Fede dietro le sbarre
Benvenuti a Kamiti, la Prigione
di massima sicurezza.
Kamiti con 3.000 detenuti e 800 guardie è la prigione maschile
più grande del Kenya. Vi si entra per non uscie più. Ospita il fior fiore dei
condannati a morte e gli ergastolani più pericolosi. Eppure proprio in Kamiti
sta fiorendo la speranza.
fa venire i brividi. È il nome della più infame prigione maschile del paese.
Infame perché costruita dai colonialisti inglesi nel periodo dell’insurrezione
dei Mau Mau. Infame perché durante il ventennio del partito unico, 1982-2002,
era il posto dove finivano molti prigionieri politici. Infame perché chi entra
là, non ne esce più, chiuso com’è nel braccio della morte in attesa di
un’impiccagione che non arriva mai – da anni non ci sono più esecuzioni, anche
se la pena di morte non è stata abolita -, o condannato all’ergastolo. Infame
perché ospita il fior fiore dei delinquenti del paese: oltre 3.000 detenuti che
hanno commesso tutti i peggiori delitti elencati nei manuali di criminologia.
Infame perché le 800 guardie, sottopagate, spesso non vivono una vita migliore
dei loro ospiti forzati, e alcune si lasciano coinvolgere in traffici non
proprio leciti. Infame perché dalla connivenza di racket di detenuti e
carcerieri corrotti, sono partite alcune delle truffe digitali più raffinate ai
danni di tanti utenti di cellulari. Infame infine perché più di una volta c’è
stato l’infausto connubio tra guardie corrotte e condannati a morte per
eseguire sanguinose rapine i cui autori sparivano misteriosamente, salvo poi
riapparire crivellati di colpi quando qualcuno cominciava a sospettare.
Ma Kamiti non è solo questo. Per molti è luogo di speranza e
redenzione. Come lo fu nel 1957 per Dedan Kimathi, un capo militare dei Mau
Mau, impiccato proprio in quella prigione dagli Inglesi: la sua non fu una
morte da disperato. L’incontro con p. Nicola Marino, un missionario della
Consolata che visitava regolarmente i prigionieri Mau Mau, gli cambiò la vita e
Kimathi morì completamente riconciliato con Dio e con gli uomini, «come un
santo», scrisse il cappellano che l’accompagnò all’esecuzione.
Nella prigione c’è una cappella interconfessionale in pietra, 200
posti a sedere, costruita dagli Inglesi nel 1954. È ancora perfettamente
conservata e funzionante: la sua croce di legno, i banchi tradizionali e le nude
pareti di pietra a vista offrono un rifugio spirituale a molte anime tribolate.
La usano credenti delle più svariate denominazioni, e anche i cattolici, che
sono circa un sesto dell’intera popolazione carceraria.
La comunità cattolica è molto organizzata, con un bel gruppo di
catechisti che seguono i detenuti nei vari blocchi, con un cappellano ufficiale
delle varie prigioni del paese, che visita periodicamente anche Kamiti, e
diversi volontari estei che collaborano stabilmente. Tra questi le suore missionarie
della Consolata che sul terreno della prigione, ma appena fuori dalle mura,
hanno costruito il Centro Cafasso, per aiutare i pochi che hanno la grazia di
uscire da quella bolgia a reinserirsi nella vita quotidiana. E p. Eugenio
Ferrari che da sempre ha una passione particolare per i prigionieri, da buon
missionario della Consolata e «pronipote» di s. Giuseppe Cafasso, protettore
dei detenuti. Con lui e i ragazzi della rivista The Seed (Il Seme)
entriamo a scoprire dove sboccia la speranza.
Goditi la libertà intanto che
puoi
Niente mi aveva preparato alla mia prima visita a Kamiti, la
prigione di massima sicurezza. Un massiccio cancello di legno rinforzato da
sbarre di ferro marca l’ingresso alla prigione. Dopo dieci passi c’è un secondo
cancello tutto di ferro. Ovunque vedi guardie armate mazzi di chiavi
incredibilmente grandi appesi al collo.
