Che le tue Mani aiutino il Volo

La scomparsa del dottor
Giuseppe Meo.
Mi è rimproverata una parzialità acritica a favore dei poveri, degli
ultimi. Ebbene, può darsi, anzi è vero: non sono obiettivo, non sono
imparziale, sono schierato dalla loro parte. Non solo: non saprei essere
diverso, sono sempre stato così. E non mi interessa cambiare. È la scelta preferenziale
dei poveri in quanto portatori degnissimi di diritti. Vorrei che li mettessimo al centro, impostare
tutto a partire dai loro bisogni. Non una forma qualsiasi di solidarietà.

Il dottor Giuseppe Meo, Pino, ci ha lasciati
il 28 gennaio scorso a 75 anni. Un male incurabile, scoperto a giugno durante
una sua ennesima missione chirurgica in Sud Sudan, gli è stato fatale. L’ultimo
intervento sulle pagine di MC lo fece per l’indipendenza del Sud Sudan (MC,
marzo 2011). Vogliamo ricordarlo nella sua semplicità, ma pure nella sua
grandezza di medico, di uomo, di formatore, di pioniere. Un riferimento, anche
per chi, pur non essendo chirurgo, cerca quotidianamente di mettere insieme le
forze per lottare a favore dei più poveri. E non sempre trova l’energia necessaria.

Ma la storia di Pino Meo continua. Lascia un metodo, la «chirurgia
povera», e lascia un’organizzazione, il Comitato Collaborazione Medica, che
porta avanti la sua opera. E il suo sorriso disarmante e un po’ malinconico continuerà ad
accompagnarci.

Abbiamo pensato di ricordarlo attraverso le sue parole, stupende,
raccolte nel libro «Africa Malata. Memorie di chirurgia povera in Sudan», una
perla di rara profondità e umanità, di cui proponiamo alcuni brani.

Grazie Pino.
La redazione MC
 

Dopo tanti anni nella
memoria rimane indelebile il ricordo dei «miei malati», un’antologia di tenere
immagini imbevuta di compassione, un diario visivo di ritratti intensi. Sono
esistenze che non si riescono ad archiviare. Le loro sofferenze ti penetrano. È
una compassione che nasce dal privilegio della condivisione diretta. Il tema
del «malato povero» è intrecciato con un’altra condizione precaria e un’altra
sofferenza, quella della chirurgia «povera». Tale secondo attore non è il
protagonista, è subalterno al primo, non ha vita propria, vive per il malato,
da lui riceve la tensione emotiva che gli è essenziale e gli dà senso. È una
seconda proiezione diversa e sovrapposta alla prima, quella dei malati, una
doppia ottica. Il Sud Sudan ha un fascino misterioso che gli deriva dai suoi
forti contrasti: il senso della dignità delle persone e la loro povertà
estrema, le siccità e le piogge furiose, le grandi mandrie e le carestie,
l’amore per i bambini e gli orrori della guerra. Sta di fatto che il Sudan è
teatro di molti ricordi perché è diventato «casa mia» e la sua gente è «la mia
gente». Si racconta [in questo libro], fra l’altro, di personaggi, episodi e «missioni
sul campo», nella speranza di rendere più comprensibile la testimonianza di
questi due mondi intrecciati l’uno all’altro: il mondo dei poveri, abisso di
sofferenze e di umiliazioni, ma anche rete di vite umane bellissime e piene di
dignità, e il mondo in crisi della cooperazione internazionale, ingarbugliato e
pieno di contraddizioni, ma colmo di sacrifici personali.

Tigania, Kenya, 1969

Scopro il valore inestimabile delle cure chirurgiche di base in
Africa. La tempestività e l’efficacia della chirurgia di urgenza, la sua
capacità di essere inderogabilmente definitiva hanno del miracoloso. È un lampo
che mi cambia la vita. Mi invento la decisione di fare della chirurgia per i
paesi a basso reddito l’asse portante della mia attività professionale, della
cura del povero del Terzo Mondo il tema della mia vita. È anche il rifiuto di
una vita incanalata, garantita, assicurata, sempre uguale, a favore di un
mestiere che ti sfida, ti preoccupa e ti tiene costantemente impegnato.

«Che le tue mani aiutino il volo, ma non si permettano mai di
sostituire le ali» invitava Helder Camara, l’arcivescovo brasiliano precursore
della Teologia della Liberazione. Mai l’aspetto tecnico sacrifichi la relazione
personale e la dimensione ideale dell’agire. Scopro la preghiera del chirurgo
inglese, per avere «gentilezza nelle mani, intelligenza nella mente, simpatia
nel cuore, che sappia fare onore al mio lavoro che guarisce». La preoccupazione
che la dimensione tecnica non prevalga su quella personale e sociale riguarda
non soltanto il lavoro chirurgico, ma tutta l’attività di cooperazione. I tre
elementi personale, ideale e tecnico non hanno senso se non sono in sinergia
fra loro. La dignità delle persone non è mai negoziabile.

Il rispetto del malato non ammette eccezioni, è un imperativo
etico assoluto. La chirurgia sul campo, in particolare in Sud Sudan, sarà il
filo conduttore del mio impegno di medico in Africa.

Il volontariato medico nei paesi poveri regala momenti di vera
serenità, di pace piena con se stessi e con gli altri. Paiono frammenti della «gioia
perfetta del pellegrino in cammino», pezzetti di una felicità data in premio
discreto e silenzioso. Carlo Maria Martini ricorda che «gioia perfetta non
vuole dire non condividere il dolore per l’ingiustizia, per la fame nel mondo; è
una gioia più profonda, dalla quale ci dispensiamo troppo facilmente pensando
che non sia per noi…».

È imbarazzante parlare di sé, è difficile trovare il giusto tono
per confessare vissuti coinvolgenti. In effetti, la mia è una gioia che non
teme di piegarsi sulle sofferenze altrui, ma – lo riconosco – ne rimane
trascinata perché fortemente condizionata dalla salute dei miei pazienti. Con
la loro sofferenza ho sempre avuto un rapporto appassionato ma appeso al filo
tagliente della domanda: «Guarirà? Ce la farà?».

La chirurgia richiede di mescolare coraggio e umiltà, ardimento e
paura. Quale intervento sceglieremmo se, invece di essere i chirurghi, noi
fossimo i pazienti?

L’abisso fra ricchi e poveri

Il mondo dei poveri è così lontano dal nostro che tutti gli
indicatori di questa inaccettabile disuguaglianza e tutte le immagini della
loro sofferenza, pur così frequenti sui media, finiscono col non dirci più
nulla. Il lavoro in Sud Sudan ci ha insegnato molto sulla sofferenza degli
oppressi. Il confronto con una realtà di bisogno gravissimo, in un ambiente di
inimmaginabile arretratezza e isolamento e di precarietà assoluta dei servizi
sanitari è stato oltremodo istruttivo. Il Sudan ci ha fatto incontrare la fame
e le carestie che uccidono, le capanne buie e spoglie, la mancanza di tutto, la
lebbra e le malattie tropicali, la tubercolosi e le polmoniti, le giovani donne
che muoiono di rottura di utero e i bambini in coma per malaria cerebrale. La
salute non è un diritto individuale, ma un bene indivisibile dell’intera umanità.
Nel villaggio globale il collasso di una parte del mondo non può non
riflettersi sul suo intero. Questo tema chiama tutti a un impegno concreto che
deve partire dalla consapevolezza delle disuguaglianze, delle loro cause e dei
loro meccanismi. La comunità scientifica è chiamata ad analizzare e a
diffondere i temi dell’equità, dello sviluppo sostenibile, della difesa della
dignità umana e della vita delle persone. Noi, operatori sanitari sul campo,
abbiamo il dovere perentorio della denuncia, perché di questi fenomeni siamo testimoni
diretti e l’informazione e la sensibilizzazione sulle problematiche del
sottosviluppo sono nostri compiti istituzionali.

Oggi si riconosce che la logica del profitto e la globalizzazione
del mercato hanno prevalso sulla globalizzazione dei diritti e che le
istituzioni finanziarie inteazionali Banca Mondiale e Fondo Monetario
Internazionale, sostituitesi di fatto all’Organizzazione Mondiale della Sanità
(Oms) nel guidare la politica sanitaria, hanno aggravato le disuguaglianze,
perché hanno indicato la stessa come una variabile dipendente della crescita
economica. Come condizione per accedere ai prestiti e aiuti inteazionali sono
stati imposti «aggiustamenti strutturali» quali la liberalizzazione del
commercio, il taglio della spesa sociale, l’introduzione di ticket e delle
assicurazioni private e la privatizzazione dei servizi con il risultato di
smantellare i servizi sanitari nazionali. Il Rapporto della Commissione
Macroeconomia e Salute dell’Oms del 2001 riconosce che la prima causa del disastro
sanitario che colpisce gran parte dell’umanità è la povertà estrema e che la
salute dipende anche, come noto da decenni, da agricoltura, alimentazione,
accessibilità all’acqua salubre, istruzione. Il Rapporto considera
principalmente una strategia consistente in interventi sanitari essenziali e
afferma che l’investimento nella salute deve essere prioritario, non secondario
agli interventi economici. In quanto strumento di lotta alla povertà, può
salvare milioni di vite umane, indurre di per sé sviluppo economico e
promuovere sicurezza globale, ma la comunità internazionale deve investire
molto di più. La cooperazione internazionale con i paesi poveri non è un dono
munifico dei paesi sviluppati, bensì un loro dovere preciso sancito dalla
legislazione internazionale e ratificato dai membri delle Nazioni Unite.

Programmi sanitari poverissimi

Il Ccm (Comitato Collaborazione Medica, vedi
riquadro), proprio sulla base della sua esperienza di lavoro in Sudan e della
consapevolezza che la povertà sopravvivrà di certo per molti decenni, ritiene
che si debba prendere coscienza della necessità di un progetto nuovo che
inventi una medicina diversa, applicabile anche agli ambienti più arretrati.
Non la medicina a tecnologia sofisticata, «neocoloniale», che crea dipendenza
dai paesi ricchi, ma quella a tecnologia povera, a misura d’uomo, che in virtù
della sua semplicità di uso può essere adoperata da molti. Una medicina che sia
scambio di culture e di conoscenze diverse. Inventare una medicina che trovi
una sua dignità nel servizio alle comunità, nell’essere esercitata dalla sua
gente senza istruzione.

È chiaro che lo sviluppo di questi popoli non
passa attraverso l’imitazione di modelli occidentali, irraggiungibili, e per di
più estranei alla cultura e alla storia locali. Gli aiuti inteazionali e le
Ong non devono alimentare il narcisistico scimmiottamento dei paesi
industrializzati, che sono visti dai Pvs (Paesi in via di sviluppo, ndr)
come modelli di riferimento proprio perché depositari di beni tecnologici.

Importante è lo sforzo di dare dignità alle
persone insegnando loro un mestiere, perfezionando le competenze professionali.
Il gergo della cooperazione lo definisce «costruzione di capacità». La
ricchezza più importante che i programmi sanitari devono portare è la capacità
di curare i malati. I volontari di villaggio impiegati con sorprendente
successo nelle nostre campagne sanitarie sono esempi di quali importanti
risultati si possano raccogliere anche fra le persone con basso tasso di
scolarizzazione e nei contesti lavorativi culturalmente più miseri.

Costruzione di capacità, partecipazione comunitaria e tecnologia
appropriata sono, intrecciati fra loro, i principali strumenti per raggiungere
in futuro l’indipendenza dall’aiuto esterno, il cosiddetto «sviluppo
sostenibile».

Qualunque intervento nelle situazioni di povertà estrema è non
soltanto attuabile, ma ha una sua grandezza come atto di rispetto verso i più
poveri, cui è offerto per alleviare le loro sofferenze e come opportunità di
riscatto dalla miseria. Gli inaccettabili squilibri fra Nord e Sud del mondo
sono destinati a perpetrare, per molti decenni ancora, la tragedia dei milioni
di persone che soffrono e muoiono di fame e malattie prevenibili, fra promesse
non mantenute e aiuti insufficienti. Il nostro intervento, inoltre,
contribuisce a donare dignità alle povertà locali, umane e materiali, alle
persone e alle loro misere cose.

Nonostante il timore di penetrare, senza avee legittimazione né
titolo, nel territorio accademico della chirurgia ufficiale, la nostra ormai
lunga esperienza sul campo ha originato un’identità nuova che si potrebbe
chiamare «chirurgia povera».

La tragedia sanitaria dell’Africa ha una gravità inaccettabile. Il
continente ha un carico di malattia pari al 24% del totale mondiale, ma dispone
soltanto del 3% del personale e dell’1% delle risorse finanziarie mondiali. Si
stima che l’Africa subsahariana manchi di un milione di operatori sanitari. I
chirurghi sono molto pochi. Una soluzione, almeno a breve termine, è addestrare
«non dottori» a fornire servizi chirurgici di base a livello distrettuale.

Missionari

A Yirol (Sud Sudan, ndr) ero ospitato dalla missione
comboniana. Numerosi missionari e suore comboniani, soprattutto italiani,
continuano a spendere la vita intera in Sud Sudan per alleviare le sofferenze e
portare istruzione. I missionari di Yirol, monsignor Cesare e i padri Giuseppe
e Mario, che mi ospitavano nei miei primi viaggi in Sudan, erano capaci di un
calore umano e di una spontaneità eccezionali. La bontà e la correttezza erano
stampate sui loro volti di persone semplici. Erano, sono, tipici rappresentanti
di quell’universo di missionari che «a piedi nudi», nella discrezione,
percorrono il mondo in soccorso degli umiliati, spendendo interamente se stessi
senza enfasi e senza riconoscimenti.

«Queste persone, che si ignorano, che giustificano chi fa loro del
male, che preferiscono che abbiano ragione gli altri, stanno salvando il mondo»
recita un aforisma di Borges. In effetti, sono loro, che pure hanno scelto la
mitezza, la virtù dei perdenti, (…) che hanno salvato il mondo dalla scomparsa
della religione, dall’eclissi del sacro, che i progressi della
secolarizzazione, avvenuta nel corso del XX secolo, facevano presagire si
sarebbe estesa dall’Europa a tutto il mondo. In futuro la maggior parte dei
cristiani non sarà in Europa, ma in Africa, Asia e America Latina, proprio per
effetto dell’azione della chiesa missionaria, che non si è data soltanto il
compito di salvaguardare lingue e tradizioni, ma ha saputo incarnarsi nella
vita della gente e inserirsi nelle culture locali mediante un processo
autentico di «inculturazione».

Questo «nuovo» cristianesimo del Sud del mondo, ha ben altra
vitalità e coscienza della propria forza rispetto al cristianesimo occidentale
euro centrico a cui si sostituisce. Non potrà non influenzare di sé
l’occidente.

Se aiuto un uomo

Sono amico dell’uomo soltanto quando ne aiuto qualcuno. La
parzialità è precondizione dell’efficacia dell’azione. Concentrare l’azione in
un’area permette di non cadere in sterili slanci retorici. La solidarietà
efficace è un’azione portata là dove serve, focalizzata in alcune aree
geografiche precise e a sfere circoscritte di relazioni umane. Allora fare
volontariato in Africa significa incontrare l’altro, il nostro prossimo che
vive lontano. Non evasione, ma ricerca dell’altro per soccorrerlo.

Se riusciamo a salvare la vita di un solo bambino non è forse un
atto di valore universale?

Avere per amici, oltre alle persone vicine, altre lontane e avere
una seconda patria, una patria «del cuore», a distanza di migliaia di
chilometri (geografia «affettiva») significa dare concretezza alla solidarietà
e, nello stesso tempo, ampliare il proprio universo al di fuori di noi stessi,
oltre i confini delle frontiere e delle razze.

Amiamo il contatto diretto con le comunità e
con le persone, la solidarietà della presenza, la condivisione, anche se
limitata nel tempo, delle tribolazioni che loro vivono ogni giorno, perché
questa prossimità ci assimila e ci dà capacità di ascolto e un minimo diritto
di confronto. Ne ricaviamo il privilegio di una vita «mischiata» alla gente,
lontana da ogni potere e da ogni ricchezza, che ti mette in una rete di
fratellanze e ti permette di collaborare umilmente, senza alzare alcuna
bandiera, a un’opera di giustizia «affinché la modestia dei deboli abbia la
meglio sull’arroganza dei forti». Allora si stabilisce un legame che ha
qualcosa di sacro. Dobbiamo coltivarlo in noi, pur consci della piccolezza
della nostra azione di fronte alla grandezza della dignità del povero, per
disegnare un pezzetto della trama della sua vita.

L’Africa ci può consegnare un ideale pieno di dignità, qualcosa più
grande di noi per cui vivere. Percorrerò questa strada una sola volta: che
questa mia vita abbia un minimo di senso, anche se nascosto a molti.

Giuseppe Meo
 
Biografia


Una Storia Esemplare

Dal primo viaggio di conoscenza in Africa nel 1969,
all’ultimo, a Bunagok, Sud Sudan, giugno 2012. 
Quarantatré splendidi anni al servizio dei più poveri. Chi era Giuseppe
Meo. Nato nel 1938, laureatosi a Torino nel 1962, e poi
specializzatosi in chirurgia d’urgenza e toracica, fondò nel 1968 con un gruppo
di amici e colleghi il Comitato Collaborazione Medica (Ccm) di Torino, Ong
dedicata allo sviluppo sanitario.

Dopo il suo primo periodo di lavoro medico in un ospedale
rurale in Kenya negli anni 1970-1972 con la moglie Carla e i figli Alberto,
Antonella e Daniela, la pratica della medicina e della chirurgia in Africa
divenne il motivo profondo della sua vita.

Fece numerose missioni chirurgiche in diversi paesi, Sud
Sudan, Uganda, Mozambico, Etiopia, accanto al lavoro come chirurgo
nell’ospedale di Cuneo in Italia, da cui si dimise nel 2000 per dedicarsi
completamente all’attività nel Ccm. Grazie al prof. Meo l’Ong cominciò la sua
attività in Sud Sudan nel 1984, nella città di Wau nello Health Training
Institute, e dal 1991, a seguito di una richiesta del Splm (Sudan people
liberation mouvement), nelle zone liberate del Sud Sudan durante la guerra,
fondando e costruendo, insieme alle comunità locali e alle autorità Splm gli
ospedali rurali e i centri di salute di Yirol, Billing, Adior, Turalei,
Bunagok, ricostruendo e rimettendo in attività l’ospedale di Rumbek dopo la
distruzione della guerra e facendo numerose missioni chirurgiche in aree
remote. Il prof. Meo con il Ccm è stato accanto al popolo sudanese in tutti gli
anni di guerra. Durante una di queste missioni nel 1995 fu catturato
dall’esercito governativo del Sudan in Upper Nile e tenuto prigioniero per 55
giorni.

Nel corso degli anni il destino del prof. Meo (chiamato
Mayodit in Sud Sudan) si è fuso con il destino del popolo sud sudanese. Il
motivo dominante della sua incessante attività, in Sud Sudan e in Italia, è
stato «portare le cure chirurgiche a quelli che ne hanno più bisogno, i poveri
e le comunità rurali, anche nelle condizioni più difficili».

I tre principi operativi a cui si è ispirato il suo lavoro
sono stati costantemente: la partecipazione della gente, della comunità locale;
la formazione e la crescita del personale locale; la tecnologia appropriata,
perché le risorse sono poche e bisogna sfruttarle nel modo più efficace ed
economico. Con questi principi il prof. Meo ha dato un grande contributo a
estendere la chirurgia di base in aree molto remote, fino ad allora mai
servite.

Ha anche dato dignità scientifica a questo lavoro,
presentandolo in convegni e riviste mediche inteazionali, rendendolo noto
alla comunità chirurgica internazionale. Era orgoglioso, negli ultimi mesi, di
aver contribuito al Southe Sudan Medical Joual, e la morte l’ha colto
mentre aveva progetti di estendere questa preziosa collaborazione.

Il popolo sudanese, insieme al Ccm, perde un grande amico e
compagno di viaggio. Il prof. Meo ci lascia con la sua vita e la sua attività
un forte messaggio: si può lavorare con buoni risultati anche nelle condizioni
più difficili, se si rispetta la dignità di ogni uomo.

Francesco Torta
 
Il libro
 
«Africa Malata. Memorie di chirurgia povera in Sudan».


L’Harmattan Italia, 2010, pagg. 296, € 35.
 
Il libro può essere acquistato presso il Ccm, per info: tel. 011.6602793 www.ccm-italia.org.

Da questa pubblicazione sono stati tratti i brani usati in
questo articolo.

Giuseppe Meo