestri e
acquatici sono caratterizzati da una grande diversità biologica. L’area
terrestre è ricoperta da una fitta foresta tropicale che conta più di 2.000
specie di piante catalogate. Inoltre, ricchezza di uccelli (464 specie),
rettili (76 specie), anfibi (39 specie), mammiferi (151 specie), pesci (410
specie), e infine una grande quantità di invertebrati. Le terre del Delta sono
abitate da tempi remoti dall’etnia indigena dei Warao.
Il termine warao ha molti
significati. In primo luogo significa «abitante dell’acqua», «gente di curiara»
(di canoa) e anche «gente di spiaggia». Allo stesso tempo, warao
semplicemente significa gente o persona in opposizione ad altri esseri non
umani.
La storia orale warao racconta
che gli antenati arrivarono al Delta dell’Orinoco camminando, dall’isola di
Trinidad, in un’epoca in cui esisteva un ponte terrestre tra questa isola e il
continente. Esitono parecchie teorie sulla provenienza di questo popolo; la più
accettata, però, è quella che li vede arrivare dalle Ande Peruviane molti
millenni fa. Per i loro tratti somatici non si esclude neanche un’origine
asiatica. Il loro vivere sui fiumi, in prossimità del mare, in zone di così
difficile accesso, si determinò in seguito, per fuggire da altre tribù più
guerriere.
Il censimento dell’anno 2001
registrava circa 40 mila indigeni di questa etnia, ma di certo sono molto più
numerosi. Dopo i Wayúu dello stato Zulia, i Warao rappresentano la seconda
etnia indigena più numerosa del Venezuela.
Per poter conoscere il popolo
warao è necessario partire dai vari elementi che costituiscono la sua
organizzazione socio-culturale, politica, economica e religiosa; organizzazione
influenzata e condizionata dall’ambiente in cui vivono, caratterizzato da tutta
una rete di fiumi grandi e piccoli, che circondano lingue di terra totalmente
inondate o pantanose, ricoperte da una esuberante vegetazione tropicale. Il
viaggio è molto bello: tutto in curiara (canoa), unico mezzo per
raggiungere questo popolo, attraversando paesaggi di una bellezza meravigliosa.
La prima cosa che colpisce dei
Warao sono le loro case: palafitte, chiamate janoko (luogo dell’amaca)
disposte in fila lungo la sponda del fiume. Generalmente esse sono aperte, il
tetto ricoperto con foglie di palma, o, per i più fortunati, con lamiere.
Alcuni hanno iniziato a chiuderle con pareti di tavole di legno o, per chi non
ha i mezzi economici, con le stesse foglie della palma.
La durata di queste case è molto
ridotta: è normale per un warao ricostruire la casa ogni 8-10 anni.
L’arredamento è molto essenziale: l’amaca per dormire e per riposare, ceste o
borse appese con i vestiti e altri effetti personali; un angolo della casa è
adibito per cucinare a legna.
Le famiglie warao generalmente
sono molto numerose, non solo perché hanno molti figli, ma anche perché,
secondo la loro cultura, le figlie, quando si sposano, portano in casa il
marito.
Le famiglie del villaggio sono unite
fra loro da forti legami di solidarietà e mutuo aiuto. La comunità, un tempo,
era prettamente di carattere familiare, «comunità-famiglia», non stabile in un
luogo, ma itinerante, alla ricerca di zone capaci di soddisfare i bisogni
alimentari. Ora, con l’introduzione dei lavori salariati, dell’agricoltura e
della scuola, là dove è presente, c’è maggiore stabilità e apertura della
comunità a diversi gruppi familiari.
Tradizionalmente per i Warao il
lavoro serviva a sopravvivere, cioè soddisfare la fame, conservare la salute e
la vita. Essi si fabbricano la maggior parte dei loro utensili: amache (chinchorros),
ceste, capanne, curiare (canoe), arponi e reti per la pesca, ecc. Oggi possono
contare su qualche motore fuori bordo, anche se costituisce per loro un
articolo di lusso, a causa delle spese di manutenzione.
Il mezzo di trasporto
fondamentale rimane la curiara, ricavata scavando tronchi di alcuni tipi
di alberi e poi impermeabilizzata al fuoco. Usare la canoa e nuotare sono tra
le prime cose che un bambino impara.
