Nel 1991 la
Macedonia si staccò pacificamente dalla Jugoslavia. A oltre 20 anni
dall’indipendenza il suo nome è ancora incerto, perché la confinante Grecia lo
rivendica. Dalle regioni macedoni sono emigrati in moltissimi: 700 mila su una
popolazione di poco superiore ai 2 milioni. In Italia ne sono arrivati –
legalmente o illegalmente – un numero importante: ventimila nel solo Veneto.
Il matrimonio di Azra ed Enis, due giovani
emigrati macedoni, è l’occasione per conoscere un paese tanto vicino quanto
sconosciuto.
La Macedonia è uno di quei «nuovi» stati che difficilmente
la gente sa collocare su una cartina geografica e di cui, ancor meno, sa
descrivere la storia. Questo potrebbe essere dovuto al
fatto che è una ex repubblica jugoslava arrivata all’indipendenza – era l’8
settembre del 1991 – senza passare per una guerra, o i cui scontri etnici
interni tra albanesi e macedoni, nei primi anni 2000, non sono stati
considerati degni dell’attenzione della stampa occidentale.
Secondo Risto Karajkov, collaboratore di Osservatorio Balcani e
Caucaso, uno dei siti più autorevoli nel panorama dell’informazione sui Balcani
in Italia: «Si stima che la diaspora macedone all’estero sia attorno alle 700.000
persone (su 2,1 milioni di cittadini), anche se non vi è alcuna istituzione in
Macedonia in grado di fornire statistiche attendibili sul livello di
emigrazione dal paese. L’unica conclusione, riportata ripetutamente dai media, è
che è massiccia». Nell’articolo pubblicato sul sito spiega come
tradizionalmente fossero «le regioni più povere e con scarse condizioni per
sviluppare l’agricoltura ad alimentare i flussi migratori, mentre negli ultimi
anni sono anche le regioni più ricche a perdere manodopera contribuendo a
creare il mito di pecalba (la migrazione economica), la nostalgia per la
madrepatria, le vite consumate lontano dalla propria famiglia e dai propri cari».
Lo scenario che si presenta a chi arriva nei villaggi della campagna macedone –
tranne nel mese di agosto – è di abbandono e desolazione: a causa
dell’emigrazione. Nei villaggi sono rimasti solo gli anziani e chi riesce
ancora a portare avanti il lavoro nei campi, e con esso a mantenersi. I giovani
che non riescono o hanno scelto di non emigrare abbandonano comunque i villaggi
per andare a cercare fortuna in città, soprattutto a Skopje, la capitale.
Karajkov mette comunque in luce che «non si tratta di un processo nuovo: è
iniziato più di cinquant’anni fa anche se, col passare del tempo, le sue
conseguenze sono sempre più visibili. Oggi in Macedonia ci sono 458 villaggi
che hanno meno di 50 abitanti, tra questi oltre 100 che hanno meno di 10
abitanti. L’Ufficio statale per le statistiche riporta, infatti, un totale di
147 villaggi che attualmente sono completamente vuoti».
LE STRADE PER L’ITALIA
I Macedoni che emigrano in Italia scelgono prevalentemente le
regioni del Nord e, tra le città, Treviso e Piacenza, quest’ultima addirittura
ribattezzata Strumicenza per l’alto numero di persone emigrate dalla regione
macedone che porta il nome di Strumica.
Secondo Osservatorio Balcani «circa 5.000 cittadini macedoni
migrano ogni anno verso il nostro paese». Si può arrivare in Italia legalmente,
ottenendo un passaporto bulgaro (in quanto appartenenti alla minoranza macedone
in Bulgaria) o grazie a parenti o amici già residenti in Italia che facciano da
datori di lavoro. O in maniera irregolare – come è il caso di molti migranti,
non solo macedoni -, spesso diventando vittime di ricatti ed estorsioni per
viaggi della speranza in condizioni estreme e false promesse di lavoro.
