missionari tra i mongoli
L’espansione dell’impero
mongolo, inglobando quasi tutto il continente asiatico e parte dell’Europa
orientale, nel XIII e XIV secolo, dapprima provocò spavento nella cristianità,
poi si rivelò occasione provvidenziale, garantendo sicurezza e stabilità
economica ai missionari e commercianti che raggiunsero le capitali imperiali.
Purtroppo l’evangelizzazione fu faticosa e poi stroncata nel momento di maggior
successo.
In tutta Europa, nel
1241, risuonava il grido «la cristianità è in pericolo», quando il generale
mongolo Batu, invasa l’Ungheria, distrutta Zagabria, saccheggiata Spalato, si
affacciava sulle sponde dell’Adriatico, mentre l’ala destra del suo esercito
marciava su Vienna.
In pochi anni, Gengis Khan (1162-1227) e i suoi quattro
figli avevano costruito l’impero più vasto della storia, dalla Corea alla
Polonia, dal Mar Giallo al Golfo Persico, passando per l’Asia centrale e le
vallate dell’Indo. Il passaggio dei mongoli (o tartari) seminava dappertutto
terrore e morte: città ridotte a cumuli di macerie; abitanti sgozzati come
capre o deportati come schiavi. La stessa sorte era toccata a molti cristiani
russi, polacchi, ungheresi.
Contro il pericolo giallo papa Gregorio IX invocava
invano una crociata: l’imperatore Federico II era in rotta di collisione col
pontefice; i principi cristiani in totale anarchia. Non restava che sperare
nella provvidenza. E infatti, alla fine del 1241, l’improvvisa scomparsa di
Ogodei Khan, successore di Gengis Khan bloccò l’avanzata mongola, poiché
principi e generali dovettero precipitarsi a Karakorum, la capitale dei mongoli
per eleggere il nuovo sovrano.
Ben presto l’impero si divise in quattro regni o
khanati, che nel tempo acquistarono sempre maggiore autonomia.
Al concilio di Lione (1245), la «sevitia Tartarorum»
fu considerata tra i cinque principali dolori che affliggevano la Chiesa, per
cui il «remedium contra tartaros» fu posto subito all’ordine del giorno.
Scartata l’idea di una crociata, papa Innocenzo IV vide nell’espansione dei
Mongoli una nuova sfida missionaria e inviò un’ambasceria, con lo scopo di
convertirli al cristianesimo o averli almeno alleati contro i musulmani per
liberare la Terra Santa. La legazione fu affidata al francescano Giovanni da
Pian di Carpine.
«Uomo familiare e spirituale, letterato e grande
prolocutore», come lo definisce Salimbene da Parma, impegnato per vari anni nel
diffondere l’ordine francescano nell’Europa centrale e settentrionale, fra’
Giovanni aveva sviluppato notevoli capacità diplomatiche e temprato fisico e
carattere alle situazioni più impensabili: per papa Innocenzo IV era la persona
ideale per guidare un’ambasciata al gran khan dei Mongoli.
Partito da Lione il 16 aprile 1245, in compagnia di
Stefano di Boemia e più tardi di Benedetto di Polonia in qualità di interprete
di lingue slave, il messo pontificio raggiunse la Polonia e proseguì per Kiev,
dove Stefano di Boemia si ammalò e dovette interrompere il viaggio. Grazie
all’aiuto di principi russi, che procurarono loro dei cavalli tartari, capaci
di brucare l’erba anche sotto la neve, i due religiosi raggiunsero gli
avamposti dei Mongoli sul Volga, dove tradussero in persiano le lettere papali
destinate al Gran Khan.
Dopo aver percorso migliaia di chilometri attraverso le
sterminate steppe centro-asiatiche, «equitando quanti equi poterant ire
trotando… de mane usque ad noctem, immo de notte saepissime» (stando a
cavallo quanto i cavalli potevano andare al trotto… da mattina a sera e
spesso anche di notte), come racconta nella sua Historia Mongalorum,
cibandosi per lo più di miglio con acqua e sale, dopo aver interloquito, di
tappa in tappa, con i principali signori mongoli incontrati nel cammino, il 22
luglio 1246, dopo 15 mesi di viaggio, i due francescani arrivarono
all’accampamento di Guyuk Khan, nipote di Gengis Khan, non lontano dalla città
di Karakorum, proprio mentre fervevano i preparativi per l’incoronazione
ufficiale del nuovo sovrano.
