Strage di Innocenti Violenza contro donne e minori: emergenza mondiale

Sembra impossibile, ma soprattutto
sconcerta e rincresce constatare come possa esistere tanta violenza contro le
donne in ogni parte del mondo, specialmente in Asia e in Africa. Una suora
missionaria irlandese, Maura O’Donohue, il cui lavoro di medico nel campo
dell’Hiv/Aids l’ha portata in Thailandia, Corea, Taiwan e India, è rimasta
sconvolta quando è venuta a conoscenza della giovane età di molte bambine
sfruttate sessualmente dai militari. E ancora di più quando si è resa conto del
numero di bambine e bambini costretti a entrare nel giro del commercio del
sesso per soddisfare le richieste dell’industria del turismo.

«Questa
attività criminale – ha scritto sulla rivista Concilium (3/2011, 62-63)
– è fortemente organizzata e ha la capacità di cambiare le sue strategie non
appena le strutture investigative e giudiziarie delle varie nazioni si
concentrano su di essa». Come suora missionaria e medico, che collabora con una
rete di organizzazioni impegnate nella lotta contro questo fenomeno, suor Maura
è giunta a pensare «che quella realtà rappresenti l’avanguardia della missione
della Chiesa oggi».

A cadere vittime dei trafficanti
del sesso non sono solo bambine e bambini di famiglie povere, ma anche giovani
donne provenienti da ambienti sociali, culturali e religiosi diversi, come
Iris, una studentessa universitaria poco più che ventenne. Quando fu rapita,
venne subito drogata per costringerla a sottomettersi; fu poi segregata in case
di appuntamento e, per sopportare la routine quotidiana di rapporti
sessuali con uomini di ogni ceto sociale, giunse al punto di aver continuamente
bisogno di eroina per rimanere intontita.

Suor Maura racconta altre storie
di donne e ragazze vittime di trafficanti, come quella di Amina, rapita dal
collegio a 14 anni insieme a un gruppo di compagne. Amina venne usata come
scudo umano nella lunga marcia verso il fronte di guerra. Sospettata di aver
tentato la fuga, fu condannata a duecento frustate. Nel frattempo aveva avuto
due figli, frutto della violenza cui l’aveva sottoposta l’ufficiale militare,
che aveva altre venti ragazze a sua disposizione.

A queste storie se ne aggiungono
altre, a cui noi non prestiamo attenzione, anche se giornali e televisione ne
parlano con regolarità. Sono le storie di donne portate via dall’Africa e
costrette ad attraversare a piedi per mesi il deserto del Sahara, subendo
continue violenze e soffrendo fame e sete. Quelle che raggiungono le sponde del
Mediterraneo devono affrontare il rischioso viaggio sulle «carrette del mare»
verso l’Europa, per poi finire con l’essere rimpatriate, dopo un periodo di
detenzione, perché prive di documenti.

La sofferenza e l’insicurezza
delle donne non finiscono qui. Quelle che sono reclutate in piena regola in
diverse parti del mondo per lavori domestici o come badanti, rischiano spesso
di essere sfruttate dagli uomini della famiglia che le ospitano. I casi di
questa forma di violenza non sono affatto pochi; una violenza subita facilmente
dalle donne per l’insicurezza e la fragilità che sperimentano, quando sono
separate dalle loro famiglie e lasciate sole, bisognose di tutto. Anche la loro
posizione giuridica, in quanto immigrate illegalmente, contribuisce ad
aggravare questo stato di cose.

Il caso forse più raccapricciante
e inumano della violenza sulle donne è quello praticato nel Congo ex Zaire
durante la guerra. Parlando a Roma nell’ottobre 2009 al Sinodo dei vescovi
africani, mons. Théophile Kaboy, vescovo coadiutore della città congolese di
Goma, ha gelato i giornalisti con i suoi racconti. «I conflitti e le guerre –
ha affermato – hanno portato, specialmente in Congo, alla vittimizzazione e
alla “cosificazione” della donna. Su migliaia di donne sono state perpetrate,
da tutti i gruppi armati, violenze sessuali di massa, come arma di guerra». I
loro figli, arruolati con la forza dai gruppi armati, sono stati costretti a
violentare le loro madri e le loro sorelle davanti allo sguardo impotente dei
padri. Tutto questo per incutere terrore nella gente, vincere la loro
resistenza, umiliare il nemico, mediante la violenza sulle donne.

Per lenire le conseguenze di
traumi tanto brutali, il vescovo di Goma ha affermato che bisognerebbe risalire
alla causa ultima, quale, per esempio, la crisi di governabilità causata da
guerre, saccheggi e sfruttamento anarchico delle risorse naturali, traffico
delle armi e assenza di un esercito statale forte e preparato.

Naturalmente, l’intervento
immediato in tali casi è la creazione di case di accoglienza per le donne
vittime di violenze, case che accompagnino il recupero dal trauma subito.
Tuttavia, ha ancora affermato il vescovo di Goma, «la risorsa principale contro
la cultura della violenza è costituita dalle donne stesse e dal riconoscimento
del loro ruolo da parte dell’intera comunità, anche di quella ecclesiale». «Noi
vescovi – ha affermato un altro presule, mons. Telesphore Gorge Mpundu,
arcivescovo di Lusaka nello Zambia – dobbiamo parlare in modo più chiaro della
dignità della donna alla luce delle Scritture e della dottrina sociale della
Chiesa».