Nell’inchiesta sulle comunità balcaniche a Piacenza, realizzata
per «Piacenza Sera» dal giornalista freelance Gaetano Gasparini, viene
sottolineato il peso della diaspora macedone in questa città: sono ben 1939, il
che ne fa il secondo gruppo etnico della città. I macedoni, si legge
nell’inchiesta, sono «lavoratori con nuclei famigliari stabili e una seconda
generazione già avviata». In Italia le prime generazioni macedoni lavorano
principalmente (per lo meno all’inizio delle loro carriere lavorative) nel
settore dell’edilizia, anche se non sono rari i casi di avviamento di attività
imprenditoriali autonome dopo alcuni anni di lavoro dipendente, non per forza
nello stesso settore, come testimonia un immigrato di origini macedoni
intervistato nel corso dell’inchiesta. «Sono arrivato a Piacenza nel 1999,
anch’io sono stato clandestino per un paio d’anni. Ho lavorato duro come
manovale e poi come camionista, alla fine sono riuscito a realizzare il mio
sogno ovvero aprire un salone di parrucchiere». Le seconde generazioni spesso
seguono i percorsi professionali già avviati dai genitori nonostante comincino a
emergere scelte diverse e più autonome, come l’avvio di attività transnazionali
tra l’Italia e la Macedonia.
Dall’aeroporto di Treviso partono voli diretti per Skopje due
volte alla settimana. La maggior parte dei Macedoni residenti in Italia vive
infatti in Veneto (19.870 persone alla fine del 2010, 7.686 solo nella
provincia di Treviso). In alcune regioni della Macedonia, soprattutto nella
parte occidentale, la lingua italiana, così come il dialetto veneto, sono
estremamente diffusi per l’altissimo numero di immigrati macedoni in questa
regione dovuto alle catene migratorie (parenti e amici) che dagli anni ’90
hanno cominciato a legare alcuni villaggi macedoni alle città del Veneto.
Durante l’estate i villaggi, quasi completamente disabitati nei mesi invernali,
sembrano tornare a vivere. Per le vacanze infatti la diaspora macedone torna,
rigorosamente su macchine con targa italiana, dall’Italia alla Macedonia, per
trascorrere le vacanze nel proprio paese di origine, visitare i parenti rimasti
lì o rientrati anch’essi per le vacanze, sistemare alcuni affari e celebrare
feste e momenti importanti, come i matrimoni. Il mese di agosto sembra infatti
essersi ormai trasformato nel mese dei matrimoni. Il matrimonio cui abbiamo
avuto il privilegio di partecipare è stato celebrato nel villaggio di Borovec,
nella provincia di Struga, nella parte occidentale della Repubblica di
Macedonia. Gli sposi erano Azra ed Enis, due giovanissimi macedoni, residenti
in Italia (anzi, per essere precisi, figli di immigrati macedoni in Italia,
quelli che vengono chiamati «seconda generazione»). In queste zone vivono i
Torbeshi, una comunità di slavi cristiani islamizzati durante la dominazione
ottomana, che hanno affinità sia con i Pomacchi dei Monti Rodopi sia con i
Gorani di Albania e Kosovo. Anche tra i Torbeshi ci sono moltissimi immigrati
in Italia detti pechalbari (emigranti, appunto). I matrimoni tra i
Torbeshi si festeggiano secondo l’antica tradizione e durano per tre giorni.
Flauti e tamburi, sax e fisarmoniche accompagnano le danze che si ripetono
senza sosta giorno e notte, perché nei matrimoni macedoni ballare è molto più
importante che mangiare.
Anche il matrimonio di Borovec è stato celebrato nel rispetto di
tutte le tradizioni dei Torbeshi, custodite dagli anziani della comunità:
mentre i festeggiamenti, canti e balli, erano in corso a casa dello sposo, un
gruppo di uomini, parenti dello sposo, è partito per incontrare gli uomini
della famiglia della sposa e «sigillare con loro l’affare del matrimonio». Poi
la sposa è stata coperta con un broccato, «rapita» e portata a casa dello
sposo.