Questi strumenti semplici di loro
fabbricazione, combinati alla loro profonda e dettagliata conoscenza dei
diversi ecosistemi e ambienti del delta, permettono ai Warao di vivere e
approfittare delle risorse delle aree fluviali, dei boschi inondabili e delle
zone litorali. Le attività tradizionali per la sussistenza erano, e lo sono
ancora per un buon numero di comunità, la pesca, la caccia e la raccolta di
frutta silvestre, realizzate solo per il consumo quotidiano. Quando ci si
procurava più del necessario era logico, e per molti lo è ancora, condividerlo.
Tra i Warao non esiste la
mentalità di accumulare, si vive alla giornata, si giornisce quando si ha e si
spera in un futuro migliore quando non si ha. Sono molto semplici e accolgono
sempre con grande cordialità; non chiamano mai chi li visita «straniero o
forestiero», ma «dake» o «daka» (fratello, sorella).
La natura è per loro una madre
provvidente e per questo la rispettano. Essa è colei che dà loro la vita,
l’alimento, le medicine. Fondamentale per la sussistenza è la palma «moriche»
(Mauritia flexuosa L), che fornisce la materia prima per vari manufatti
e vari alimenti come la frutta o palmito;
inoltre, dal tronco si estrae una specie di farina chiamata yuruma con
cui fabbricano un tipo di casabe che è il pane degli indigeni. Dalla
fermentazione della yuruma si fa, inoltre, una bevanda chiamata nojobo.
Dentro il tronco delle palme si sviluppano dei lombrichi di coleotteri, il Rhynchophonis
palmarum, che costituiscono per i nativi un piatto squisito. I frutti sono
pure usati per la preparazione di bevande o sono consumati secchi e
abbrustoliti. Le radici hanno per i Warao molte applicazioni nella medicina
casalinga e per la fabbricazione di collane e braccialetti.
Ugualmente importante per loro è
la palma manaca (Euterpe oleracea Mart.). Occorre far notare che
i Warao sono i soli, tra gli aborigeni del continente americano, che ancora
estraggono il sagù (yuruma) dalla palma moriche. La selva
fornisce inoltre molti altri tipi di frutta.
L’attività agricola fu introdotta
a poco a poco nel secolo scorso. Gli anziani ricordano ancora quella che fu per
loro una novità: seminare e piantare alimenti.
A partire dalla metà del secolo
scorso, l’influsso dei Creoli (venezuelani) si fece presente nei territori dei
Warao, provocando cambi radicali nella loro situazione socio-economica; uno di
essi fu l’introduzione dell’agricoltura. Infatti questa attività obbligò
centinaia di comunità indigene ad abbandonare la propria vita transumante di
pescatori e raccoglitori nei morichales (zone intee dove si trovano le palme
di moriche), e ad adattarsi a una vita sedentaria di orticoltori e pescatori
stanziati nelle aree litorali dei canali del Delta.
L’agricoltura esercitata in
piccole aree (conuchi), si basa sulla coltivazione dell’ocumo cinese
(pianta erbacea con tubercoli commestibili). Essa produsse una buona fonte
alimentare e questo, insieme alla buona fonte di proteine ottenute con la
pesca, permise un sostanziale incremento sia nel numero dei villaggi come degli
abitanti in ciascuno di essi.
lavoro itinerante
salariato
Man mano che i Warao andavano
incorporando elementi della cultura creola (strumenti di metallo, nailon per la
pesca, fucili, tessuti, motori fuori bordo, benzina, ecc.) si creò per loro la
necessità di introdursi nell’economia monetaria. Il primo passo si effettuò con
la produzione di articoli artigianali che venivano venduti in Barrancas e
Tucupita, le due città creole della terra- ferma più vicine, che davano pure la
possibilità di acquistare prodotti commerciali.
Attualmente i Warao, specialmente
le donne, elaborano una buona quantità di oggetti di piccolo artigianato
(amache, ceste, borse in fibra di moriche, collane e braccialetti, ecc.)
che vendono nei centri urbani. L’apparizione delle barche a motore fece
aumentare le spese, ma facilitò le attività commerciali, riducendo il tempo dei
viaggi dal Basso Delta ai centri di Barrancas e Tucupita, da più giorni a sole
8-9 ore, ora anche meno.
A partire dagli anni ‘80 alcuni
membri di comunità warao iniziarono a lavorare come salariati alle dipendenze
dei creoli, quando questi aprirono attività industriali nell’Alto e Basso
Delta, come iniziative agropecuarie, pesca di acqua dolce e marina, segherie e
anche una fabbrica di palmito. Tutte attività poi fallite, lasciando
danni all’ambiente e impoverendo i Warao, in generale mal pagati.
Tuttavia la circolazione del
denaro cominciò a influire sulle relazioni tra le famiglie e gli stessi
villaggi: prima di tutto è iniziato a rompersi quel sistema di unione e
collaborazione reciproca che fino ad allora aveva mantenuto unite
affettivamente ed economicamente le famiglie estese di uno stesso villaggio.
Le donne cominciarono a perdere
il loro potere amministrativo nelle famiglie, dato che il sostentamento della
famiglia dipendeva ormai dagli uomini, i quali decidevano come spendere le
entrate. Il denaro causò la nuclearizzazione della famiglia estesa, crebbe
sempre più la compra-vendita dei servizi necessari alla vita quotidiana (cibo,
trasporti, costruzione di abitazioni, taglio e preparazione dei conuchi
o aree coltivabili, ecc.).
Cambia il sistema tradizionale di autorità
Nel tentativo di soccorrere la
situazione dei Warao, il governo, tramite i governatori locali, favorì la
creazione di vari incarichi con salario in ogni comunità: commissario,
poliziotto, incaricato del trasporto degli studenti, responsabile della
centrale elettrica del villaggio (un semplice gruppo elettrogeno). Inoltre,
nelle scuole rurali e nei dispensari medici uomini e donne poterono lavorare
come maestri, infermieri, cuochi, ecc…
Nonostante i benefici economici
portati da queste nuove fonti di entrate, tale cambiamento produsse seri
problemi nell’ambito della gerarchia e dell’autorità tradizionale. La direzione
e il controllo della comunità era, da sempre, affidata al fondatore del
villaggio, il più anziano, chiamato «Aldamo», il quale esercitava il suo
potere in quanto considerato un uomo saggio, capace di prendere decisioni
corrette a favore di tutta la comunità.
Ora, col nuovo sistema, il potere
era affidato a un affiliato del partito politico che era al governo. Questa
nuova situazione a livello di commissario politico e polizia, è risultata
estremamente delicata e minaccia sempre più l’unione della famiglia
tradizionale. La politica è sempre meno al servizio del popolo e del suo bene,
ma approfitta dell’immagine indigena per i propri interessi economici.
Infine, con astuzia o per
legittime ragioni, i warao impiegati del governo debbono trasferirsi ogni 15
giorni a Tucupita, per riscuotere il salario. Naturalmente questo sistema
garantisce ai commercianti di Tucupita delle buone entrate, perché quegli
impiegati sono obbligati a fermarsi là per più giorni e di conseguenza devono
spendere gran parte del salario in vitto, alloggio e viaggio…
Nella tradizione warao le
conoscenze culturali venivano trasmesse da parte degli anziani ai bambini e ai
giovani attraverso il racconto di miti e storie vissute, mentre i vari lavori,
l’uso di attrezzi, le rotte navigabili dei fiumi non venivano e non vengono
tutt’ora insegnati attraverso spiegazioni orali, ma si imparano attraverso
l’osservazione e l’esperienza personale.
L’educazione scolastica arrivò
nel Delta solo negli anni ‘30 con i missionari Cappuccini che fondarono due
collegi. Negli anni ‘50 questi religiosi costruirono in varie comunità piccole
scuole e dispensari affidandoli a donne warao, preparate nei collegi di cui
sopra. Alcuni anni più tardi il governo si prese carico di queste strutture.
Purtroppo le scuole in queste
zone sono molto poche e piccole rispetto al numero dei bambini, e assicurano
solo il ciclo elementare. Le condizioni in cui si studia sono molto precarie:
non ci sono banchi, i bambini, seduti per terra, non hanno che il loro quaderno
e la matita.
Fortunatamente adesso i maestri
sono quasi esclusivamente warao; però, nonostante la buona volontà, mancano
spesso di metodologia e soprattutto di materiale didattico da consultare e
usare per rendere le lezioni meno pesanti e più proficue. Purtroppo i programmi
scolastici sono quelli nazionali, perciò non conformi alla realtà di un popolo
indigeno né rispettosi della sua cultura.