Dopo quattro mesi di attesa, fra’ Giovanni fu finalmente
ammesso alla presenza del Gran Khan e poté consegnare il messaggio papale, che
invitava l’imperatore mongolo alla pace e alla conversione al cristianesimo.
L’accoglienza fu gentile; ma il missionario fu rimandato con un messaggio
inequivocabile: «Voi tutti, papa e imperatore, re e governanti, affrettatevi a
venire di persona e sentirete le nostre proposte di pace. Quanto a convertirci,
non ne vediamo la ragione… Voi abitanti dell’Occidente credete di essere i
soli a essere nella fede e disprezzate gli altri; ma in che modo sapete a chi
Dio si degnerà di conferire la sua grazia?». A fra’ Giovanni non restava che
riprendere a ritroso il percorso fatto all’andata; tra infiniti stenti
raggiunse Kiev e da lì Lione, nel novembre del 1247. L’anno seguente fu
nominato arcivescovo di Antivari, in Montenegro, dove morì nel 1252.
Altre legazioni papali e reali
Nonostante la mancata conversione dei Mongoli,
l’esperienza di fra’ Giovanni da Pian del Carpine ebbe una portata storica
impareggiabile: osservatore privilegiato e testimone effettivo del popolo
mongolo, egli fu il primo a farlo conoscere all’Occidente, con la sua «Historia
Mongalorum quos nos Tartaros appellamus» in cui racconta il suo viaggio e
soprattutto il mondo culturale e religioso della società mongola, la sua
storia, virtù e difetti, loro tecniche militari e perfino l’aspetto fisico (vedi
riquadro).
Nell’impero mongolo vigeva una certa tolleranza verso
tutte le religioni, benché i Mongoli seguissero prevalentemente credenze
sciamaniche. Anche la risposta del gran khan Guyuk alla missiva del Papa, tutto
sommato, aveva più sapore di orgoglio e indifferenza che di ostilità. Lo stesso
fra’ Giovanni aveva assistito alla celebrazione degli uffizi divini dei
nestoriani in una cappella che sorgeva proprio di fronte alla tenda del Gran
Khan; due ministri dell’impero mongolo erano cristiani nestoriani.
Altri missionari furono inviati con lettere del Papa e
di Luigi re di Francia. Uno di essi fu il domenicano francese Andrea da
Longjumeau: prima fu mandato da Innocenzo IV a evangelizzare i tartari del
khanato di Persia (1245-47), poi, nel 1249, Luigi IX lo inviò al gran khan
Guyuk per chiedere protezione verso i cristiani dell’impero mongolo e la sua
alleanza nella crociata per la liberazione dei luoghi santi. Andrea arrivò a
Karakorum che il Gran Khan era morto da mesi; offrì alla sua vedova, la
reggente Oghul Qaimish, doni preziosi, tra cui una reliquia della Santa Croce,
che accettò volentieri come segno di sottomissione e consegnò al frate una
lettera per Luigi IX, in cui invitava il re di Francia a considerarsi suo
vassallo e pagare un tributo annuo ai Mongoli. Rispetto alla missione di
Giovanni da Pian del Carpine non ci fu quindi alcun progresso. Tuttavia il
frate domenicano toò con molte informazioni sulla neutralità dei Mongoli in
materia religiosa e sulla forte presenza di cristiani nestoriani alla corte
dell’imperatore. Tali informazioni incoraggiarono Luigi IX a inviare un’altra
missione, nella speranza di convertire al cristianesimo tutta l’aristocrazia
mongola.
La nuova missione affidata nel 1253 al francescano fiammingo
Guglielmo di Rubruck, aveva carattere non solo missionario ma anche politico e
scientifico. Nelle sue lettere il re di Francia usò espressioni di cortesia
verso i re tartari, chiedendo che Guglielmo e il suo compagno fra’ Bartolomeo
da Cremona, potessero restare nei paesi da loro governati «per insegnare la
Parola di Dio». Al tempo stesso re Luigi chiese a Guglielmo di scrivere un
rapporto su tutto ciò che avrebbe potuto apprendere sui Mongoli.