Nelle comunità musulmane macedoni, lo sposo e sua madre non
prendono parte al corteo nuziale che conduce la sposa dalla sua casa natale a
quella dello sposo, ma la attendono insieme alle donne della famiglia. Queste
accolgono la futura sposa all’entrata del paese, mostrando in questo modo la
propria approvazione, poiché, attraverso il matrimonio, una nuova donna entrerà
a far parte della famiglia. La sposa viene accolta con canti e danze e
accompagnata così fino a casa dello sposo. Lo sposo dalla propria casa cerca di
vedere «di nascosto» la sposa attraverso un anello, pronunciando una formula
rituale di buon auspicio. A quel punto la sposa entra nella casa dello sposo e
riceve offerte dai testimoni dello sposo che «riempiono» di soldi le sue scarpe
fino a quando «potrà calzarle». La sposa per la maggior parte del tempo tiene
gli occhi bassi e non sorride, mostrando così la tristezza per aver abbandonato
la propria famiglia e la propria madre, mentre la suocera celebra la sua gioia
nell’aver acquisito una nuora. I festeggiamenti durano per tre giorni, le donne
indossano vestiti tradizionali ricamati a mano e tutta la comunità si riunisce
attorno agli sposi riconoscendo e benedicendo la loro unione. Quelli che si
svolgono d’estate in Macedonia sono matrimoni tradizionali, ma che non hanno
alcun valore legale o religioso. La benedizione dell’Imam, infatti, i
futuri sposi l’hanno ricevuta un anno prima, in occasione del fidanzamento
ufficiale e il matrimonio civile viene contratto in comune nei giorni
successivi, ma come mera formalità. Questo dimostra l’importanza della
tradizione comunitaria che sacralizza i legami tra i suoi membri e la loro
appartenenza a essa.
A un’analisi più approfondita ci si rende conto che i matrimoni
(così come altre celebrazioni importanti) che gli emigrati continuano a
celebrare nel paese di origine, servono, soprattutto alle prime generazioni,
per espiare una «colpa» (quella di aver lasciato il paese) e controbilanciare
l’effetto perturbatore suscitato dall’emigrazione. La naturalizzazione degli
immigrati e, in maniera ancora maggiore, l’ottenimento della cittadinanza
italiana per i loro figli, infatti, rendono retrospettivamente più chiara la
funzione disgregante che l’emigrazione ha per le comunità di origine quando
essa è protratta nel tempo, quando si ripete per un grande numero di individui,
uomini e donne, e di famiglie. Come dice il sociologo Sayad nel libro La
doppia assenza, infatti: «Emigrare significa “disertare”, “tradire”. In un
certo modo significa indebolire la comunità da cui ci si separa, anche quando
lo si fa, appunto, per rinforzarla, per favorire la sua prosperità. Ogni partenza
e ogni emigrato rappresentano altrettante mutilazioni. Così, a partire dalla
stessa origine dell’emigrazione, si comprende come essa contenga i rischi di
una rottura con lo spirito e non soltanto con il corpo. Si capisce, così,
che per far in modo che il tabù della naturalizzazione funzioni, non è
sufficiente biasimarla e biasimare il naturalizzato, ma bisogna sacralizzare
(nel senso forte del termine) la comunità e l’appartenenza indefettibile (un
tipo di fedeltà assoluta) alla comunità in quanto gruppo sociale, e sacralizzare
a sua volta il gruppo in quanto struttura o insieme di strutture comunitarie –
che è ciò che succede, ad esempio, coi matrimoni. Bisogna sacralizzare i
legami che uniscono tra loro i vari membri della comunità, soprattutto quando
sono dispersi, e i legami che li uniscono alla comunità, soprattutto quando ne
sono separati, per poter esorcizzare il demone della contaminazione sovversiva
a cui l’emigrazione espone e che la naturalizzazione consacra».
La vera prova dell’integrazione o del mantenimento dei legami con
la terra di origine sarà la seconda, e soprattutto la terza generazione. Rimane
da vedere se prevarrà la «volontà» di sentirsi italiani al 100% o se la crisi o
i casi di discriminazione subita porteranno a un ripiegamento sulle proprie
origini e a ipotesi di ritorno. Questa sarà la sfida che spetterà ai figli dei
primi migranti che saranno magari in grado di esplorare e appropriarsi di una
terza via, un nuovo modo di essere italiani-macedoni, in Italia, in Macedonia o
altrove.