Accolti dal capo catechista, Geoffrey Kamau, e dai suoi aiutanti,
siamo subito introdotti all’ufficiale di servizio. Ci controllano da capo a
piedi nel caso portassimo merce illegale. Mentre il pesante cancello metallico
si chiude dietro di noi, ho la sensazione che qualcosa mi sfugga, ma non riesco
a focalizzare cosa.
Dentro la struttura la mia attenzione è subito attirata dalle mura
alte almeno cinque metri e costellate dalle torrette delle sentinelle armate.
Nel cortile gruppi di detenuti ci guardano stupiti, mentre si annoiano nella
mattinata che non finisce mai.
Ci dirigiamo verso l’infermeria. Un’altra porta di ferro si apre e
chiude per noi, e lì, proprio di fronte a noi, vediamo un gruppo di carcerati
che canta allegramente le lodi del Signore. Non me l’aspettavo. Come si può
essere allegri a Kamiti? Mi dicono subito che si stanno preparando per la
messa.
Incontro Thomas N. che è qui da diciassette anni ed è convinto di
aver completamente cambiato la sua vita. Un giorno verrà liberato, questo spera
con tutto il cuore. Un desiderio impossibile da realizzare visto che è dentro a
vita per rapina a mano armata. In prigione ha scritto due libri (The Curse
e The Sweet sting) e ne ha altri cinque in cantiere. Sogna che qualcuno
gli doni un computer per scrivere più velocemente. Dice che i carcerati sono
uomini e non dovrebbero essere trattati come animali.
Un altro cancello si è aperto e chiuso. Siamo in un altro reparto.
Qui ci sono molte attività in corso: falegnameria, meccanica, sartoria,
lavorazione del cuoio, produzioni artistiche e stampa delle targhe delle auto.
Potrebbe essere chiamata «l’area industriale» di Kamiti. Alcuni dei lavori dei
carcerati sono stupendi. Riesco ad avere uno dei loro souvenir, un anello
multicolore in stile maasai.
Più in là c’è l’area della scuola: elementari, medie e superiori
sotto lo stesso tetto, le classi divise da tende di sacco. Determinazione è
dipinta sulle facce degli studenti e degli insegnanti. Hanno anche un giornale:
The Kamiti Times magazine. Tutti gli insegnanti sono carcerati, compreso
il preside, Albert Kitur, 17 anni di prigione. Ci sono 42 insegnanti e, nel
2012, 20 candidati per l’esame di terza media e 15 per la maturità.
Un altro cancello si apre e chiude rumorosamente. Ci troviamo in
uno degli affollati dormitori, chiamati blocchi. Qui solo gli affidabili
(carcerati premiati per buona condotta) hanno il privilegio di dormire in un
letto. Ben visibili nelle loro uniformi blu, sono un collegamento tra i
detenuti e le guardie. Tutti gli altri dormono sul pavimento quando il sole
tramonta.
Qui c’è anche un’area chiamata «Old Trafford» (come lo stadio del Manchester
United), un cortile dove i detenuti possono giocare a pallone, suonare,
prendere il sole e rilassarsi. Hanno perfino una Kamba boy’s band.
La visita è finita. Ho cercato di essere rilassato, rassicurato
dalla presenza di Christopher Wambua che è guardia e catechista, ma sono
contento di uscire da questo posto che mi dà i brividi, anche se tutti i
detenuti sono stati di una cordialità e gentilezza incredibili.
Finalmente il massiccio cancello d’entrata si chiude alle mie
spalle a conclusione della nostra visita, resa possibile dalla politica open
doors del governo e dalle riforme iniziate dopo il 2002 dal vicepresidente
Moodi Awori (che era anche umile parrocchiano del santuario della Consolata di
Nairobi).
E improvvisamente capisco. Ora so cosa mi è sembrato di perdere
mentre entravo: la libertà.
La vita in prigione è un tempo che non finisce mai, ma Peter
Ndungu (ergastolano), si considera fortunato perché è ancora vivo pur essendo
stato condannato all’impiccagione nel 1997. Quando la corte di appello aveva
confermato la sentenza, aveva avuto la certezza che fosse la fine.
Fortunatamente lasciò il braccio della morte nel 2009 quando il presidente
Kibaki commutò la sentenza in ergastolo per 4.000 condannanti a morte.