Partiti nel 1253 da San Giovanni d’Acri alla volta di
Istanbul, i due missionari proseguirono verso la regione del Volga,
incontrarono il campo militare (orda) di Sartach, poi quello di suo padre Batu,
dove furono accolti con benevolenza, ma vennero indirizzati a Karakorum, poiché
solo il Gran Khan aveva potere di decidere circa le relazioni con i sovrani di
altri popoli. Raggiunto l’accampamento di Mongku, nipote di Gengis Khan e
successore di Guyuk, i due missionari entrarono in Karakorum nell’aprile del
1254. Guglielmo fece moltissimi incontri: ambasciatori di popoli tributari,
monaci nestoriani o buddisti, sciamani, prigionieri occidentali… Egli
organizza pubbliche dispute teologiche con sacerdoti buddisti: tutti ascoltano
senza fiatare, ma nessuno diceva di voler essere cristiano. Il missionario
riescì ad amministrare solo sei battesimi, tutti a figli di deportati.
Ammesso alla presenza di Mongku Khan, Guglielmo si sentì
spiegare che il sovrano non aveva bisogno del cristianesimo; gli bastavano gli
indovini, i cui consigli lo facevano vivere bene. A luglio dello stesso anno
ripartì, portando con sé la lettera per il re di Francia in cui Mongku gli
chiedeva la sua sottomissione. Dopo quasi un anno di viaggio, il missionario
raggiunse la Terra Santa, dove scrisse un rapporto preciso e dettagliato del
viaggio in forma di lettera per re Luigi: resoconto vivo e affascinante, uno
dei capolavori della letteratura geografica medioevale, intitolato Itinerarium
fratris Willielmi de Rubruquis.
Se dal punto di vista missionario e diplomatico furono
un fallimento, queste ambascerie ebbero altri risvolti positivi: le notizie
raccolte dai missionari svelarono all’Occidente un mondo ancora sconosciuto; le
loro imprese aprirono ai mercanti la strada verso il favoloso Cathay, come era
chiamata la Cina. Dove fallirono le missioni diplomatiche, riuscirono quelle
commerciali.
Nel frattempo, infatti, il nuovo gran khan Kubilai aveva
spostato in Cina la capitale del suo impero, conosciuta dagli europei col nome
turco di Khambaliq (città del khan), l’odiea Pechino. A contatto con
la civiltà cinese la cultura mongola conobbe una nuova fase. È quanto
testimoniano due mercanti veneziani, Nicolò e Matteo Polo: arrivati nella
capitale nel 1260, trovarono una corte variopinta e un imperatore ben disposto
e curiosissimo: «Dimandò di messere il Papa e di tutte le condizioni della
Chiesa romana e di tutte le usanze dei latini». E quando i due mercanti
ripartirono, dopo nove anni, Kubilai li pregò di ritornare e di portargli «un
po’ d’olio della lampada che arde sul sepolcro di Cristo», e affidò loro un
messaggio per il Papa, in cui chiedeva 100 uomini di scienza che istruissero i
tartari sulla religione cristiana.
Nel 1271 il papa Gregorio X mandò due domenicani,
insieme ai due mercanti veneziani, cui si era aggiunto il piccolo Marco, autore
del Milione; ma i frati tornarono subito indietro. Sei anni dopo furono
inviati quattro francescani, che sparirono nel nulla.
Nel 1287 un monaco nestoriano, Raban Sauma, arrivò in
Europa come ambasciatore dello stesso Kubilai Khan, per chiedere al re di
Francia un’alleanza contro i turchi e al papa di inviare missionari. Nicolò IV,
primo papa francescano, non esitò un istante: nel 1289 decise di mandare un
missionario già collaudato: fra’ Giovanni da Montecorvino.
Nato nel 1247 a Montecorvino, vicino a Saleo, «dottissimo
ed eruditissimo» come lo definisce il Marignolli, per 10 anni aveva predicato
il vangelo in Armenia, Persia e Tartaria settentrionale, operando migliaia di
conversioni. Tornato a Roma come ambasciatore dei re di quelle regioni presso
il papa, Nicolò IV lo nominò suo legato e lo inviò subito indietro, con 26
lettere credenziali da consegnare a re, dignitari ecclesiastici georgiani,
nestoriani, giacobiti, fino al gran khan della Cina.