È proprio questo il punto centrale
per arrivare a una presa di coscienza della dignità della donna, quella cioè di
lottare contro idee e tradizioni che la umiliano. Esempi di umiliazione,
dettati da tradizioni disumane, non mancano. In alcuni paesi la discriminazione
della donna non è limitata solo al mondo del lavoro, ma già prima della nascita
si individuano gli embrioni femminili per eliminarli. Tale drammatica
situazione si verifica specialmente in Cina e in India, al punto che l’attuale
livello delle nascite maschili, anziché alla media di 105 maschi per 100
femmine, si attesta rispettivamente a 121 e 112 per 100 femmine. Tale
dislivello è dettato in Cina dalla politica demografica del figlio unico, ma
sia in Cina sia in India anche dalla tradizionale preferenza culturale per i
maschi a scapito delle donne. Questa tendenza è pure presente nei paesi del
Caucaso, come Azerbaigian, Georgia e Armenia, e nei Balcani.

Ma c’è di peggio. Una notizia
riportata domenica 26 giugno 2011 dal giornale indiano Hindustan Times e
ripresa da altri quotidiani, riferisce che se prima in alcune parti dell’India
esisteva l’infanticidio o l’abbandono di bambine e poi l’aborto selettivo di
feti di sesso femminile, ora si farebbe strada l’intervento chirurgico di «genitoplastica»,
che trasformerebbe in maschietti centinaia di bambine della fascia di età
compresa da uno a cinque anni. Se la notizia fosse vera, si tratterebbe di una
scioccante tendenza senza precedenti e non soltanto di interventi di chirurgia
correttiva. Tuttavia, per fortuna, alcuni esperti di genetica ritengono
impossibile convertire chirurgicamente una bambina normale in un maschietto.

La vicenda richiama comunque
l’attenzione su un fenomeno noto in India, specialmente negli stati
settentrionali e occidentali e nella stessa capitale Nuova Delhi, ossia la tradizionale
preferenza per i maschi che provoca uno squilibrio preoccupante tra maschi e
femmine e favorisce il traffico di donne. Uomini celibi delle regioni più
ricche dell’India e della Cina «comprano» donne dalle regioni più povere,
mentre dalla Corea del Sud e da Taiwan si fa «turismo matrimoniale» in Vietnam
per prendere moglie.

In India la selezione sessuale
porta all’eliminazione di molte bambine sia nate che non nate. Si stimano 5
milioni gli aborti selettivi di bambine negli ultimi 20 anni.

La preferenza per il figlio
maschio è dovuta a fattori religiosi, sociali ed economici. In molte famiglie
di fede indù continua a essere particolarmente sentita la convinzione che per
ottenere la salvezza sia necessario un figlio maschio. Molte cose sono però
cambiate o stanno cambiando. Le bambine indiane, quando hanno l’opportunità, si
distinguono ormai in vari ambiti, soprattutto nell’istruzione, nello sport e
nelle espressioni artistiche.

L’emarginazione della donna e la
disparità tra i sessi spiegano particolari pratiche ancora in uso in India,
quali l’obbligo di sposarsi in giovanissima età, ancora bambine, con un uomo
scelto dalla propria famiglia e a volte molto anziano. Sono pratiche entrate a
far parte del pensiero comune di larghe fasce della popolazione indiana.

È necessario perciò creare una
nuova mentalità. Nel tentativo di incidere sulla promozione di questa nuova
concezione di vita, la Chiesa di Goa, nel giorno della festa della natività
della Vergine Maria (8 settembre), ha lanciato un appello inteso ad affermare
il valore di tutte le bambine sia nella famiglia sia nella società. «Ogni vita
umana è un dono prezioso di Dio e quindi fonte di dignità», ha spiegato il
segretario esecutivo della Commissione Giustizia e Pace. Ogni bambina nata o
non nata, ha aggiunto, condivide questo diritto, a cominciare dal diritto alla
vita.

Una cosa è certa: essere donna
non sembra per nulla facile in India e in Cina, ma anche in Africa e in altri
paesi del mondo. Si può forse cercare di porvi rimedio mediante la creazione di
strutture di promozione della donna, soprattutto per mezzo della formazione
culturale, dell’alfabetizzazione e della catechesi, per assicurare alla donna
una maggiore presa di coscienza della sua dignità in modo da offrirle la
possibilità di lottare contro idee e tradizioni culturali che la umiliano.

Christiane Kadjo, una cittadina
ivoriana, è per esempio stata premiata a Madrid il 27 ottobre 2011 con il
riconoscimento Harambee Spagna, dovuto al suo lavoro in Costa di Avorio,
rivolto a dare istruzione e pari opportunità alle donne. Attraverso la Ong Education
et developement
, ossia attraverso scuole e centri sociali, essa ha dato
alle giovani la possibilità di accedere a lavori retribuiti o di avviare
piccole attività. Questi centri limitano anche l’emigrazione, dal momento che
creano possibilità di sviluppo nel proprio paese. 

Purtroppo «la violenza contro le
donne continua a essere una tragica realtà», ha affermato mons. Silvano Tomasi,
osservatore della Santa Sede, alla 17a sessione del Consiglio dei diritti
umani, tenuta a Ginevra nel giugno 2011. Anche papa Benedetto XVI nel novembre
2011, durante la consegna delle credenziali al nuovo ambasciatore tedesco, ha
denunciato alcune tendenze materialistiche ed edonistiche diffuse nel mondo
occidentale, tra le quali la discriminazione della donna, e ha ammonito che una
relazione, la quale ignora come l’uomo e la donna abbiano uguale dignità,
costituisce un grave delitto contro l’umanità.

Giampietro Casiraghi

Gianpietro Casiraghi

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