Lo studio superiore è stato
sempre privilegio di pochi: da alcuni anni sono iniziati tre licei in tre zone
diverse del Basso Delta. E anche lì ci sono problemi: mancanza di strutture e
libri, assenteismo di professori creoli, che devono venire da Tucupita. Inoltre
la maggioranza degli insegnanti non ha una adeguata formazione professionale.
L’educazione scolastica, pur
essendo un bene e un diritto, ha rappresentato un altro elemento di rottura nel
modo di vivere tradizionale, in quanto, dovendo andare a scuola, i bambini non
possono andare al conuco, a pescare, a cacciare, a raccogliere legna o
frutta con i genitori e così imparare a fare questi lavori e conoscere i
segreti della foresta. Di conseguenza, insieme ad altri motivi, i genitori sono
restii a inviare costantemente i bambini alla scuola.
Per quel che riguarda la salute,
ci sono pochissimi centri a cui ci si possa rivolgere per visite e cure.
Pur vivendo cambiamenti
culturali, il popolo warao non ha perso le sue credenze religiose sempre ben
radicate, che determinano la sua cosmo-visione. Si crede negli spiriti e in una
autorità religiosa. Per i Warao la natura è abitata da spiriti, padroni dei
diversi elementi come acqua e selva: entrambi hanno il proprio spirito. Ne
consegue che uno non può entrare in una selva e tagliare gli alberi così come
gli pare, perché, se lo fa, può venire castigato dallo spirito della foresta.
Ci sono poi gli spiriti degli
antenati e un essere supremo chiamato Kanobo (nostro nonno). Un elemento
culturale importante è senza dubbio la celebrazione del rito Najanamu,
un importante appuntamento religioso tra le comunità warao, perché mette in
evidenza la relazione tra la comunità e questo essere supremo, Kanobo,
che ha il potere di proteggere i membri stessi della comunità, allontanando le
disgrazie che possono colpirla.
L’autorità religiosa propria è il
wisidatu, il medico tradizionale. Egli ha il potere di proteggere dagli
spiriti cattivi, e allontanarli, quando entrano in un corpo provocando le
malattie, attraverso il canto e il suono della maraca (strumento
musicale). La morte è naturale se avviene dopo una lunga esistenza, altrimenti è
causata dagli spiriti, che si impadroniscono del corpo in conseguenza del
mancato rispetto delle regole culturali o della natura o, più spesso, in
conseguenza di un malocchio causato da qualcuno che vuole procurare danno alla
persona.
Alcune comunità formate da
ex-studenti dei collegi dei Cappuccini hanno accolto anche la fede cristiana,
ma il cammino di evangelizzazione è ancora lungo.
La cultura creola (venezuelana)
appare agli occhi dei giovani più affascinante e provoca, conseguentemente,
mancanza di interesse per i propri valori culturali e tradizioni, iniziazione
ad altri costumi e nuove esigenze. È questa una delle ragioni che porta molti
Warao a emigrare a Barrancas e Tucupita. Lì vivono ai margini della città,
cercando lavori saltuari, diventando scaricatori di porto o raccoglitori di
lattine o rifiuti. Molti però, specialmente le donne, si sono dati
all’accattonaggio nelle città, come Puerto Ordaz, Puerto La Cruz, Valencia e
Caracas, tra le più gettonate. Ma per un warao si tratta di una nuova maniera
di vivere, meno faticosa: la città rappresenta una foresta più facile a cui
accedere e con maggior varietà di alimenti.
Tutto ciò crea una grande
preoccupazione soprattutto per i bambini che nascono in tale situazione, perché,
mentre la maggior parte degli adulti riesce in qualche modo a scegliere dove e
come vivere, un bambino nato in Barrancas o Tucupita mancherà in futuro della
capacità necessaria per vivere nei canali e pantani del Delta. Non avrà la
minima idea di come e dove pescare, di di dove e come seminare e piantare, di
quali alberi producono materiale combustibile o frutta. Una volta cresciuti,
questi giovani, se non verranno incorporati nell’economia creola con una certa
dignità, saranno condannati a vivere una vita miserabile da mendicanti.
Dal 2010 la diocesi di Tucupita
ha incluso nel suo progetto pastorale indigenista l’organizzazione di un «Simposio
indigeno warao» sul tema «Movilización y migración del pueblo Warao»
(mobilitazione e migrazione del popolo Warao) per studiare questo fenomeno e
per cercare cammini di speranza per queste comunità che vivono tutt’ora in
stato di abbandono da parte del governo.
Giuseppe Bono e Ivana Cavallo