Partito il 15 luglio 1289 insieme a un manipolo di
francescani e domenicani e al mercante genovese Pietro Lucalongo, fra’ Giovanni
raggiunse le regioni del suo primo amore missionario, consegnò a principi e
prelati le lettere papali e continuò dappertutto a predicare, istruire,
convertire e organizzare comunità cristiane.
Ripreso il viaggio via mare, si fermò in India per oltre
un anno; poi, sempre via mare, nel 1294 approdò insieme al domenicano Nicola da
Pistornia e a Lucalongo al porto cinese di Zaitung o Quanzhou; risalendo il
Canale imperiale, raggiunse Khambaliq e consegnò la lettera papale a Timur Khan
(Kubilai era morto quello stesso anno).
Come legato del papa, Giovanni da Montecorvino fu
accolto con tutti gli onori; gli fu concesso il privilegio di risiedere nella
città proibita; ebbe piena libertà di annunciare il Vangelo a mongoli e cinesi,
ai membri della famiglia imperiale e ai nestoriani. I frutti arrivarono subito:
una principessa, promessa sposa del gran khan, e il nestoriano principe
Giorgio, re di Tenduk, abbracciarono la fede cattolica.
Ma i nestoriani non gliela perdonarono. Presenti in Cina
da sette secoli e sparsi in 20 province settentrionali e orientali del celeste
impero, essi occupavano posti di rilievo nell’amministrazione e non avevano
alcuna intenzione di condividere i loro privilegi con l’ultimo arrivato e lo
calunniarono per cinque anni davanti alla corte del gran khan.
Finalmente scagionato da ogni accusa, riprese con
successo l’evangelizzazione di mongoli e cinesi. In una lettera ai confratelli
di Tabriz nel 1305, tirava qualche somma del lavoro svolto in 11 anni di
missione. «Ho amministrato il battesimo a 6 mila persone. Se non ci fossero
state le calunnie dei nestoriani, ne avrei battezzate altre 30 mila. E sto sempre
battezzando». Riuscì a convertire anche importanti personalità della corte, ma
non il gran khan, «ormai incallito nell’idolatria» come confessava lo stesso
monarca.
Rimase da solo per 13 anni, svolgendo un lavoro immenso
fino a erigere altre diocesi suffraganee. Ma in Occidente, con il papa in
esilio ad Avignone, nessuno si ricordava più di quel frate sparito nel nulla,
finché fra’ Tommaso da Tolentino, proveniente dalla Persia, arrivò ad Avignone
durante un concistoro e lesse le lettere di Montecorvino davanti al papa e ai
cardinali. Grande fu lo stupore nel sentire quelle meraviglie d’altro mondo. E
quando le lettere arrivarono nei conventi, molti religiosi si offrirono
volontari per raggiungere l’eroico missionario.
Papa Clemente V nel 1307 inviò alcuni missionari e 7
vescovi, per consacrarlo arcivescovo di Khambaliq e patriarca di tutto
l’Oriente «in toto dominio Tartarorum»; solo tre di essi giunsero a
destinazione due anni dopo. La consacrazione di fra’ Giovanni avvenne nel 1310
nella chiesa attigua alla reggia, alla presenza di Guluk Khan (succeduto a
Timur nel 1308) e di una folla incontenibile d’ogni razza e religione.
Nel 1325 un altro grande missionario francescano,
Odorico da Pordenone, dopo aver percorso innumerevoli regioni e isole dell’Asia
meridionale, raggiunse Pechino e per tre anni aiutò il vecchio Montecorvino.
Tornato in Italia per chiedere rinforzi per la missione in Cina, morì un anno
dopo il suo arrivo. Ma ebbe ancora il tempo di dettare a fra’ Guglielmo di
Solagna le sue memorie, intitolate: Relatio (relazione), un’opera che non ha nulla da invidiare al Milione
di Marco Polo e che diventò subito un best seller, tradotto in italiano,
francese e tedesco.
