San Francesco di Sales

San Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra e
dottore della Chiesa, è certamente un santo che ha realizzato nel migliore dei
modi il detto popolare: «Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che
con un barile di aceto». Vissuto in un tempo in cui le guerre di religione tra
i vari stati europei lasciavano tracce indelebili nelle popolazioni coinvolte
per la violenza con cui si consumavano e producevano lacerazione nelle
coscienze per motivi di fede, egli seppe arrivare al cuore degli avversari
attraverso un modo di essere e di relazionarsi, caratterizzato da uno stile
sobrio e pacato nell’esporre le sue ragioni e, soprattutto con scritti
raffinati ed eleganti, seppe guadagnarsi la stima di tutti.


Sei un santo un po’ speciale,
parlaci della tua vita.

Sono
nato in Savoia il 21 agosto 1567 nel castello di Sales, proprietà della mia
antica e nobile famiglia. Fin dalla più tenera età ho ricevuto un’accurata
educazione che ho completato con gli studi in giurisprudenza nelle Università
di Parigi e di Padova.

Quindi la tua carriera era già
definita fin dall’infanzia; in fondo un giovane ricco e nobile, laureato a
pieni voti in Università così rinomate, aveva la strada spianata per il futuro.

Infatti ritornato in patria fui subito nominato avvocato
del Senato di Chambéry, capitale della Savoia, dove però rimasi pochi anni perché
la vocazione sacerdotale, che avevo avvertito fin dai primi anni della mia
giovinezza, mi portò verso gli studi di teologia: ricevetti l’ordinazione nel
dicembre del 1593, con grande delusione dei miei familiari e di quanti si
aspettavano che seguissi le orme dei miei avi.

Se non vado errato, sei vissuto in
un’epoca caratterizzata dalle conseguenze della Riforma protestante avviata da
Lutero e da altri riformatori come Calvino, Zwingli, ecc.

È vero. Il clima sociale e religioso era quello
travagliato e tormentato del periodo tra il XVI e il XVII secolo: alla Riforma
protestante faceva seguito la Riforma Cattolica (spesso chiamata erroneamente
Controriforma). Buona parte dei principi tedeschi aveva abbracciato le idee di
Lutero, trascinando con sé le popolazioni da loro governate e, ancor peggio, i
loro eserciti.

Erano proprio tempi cupi allora?

Alcuni
avvenimenti aiutano a comprendere meglio la realtà nella quale vivevo: nel 1600
l’Inquisizione aveva mandato al rogo Giordano Bruno e nel 1622 (anno della mia
morte) iniziava il processo a Galileo. Guerre e sommosse religiose scandivano
gli anni come un doloroso rosario intriso di sangue e sofferenze. Nel 1571
avvenne la battaglia di Lepanto contro i turchi-ottomani, battaglia che
contrapponeva cristiani contro musulmani; l’anno seguente (1572) ci fu la notte
di San Bartolomeo, dove furono assassinati migliaia di ugonotti francesi (gli
storici parlano di 20-30 mila), aprendo così una ferita profonda fra i
cristiani cattolici, evangelici e riformati, il cui strascico è visibile ancora
oggi.

Come e in che misura poteva
incidere in quella realtà la tua azione sacerdotale?

Come
sacerdote cercai di testimoniare con un’irreprensibile condotta di vita e di
avvicinare tutti con una preparazione meticolosa e meditata delle omelie. Ma
visti gli scarsi frutti, passai alla pubblicazione di foglietti volanti che io
stesso facevo scivolare sotto gli usci delle case o affiggevo ai muri.

E così sei diventato patrono dei
giornalisti!

Ai
miei tempi non c’erano giornali. Fu molto apprezzato non tanto l’aver scritto
trattati in difesa della fede cattolica, ma piuttosto il fatto di stampare su
dei fogli volanti le mie riflessioni e prediche: non era come i giornali di
oggi, ma vi assomigliava. I risultati iniziali furono scarsi, ma col tempo
migliaia di calvinisti ritornarono in seno alla Chiesa Cattolica.

Nel 1602 fosti nominato vescovo di
Ginevra, caposaldo della predicazione di Calvino, come ti accolsero da quelle
parti?

Ginevra,
città di lingua e cultura francese, aveva abbracciato la fede «riformata»
predicata da Giovanni Calvino e i suoi compagni (Guglielmo Farel, Theodore
Beza, John Knox), per cui la presenza di un vescovo cattolico non era per
niente gradita. Per tutti i miei 20 anni di episcopato risiedetti ad Annecy;
come vescovo profusi il meglio delle mie energie visitando ad una ad una tutte
le 450 parrocchie, curai molto il catechismo dei fanciulli e, perché fosse
insegnato come si doveva, addestrai un discreto numero di laici creando la così
detta «Confrateita della Dottrina Cristiana».

Alla fine, anche i protestanti,
che disprezzavano i cattolici chiamandoli papisti, impararono a rispettarli:
come ci sei riuscito?

Ho
seguito il principio della 1a lettera di San Pietro: essere «sempre pronti a
rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi; ma questo
sia fatto con dolcezza e rispetto». Il modo di confrontarsi con chi non la
pensa come te deve essere improntato soprattutto alla comprensione di ciò che
l’altro vuole dire e al tempo stesso all’esposizione di ciò che porti nel cuore
con chiarezza e senza rancore, con dolcezza e tenerezza. Bisogna imparare a
dialogare non con i pugni chiusi ma con le palme aperte.