Da sempre le migrazioni presentano anche aspetti positivi per i
paesi nativi dei migranti. Le rimesse, infatti, aiutano la crescita del Pil
nazionale. La Macedonia, così come altri paesi di emigrazione, si è resa conto
dell’immenso potenziale delle rimesse e degli investimenti esteri, e ha dato
vita a un processo per favorire gli investimenti in Macedonia. Il governo
macedone, appoggiandosi a un’incisiva campagna mediatica, ha intrapreso riforme
radicali per attirare e orientare gli investimenti da parte degli emigranti,
portando la Macedonia a essere uno dei paesi con le tasse più basse in Europa.
Ha offerto massicci incentivi agli investitori stranieri, promosso aree economiche
libere e si è impegnato in una intensiva comunicazione con i singoli
investitori. Due giovani macedoni incontrati al matrimonio, ad esempio,
residenti in Italia dalla fine degli anni ’90, ormai perfettamente bilingui e
con una conoscenza profonda dei contesti italiano e macedone, stavano, proprio
nel corso dell’estate, concludendo tutte le pratiche per dare vita ad
un’attività di business transnazionale tra l’Italia e la Macedonia, con
installazione di fabbriche e laboratori in Macedonia per la produzione di
manufatti da vendere poi sul mercato italiano ed europeo.
Il futuro della Macedonia e della sue genti è ancora tutto da
costruire, in patria e fuori.
Box:
DALLA JUGOSLAVIA
A OGGI
TRA SKOPJE E ATENE, UN NOME DI TROPPO
Fino al 1991 è stata la «Repubblica socialista di macedonia».
Oggi è un paese senza un nome condiviso. Tanto facile è stato il distacco dalla
Federazione jugoslava quanto complicate sono le relazioni tra Skopje e Atene.
Nonostante siano paesi confinanti, i collegamenti tra
la Macedonia e la Grecia non sono facili. Da Skopje a Salonicco c’è un solo
autobus al giorno e i treni non sono garantiti. Il mezzo più «comodo» e veloce è
quindi il taxi privato anche se non tutti i tassisti se la sentono di
attraversare il confine o chiedono un compenso extra per le questioni che
potrebbero nascere alla frontiera.
Questo perché le relazioni tra i due paesi, così come
l’ingresso della Macedonia nella Nato e nell’Unione europea, sono ancora ad un
punto morto a causa della disputa sul nome. Se ripercorriamo la storia possiamo
capie i motivi.
L’8 settembre del 1991 la «Repubblica socialista di
Macedonia», una delle sei entità statuali che costituivano la federazione
jugoslava, dichiara la propria indipendenza in seguito a un referendum e il 17
novembre dello stesso anno il parlamento di Skopje adotta la costituzione della
«Repubblica di Macedonia». Nel 1992 con l’idea di costituire la «Grande
Macedonia» il nuovo governo di Skopje stampa carte geografiche che comprendono
anche la Macedonia dell’Egeo nella loro neo-nata nazione, battendo anche
cartamoneta con la Torre bianca, emblema di Salonicco, seconda città greca.
Queste iniziative secondo l’esperto macedone Risto Karajkov «hanno provocato la
Grecia, per niente disposta a cedere nome, storia e identità macedone alla
Macedonia, appunto, e che le ha bollate come mire espansionistiche di Skopje
sulla Macedonia dell’Egeo. La Grecia ritiene, inoltre, che il nome “Macedonia”
sia parte esclusiva della propria storia e della propria eredità culturale, e
sostiene che, prendendo questo nome, il proprio vicino settentrionale utilizzi
indebitamente questa eredità». Le definizioni contemporanee di Macedonia, però,
potrebbero essere considerate dubbie, poiché i limiti della regione geografica «Macedonia»
sono stati spostati diverse volte nel corso della storia. Rudy Caparrini su
mondogreco.it riporta la definizione dei confini della Macedonia data dai
geografi: «Quella vasta area della penisola balcanica (66mila chilometri
quadrati) suddivisa oggi fra Fyrom, Grecia, Bulgaria e Albania. […] Oltre la
metà della superficie complessiva di tale regione, però – specifica più avanti
-, appartiene alla Grecia (precisamente 34.231 kmq) mentre solo poco più di un
terzo è parte della Fyrom (Ex Repubblica Yugoslava di Macedonia). Mai nella
storia, inoltre, è esistita un’entità sovrana denominata semplicemente
Macedonia». Anche se è vero che il Regno di Macedonia, a cui la regione odiea
deve il suo nome, era situato quasi interamente dentro i confini greci,
comprendendo una piccolissima parte di ciò che oggi è la regione.