Fra’ Giovanni da Montecorvino morì nel 1328, a 81 anni,
compianto da cristiani e pagani, «venerato come santo da Tartari e Alani» come
scriveva Marignolli. Alla sua morte la Chiesa in Cina contava oltre 30 mila
fedeli. La sua opera fu continuata da una cinquantina di confratelli, ma non sopravvisse
per più di 40 anni, sia perché la peste nera del 1348 aveva decimato i frati
minori, impedendo l’invio di nuovi missionari, sia, soprattutto, perché la
dinastia Ming prese il potere (1368) e pose fine all’impero mongolo,
distruggendo la vecchia capitale Karakorum, ma senza riuscire a controllare il
territorio. Al tempo stesso il celeste impero chiuse i confini agli stranieri e
le cristianità si dissolsero, scomparendo lentamente nel nulla.
Benedetto
Bellesi
Scheda 1: Visti da vicino: Aspetto fisico, virtù e
vizi dei Tartari
«Il loro aspetto fisico è
diverso da quello di tutti gli altri uomini. Sono, tra gli occhi e le guance,
più larghi degli altri uomini, e le guance sporgono sulle mascelle. Hanno il
naso piatto e corto, gli occhi piccoli, e le palpebre che salgono sino alle
sopracciglia. Sono assai sottili di cintura, con poche eccezioni. Quasi tutti
sono di statura mediocre. La maggior parte hanno pochissima barba; alcuni
tuttavia hanno sul labbro superiore e sul mento qualche rado pelo che non
tagliano mai. Sulla cima del cranio, hanno una corona di capelli, alla maniera
dei chierici, e da un orecchio all’altro, su una larghezza di tre dita, tutti
si radono i capelli alla stessa maniera, ma lasciano crescere sino alle
sopracciglia i capelli che sono tra la corona e la rasatura; e da una parte all’altra
della fronte, hanno i capelli tagliati più che a metà; per il resto, li
lasciano crescere, alla maniera delle donne, e ne fanno due trecce che annodano
dietro l’orecchio. Hanno i piedi piccolissimi.
I detti uomini, ossia i
Tartari, sono assai più obbedienti verso i loro superiori, di quanto non lo
siano gli altri uomini… e li venerano grandemente, né osano mentire dinanzi a
loro. Contendono di rado a parole e mai con fatti. Guerre, risse, ferimenti,
omicidi, non avvengono mai tra di loro. Predoni e ladri di grandi cose non si
trovano tra di loro, perciò non usano chiudere con serrature o legature le loro
abitazioni e i carri entro i quali racchiudono il proprio tesoro. Se qualche
animale si disperde chiunque lo incontri, o lo lascia dove trovasi o lo
consegna a coloro che sono incaricati di raccoglierli. E i proprietari li
richiedono a questi, ottenendoli di ritorno senza nessuna difficoltà. Si
rispettano molto l’un l’altro e si trattano con grande famigliarità e per
quanto i viveri siano assai scarsi, pure se li passano volentieri… Le loro
mogli sono caste, né si sente mai dir nulla della loro impudicizia…
Essi sono quanto mai
altezzosi e sprezzanti verso gli altri uomini e li considerano pochissimo,
siano nobili, siano ignobili… Sono assai irosi verso gli altri uomini e
sdegnosi ed anche mentitori con gli stranieri…»
(Historia
Mongalorum, 1247).
Scheda 2: I Nestoriani in Cina
A portare per primi il
Vangelo nell’Estremo Oriente furono missionari comunemente detti nestoriani,
appartenenti alla Chiesa Siriaca d’Oriente, diffusa in Persia e Mesopotamia.
Guidati dal monaco persiano Alopen, essi portarono il cristianesimo in Cina nel
635, durante la dinastia dei «T’ang», alquanto tollerante verso le religioni
non cinesi. Il fatto è testimoniato dalla famosa stele di Si-ngan-fu, eretta
nel 782, scritta in lingua siriaca e caratteri cinesi, scoperta nel 1625.
Caposaldo della
metodologia missionaria dei cristiani orientali erano i monasteri. Si
sforzarono di presentare le verità cristiane, adattandole alla mentalità cinese
e assumendone la lingua; disponevano di una preziosa biblioteca: 230 libri, in
parte tradotti e in parte adattati da esperti. Alcuni di questi scritti furono
ritrovati nel 1908 nelle grotte di Tunhwang (ad esempio il libro Gesù Messia).