Quindici anni dopo quel fatidico 1997, Peter è un uomo cambiato.
Ci viene incontro con una vecchia copia del The Seed, un numero speciale
del 2002 dedicato al centenario dei missionari della Consolata in Kenya. Quella
copia è specialissima per Peter, non solo perché l’ha aiutato a rinforzarsi
nella fede, ma anche perché riporta un coloratissimo disegno (a biro) che lui
fece della Madonna col bambino (ricordo con emozione quella Madonnina! ndt).
«Una volta condannato a morte, mi sono reso conto che i miei sogni
erano svaniti nel nulla. Dovevo fermarmi, pensare e approfondire di più il mio
rapporto con Dio. Avevo grandi piani, invece di colpo mi trovavo sotto stretta
sorveglianza, perquisito a ogni piè sospinto, confinato in una cella e
autorizzato a prendere il sole solo per pochi minuti ogni giorno. Avevo grandi
ambizioni e improvvisamente era tutto finito».
Fortunatamente non era del tutto nuovo al cammino di fede. A suo
tempo era stato un membro attivo del gruppo giovanile della sua parrocchia.
Chiuso in cella, cominciò a riscoprire la scintilla di fede che pensava di aver
perso tanti anni prima. «Mi sono riavvicinato alla Chiesa. Ho avuto un sacco di
tempo per essere vicino a Dio. Mi sono messo a studiare la dottrina della
Chiesa e ho letto la bibbia da capo a fondo. L’esempio di persone come Giuseppe
e Daniele che come me erano passate attraverso la prigione, mi ha dato coraggio».
Da allora Peter è cresciuto spiritualmente fino a fare anche il
corso di catechista alla «Scuola cattolica di formazione spirituale» che,
dentro la prigione, dal 2010 forma animatori e accompagnatori spirituali per
aiutare i detenuti. Peter, ora catechista e accompagnatore, sa bene quanto sia
importante per i nuovi detenuti essere aiutati ad accettare e apprezzare il
processo di riabilitazione offerto in prigione sia dallo stato che da organizzazioni
religiose. Così spende gran parte del suo tempo aiutando soprattutto i giovani
ad accettare quel che sono senza perdere il rispetto di se stessi e la
speranza, perché senza di essa molti dei nuovi si lasciano andare e diventano
deboli e malati. «Quando ti trovi in una situazione come quella, si diventa
come fratelli e la fede in Dio ti aiuta a capire che quel che vivi è solo un
fallimento temporaneo. C’è vita oltre questo mondo».
Insieme ad altri detenuti, Peter ha aiutato a iniziare il «Prison
Entertaining and Counselling Group» che punta a coinvolgere i prigionieri
in un programma di teatro, danze e canti per incoraggiarli a non sprecare il
loro tempo e a valorizzare invece i loro talenti anche attraverso i molti corsi
professionali che la prigione offre.
Peter ha accettato la sua situazione, eppure continua a sperare di
poter ottenere, un giorno, il perdono presidenziale per tornare fuori, libero,
e partecipare al processo di costruzione della nazione. «Il miglior regalo che
la gente può farmi in questo momento è sostenermi con la preghiera, perché
attraverso la preghiera Dio compie miracoli. Ho un desiderio da esprimere a
tutti: accettate di nuovo nella comunità i detenuti che sono stati rilasciati.
Ricordate che la prigione è un po’ come un’officina, dove i carcerati, come le
macchine, sono riparati. In prigione hanno la possibilità di imparare molti
mestieri e, una volta fuori, possono guadagnarsi la vita se sono aiutati a
inserirsi e hanno la possibilità di praticare quello che hanno imparato. Molti
di noi siamo davvero dispiaciuti di quello che abbiamo fatto e desidereremmo
proprio essere riabbracciati dalla comunità se fossimo liberati. Penso che
nessuno di noi abbia voglia tornare alla vita criminale di prima, per questo è
importante il sostegno della comunità».
Incontriamo anche Sammy Musembi, anni 38. Era sposato e padre di
due bambini quando è stato arrestato nel 1998. Non era battezzato anche se nato
in una famiglia cristiana e sposato con una cattolica. Anche lui è stato dieci
anni tra i condannati a morte prima che la sua sentenza fosse commutata in
ergastolo. È profondamente convinto che Dio avesse un piano preciso su di lui
nel volerlo in prigione. Secondo lui, se non fosse stato per la prigione, non
avrebbe mai conosciuto Dio, perché il suo stile di vita e la compagnia che
frequentava non glielo avrebbero permesso. «Avessi continuato con lo stesso
stile di vita, sarei già morto». Fortunatamente quando l’hanno arrestato per
rapina a mano armata, si è trovato in una cella con dei compagni cattolici. «Pregavano
mattina, mezzogiorno e sera, e tenevano perfino discussioni sulla bibbia. Sono
rimasto profondamente colpito e mi sono unito a loro per cambiare la mia vita».
Sammy, che riconosce il crimine per cui è stato condannato, fu battezzato nel
2002 e cresimato nel 2004, e poi ha fatto il corso per diventare catechista. «Ho
imparato tanto qui dentro. Mi son reso conto che la mia vita passata non era
certo da stinco di santo. Ora sono davvero cambiato. Ho anche scritto lettere
alle persone che ho danneggiato chiedendo il loro perdono». Sua madre, pur
protestante, è stata contentissima che lui diventasse cattolico e gli ha
regalato la sua prima bibbia nel 2003.
Ogni giovedì una Peugeot bianca si ferma davanti alla porta fortificata
della prigione di massima sicurezza di Kamiti. La guida p. Eugenio Ferrari, una
figura ben nota alle guardie. Il suo interesse è la salvezza e la dignità delle
persone chiuse dentro quelle mura che ospitano alcuni dei peggiori criminali
della nazione: assassini, ladri, rapinatori, gente che ha distrutto e
ingannato, causando pene infinite a migliaia di altri concittadini. La lista
delle loro malefatte è lunga.
È questa gente che p. Eugenio va a incontrare. Li chiama
affettuosamente i suoi buddies (amici/compagni). È così affezionato a
loro che se, per qualche ragione, deve saltare l’appuntamento settimanale se ne
cruccia tantissimo. C’è una cosa che continua a stupire questo prete italiano
nelle sue estenuanti visite settimanali: come possano persone come quelle,
condannate a morte o in prigione da così tanti anni da aver perso il conto,
essere così giorniose e partecipare all’eucaristia con tanto entusiasmo e un coro
fantastico, e come possano credergli quando dice loro che Dio li ama e aspetta
che loro ritornino a Lui. «È gente fantastica. La Messa e il sacramento della
riconciliazione trasformano la loro vita umana e spirituale. Si sentono davvero
persone umane e non cose che languiscono in prigione». In tutti questi anni p.
Eugenio ne ha battezzati a centinaia e confermati tanti. Innumerevoli sono le
confessioni ascoltate che non condividerà mai con nessuno. «Non rivelerò mai
cosa succede nell’animo di un peccatore pentito. È incredibile come la Grazia
di Dio lavori dove “abbondava il peccato”, come dice s. Paolo».
Il missionario offre molto più che semplice speranza ai detenuti.
Ha una parola buona per tutti, indipendentemente da tribù o religione. Li
visita nell’infermeria, celebra la messa nel braccio della morte, si preoccupa
anche delle guardie e mobilita ogni persona che conosce nel suo ministero di
umanizzazione. A Natale e Pasqua – e non solo -, con l’aiuto di amici e dei
parrocchiani del santuario della Consolata in Nairobi, porta pane per tutti e
poi oggetti per l’igiene personale, medicine, abiti caldi da vestire sotto la
divisa (fa molto freddo a Nairobi tra giugno e agosto), e cancelleria per chi
studia e deve fare gli esami statali. Non mancano poi palloni, riviste, libri e
carte da gioco. In questa maniera vuol dimostrare loro che, se anche hanno un
passato non proprio esemplare, Dio li ama come figli suoi, e che hanno una
dignità uguale a quella di ogni altro uomo.
Di Michael Kalunde, Lourine Oluoch, Daniel Kikonde e Agnes
Mwonjaru. Servizio speciale pubblicato su la rivista The Seed, 8-9/2012. Traduzione e adattamento di Gigi Anataloni.
A cura di Gigi Anataloni