Così nel 1992, in seguito alla richiesta della
Grecia, l’Unione europea adotta la «Dichiarazione di Lisbona», che proibisce al
nuovo stato, ancora non riconosciuto a livello internazionale, di utilizzare il
nome «Macedonia». Il 7 aprile 1993, un anno e mezzo dopo la data di
proclamazione dell’indipendenza della Repubblica di Macedonia, a causa
dell’ostruzionismo greco, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, invece, approva
la risoluzione 817, con la quale ammette il paese nell’organizzazione delle
Nazioni Unite, ma con la denominazione temporanea di Fyrom (Former Yugoslav
Republic of Macedonia). Skopje, però, non gradisce tale soluzione, argomentando
l’incongruenza del riferimento alla Jugoslavia, con cui i ponti vanno rotti una
volta per tutte, anche a livello lessicale. Nel febbraio 1994 poi la Grecia
sottopone la Macedonia a un embargo, chiudendo completamente i confini comuni.
L’embargo è causato dalla decisione di Skopje di adottare, come bandiera
nazionale, il cosiddetto «Sole di Vergina», simbolo legato ad Alessandro Magno.
La Grecia protesta anche contro un articolo della costituzione macedone, nel
quale si parla di sostegno e protezione delle minoranze macedoni presenti negli
stati confinanti. Dopo diciotto mesi di embargo, che causa alla Macedonia danni
stimati intorno ai due miliardi di dollari, nel settembre 1995 Atene e Skopje
firmano un trattato, sotto l’egida dell’Onu, col quale si impegnano a cercare
una soluzione mediata alla disputa. Nel trattato, i due paesi non sono citati
con i propri nomi costituzionali, ma come «Primo contraente» e «Secondo
contraente». Nell’ottobre 1995, a seguito della modifica della bandiera e
dell’articolo conteso la Grecia riapre le frontiere. Alla fine dello stesso
anno i due paesi iniziano dei negoziati bilaterali, sotto il patrocinio delle
Nazioni Unite per risolvere la disputa sul nome. All’inizio la Grecia si
dichiara assolutamente contraria ad ogni riferimento alla parola «Macedonia»
per il possibile nome costituzionale del proprio vicino. Nel corso degli anni,
però, questa posizione si ammorbidisce, e oggi questa possibilità non viene
esclusa a priori, anche se si preferirebbe un nome composito. La posizione
macedone è, invece, quella di utilizzare una doppia formula: il nome Repubblica
di Macedonia nei rapporti col resto del mondo, e di trovare un nome diverso per
i rapporti bilaterali con la Grecia. La Grecia però non è d’accordo, e vuole un
nome unico e approvato da tutti. Nel corso degli anni, la Macedonia viene
riconosciuta col suo nome costituzionale da 120 paesi, inclusi tre membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Cina e, il 4 novembre
2004, gli Stati Uniti. Tuttavia, la questione del nome non è risolta e
complica, ad esempio, il processo di integrazione euroatlantica di Skopje. Da
parte greca la questione si incancrenisce, trasformandosi in motivo di orgoglio
nazionale che non può ammettere cedimenti, mentre il partito al potere a Skopje
lega le proprie fortune elettorali alla contrapposizione con la Grecia. A
ottobre 2012 però la Commissione europea decide di procedere coi negoziati per
l’ingresso della Macedonia nell’Unione Europea anche senza che si sia risolta
la disputa sul nome, cosa che fino a qualche tempo fa era la soluzione proposta
dalla Macedonia. (Viviana Premazzi)
Viviana Premazzi