Questo primo tentativo di evangelizzazione durò fino all’845, allorché un
editto imperiale e relative persecuzioni ne decretarono la fine.
Ma durante i secoli
XI-XIII, grazie alla «pax mongolica», che garantiva a mercanti e
missionari di viaggiare in sicurezza attraverso l’impero di Gengis Khan, la
Chiesa d’Oriente riprese vigore e fu accolta da diverse tribù turco-mongole
dell’Asia centrale e settentrionale. Gruppi di cristiani orientali furono
segnalati da Marco Polo e dai missionari francescani nell’impero mongolo.
«Sappiate, padri miei –
disse un cristiano orientale nel XIII secolo – che molti dei nostri padri sono
andati nelle terre dei Mongoli, dei Turchi e dei Cinesi, a istruirli, tanto che
sono molti i Mongoli cristiani. Vi sono perfino figli di re e regine battezzati
che professano il Cristo e ci sono chiese presso di loro. Onorano assai i
cristiani, e molti di loro sono credenti».
Scheda 3: Sei secoli di grande vuoto
Con la perdita del potere per mano
della dinastia cinese dei Ming (1368), l’impero mongolo fu totalmente
disgregato e i clan rivali cominciarono a combattersi tra loro, soprattutto
nelle regioni dove l’impero cinese esercitava meno controllo.
Nel XVI secolo,
sotto Altan Khan, i principi mongoli abbracciarono il buddismo tibetano,
sistema di scrittura compreso, per non essere totalmente assorbiti nell’impero
cinese. Un secolo più tardi, sotto la dinastia Qing (1636-1911), il territorio
abitato dai mongoli fu diviso in due province: Mongolia interiore, rimasta
sempre legata all’impero cinese, e Mongolia esteriore, che ebbe un regime si
semiautonomia e, caduta la dinastia Qing, diventò oggetto di contesa tra cinesi
e russi, riducendosi nei confini attuali. Intanto cresceva il nazionalismo dei
suoi abitanti, che nel 1921, con l’appoggio della Russia, si dichiararono
indipendenti, formarono il proprio governo nel 1924, dando origine alla
Repubblica popolare di Mongolia, di stretto stampo sovietico: per 70 anni i
mongoli subirono l’ingerenza e la dittatura comunista dell’Urss, senza peraltro
entrare a far parte formalmente dell’Unione Sovietica.
Dal 1368 al 1990
nella Mongolia esteriore non si ha alcuna traccia di presenza cristiana. Nel
1864 Propaganda Fide incaricò i missionari Lazzaristi e di Scheut
(Congregazione del Cuore Immacolato di Maria) di evangelizzare l’intera
Mongolia, ma non poterono lavorare che nella Mongolia interiore. Nel 1922 la
Santa Sede eresse la missione sui iuris di Urga (rinominata Ulaanbaatar
dai comunisti), affidandola ai missionari di Scheut, ma il cambiamento politico
impedì loro di entrare. Il nuovo regime cancellò ogni segno religioso,
distrusse luoghi di culto, trucidò migliaia di monaci, abbatté monumenti
storici, sostituendoli con statue di Lenin e Stalin. Fu perfino proibito di
pronunciare il nome di Gengis Khan, eroe nazionale e «divinità» popolare.
Con l’avvento della perestrojka
sovietica, anche in Mongolia iniziò la svolta democratica, con libere elezioni
(1990) e con l’entrata in vigore di una nuova costituzione (12 febbraio 1992),
che garantisce libertà di religione. Nel frattempo una delegazione del governo
mongolo si presentò in Vaticano per chiedere di allacciare relazioni
diplomatiche con la Santa Sede, dicendo che sarebbe stata ben accolta la
presenza e il contributo di missionari cattolici alla ripresa della società
mongola.
Il 4 aprile 1992
Santa Sede e Mongolia stabilirono le relazioni diplomatiche; tre mesi dopo
arrivarono a Ulaanbaatar tre missionari di Scheut per riprendere
l’evangelizzazione del popolo mongolo, colmando così un silenzio storico durato
oltre sei secoli.
Benedetto Bellesi