Anche i tuoi scritti, come «L’introduzione
della vita devota» e «Il trattato del divino amore», sono diventati dei
classici: ti valsero il titolo di dottore della Chiesa, ti diedero fama di
grande scrittore anche nel mondo laico.

È
vero. Nella letteratura francese la mia prosa viene additata per la vivacità
delle immagini, la ricchezza delle espressioni, la serena affabilità del
discorso; tutto ciò lo facevo per creare un dialogo proficuo con quelli che non
la pensavano come me e si erano allontanati dalla fede cattolica.

Quindi il proverbio citato
all’inizio si addice perfettamente al tuo carattere.

Direi
proprio di sì. Ma quel proverbio deve trasformarsi in stile di vita che
conquisti le persone. Proclamare la verità con una faccia scura o imporre con
coercizioni di ogni tipo la partecipazione ai riti religiosi può essere
proficuo in un primo tempo, ma alla lunga più nessuno ti segue.

Una bella lezione anche per noi,
più propensi a mostrare le difficoltà ad essere un bravo cristiano, che la
gioia dell’incontro con il Signore Gesù.

Soprattutto
in campo ecumenico, pur esprimendo il proprio pensiero, tutto venga fatto nella
gioia dell’incontro con chi la pensa diversamente. Mi sembra che, dopo secoli
di scomuniche reciproche, il cammino ecumenico intrapreso sia proprio questo,
anche se la strada è ancora lunga. Da colui che è Padre ci siamo allontanati un
po’ tutti; ora, ritornando a Lui, impariamo a vivere da fratelli che
condividono la gioia di essere figli dello stesso Padre. Papa Roncalli, che per
certi versi mi assomiglia, aprendo il Concilio ha chiesto di distinguere sempre
tra «errore ed errante»; lo stile da assumere con chi non è «dei nostri» è
proprio quello avviato dal sottoscritto, in tempi difficili, ma esaltanti dal
punto di vista del dialogo.

Come nacque l’amicizia con
Giovanna de Chantal?

A
Digione, durante una visita pastorale, incontrai una nobildonna: era appunto
Giovanna Francesca de Chantal, con la quale avviai un rapporto di sincera e
spirituale amicizia che nel tempo, attraverso una tenerissima corrispondenza
epistolare, diede i suoi frutti nella fondazione della congregazione religiosa
della Visitazione. L’idea originale alla base del nostro carisma fu di chiamare
le religiose fuori dal chiostro, nel mondo, per predicarvi la carità, senza
trascurare l’importanza della preghiera, creando nel contempo un ramo
contemplativo accanto a uno di vita attiva.

In
un tempo come il vostro si fa fatica a capire e accettare tutto questo, eppure è
proprio così; del resto io stesso curai molto le amicizie e, oltre a Giovanna
Francesca de Chantal, ebbi come figlio spirituale Vincenzo de Paoli e Madre
Angelica Aauld, oltre a molte altre persone di ogni ceto. Con tutti loro ebbi
una fitta corrispondenza epistolare.

Oltre al rapporto particolare con
i poveri, normale per un santo, curasti una forte relazione con gli
intellettuali del tuo tempo, fondando per loro addirittura un’accademia,
denominata «Florimontana», o sbaglio?

Tutt’altro! Questa mia idea di mettere insieme gli
intellettuali in una fondazione in cui potessero liberamente confrontarsi sui temi
più svariati, fu copiata nientemeno che dal cardinale Richelieu, che diede vita
alla famosa Académie française. Non bisogna mai lesinare fatiche ed
energie per costituire dei luoghi e avviare dei percorsi in cui confrontarsi.
Ai miei tempi (ma anche ai vostri!) invece di dialogare si preferisce inveire,
sbraitare e condannare; così facendo il dialogo si inaridisce e le posizioni si
irrigidiscono, tutto a scapito del rispetto reciproco e della carità
vicendevole.

Il tuo esempio fu seguito da altri
santi che, ispirandosi alla tua azione pastorale, seppero leggere i segni dei
loro tempi.

Per
Vincenzo de Paoli, che ebbi come figlio spirituale, fu abbastanza facile
seguire le mie indicazioni; ma il santo che più si ispirò al mio modo di fare,
muovendosi in un altro contesto e avendo un carisma particolare per i giovani
fu Giovanni Bosco, originario della regione italiana più vicina alla Savoia;
visti i santi «sociali» torinesi coevi a don Bosco, si può dire che l’aria di
queste zone favorisce uno stile del tutto speciale per chi vuole seguire il
cammino del Vangelo.

Per concludere che suggerimenti
dai a noi cristiani del XXI secolo?

Considerando
che avversari alla Verità ce ne sono sempre, in ogni tempo e luogo, imparate a
gestire il confronto con chi non la pensa come voi dialogando con affabilità e
rispetto: condanne e scomuniche non portano da nessuna parte; e ricordatevi
sempre che questo mondo prima di voi è stato amato fino all’inverosimile da
nostro Signore Gesù Cristo, che per salvarci tutti non ha esitato a dare la sua
vita per tutti, cattolici e calvinisti, credenti e non credenti.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera