Piccole schiave (tra le mura domestiche) La lotta di una piemontese contro il lavoro minorile
Possono avere anche soltanto 5 anni.
Preparano il cibo, fanno le pulizie, le compere, l’assistenza. Lavorano per
15-18 ore al giorno, senza alcuna paga, alle dipendenze di «padroni» senza
cuore e senza scrupoli. Come se ciò non bastasse, subiscono anche le attenzioni
particolari dei maschi di casa. Le chiamano «lavoratrici domestiche», ma in
realtà sono «piccole schiave». In Perù pare siano un esercito di 120-150 mila
persone. Da oltre 30 anni, una piemontese lotta al fianco di queste
bambine-donne, vittime della società e degli adulti. Siamo andati a trovare
Vittoria Savio a Cusco, nella casa dove lei le accoglie. Ecco cosa ci ha
raccontato.
Cusco. Una grande
zucca tagliata a metà sta in mezzo al tavolo, pronta per essere pulita e
sminuzzata. A Cusco, città andina a 3.400 metri d’altezza1, le minestre sono un piatto sempre ben accetto.
Vittoria, la padrona di casa, ha fisico asciutto e folti capelli bianchi. Il
suo volto, segnato da rughe profonde, è come un’opera d’arte che cresce di
valore con il passare del tempo. Parla con voce rauca, probabilmente segnata
dalle sigarette che fuma una appresso all’altra. Un vizio personale che lei
difende senza indugio.
Nata in Piemonte nel 1934, insegnante di matematica al
Liceo classico di Carmagnola, nel 1979 Vittoria Savio decide di lasciare tutto
e partire. «Sarei voluta andare in Nicaragua ad aiutare la rivoluzione
sandinista. Invece mi ritrovai in Perú con il Mlal, un’organizzazione di
volontariato allora molto attiva».
Trascorre i primi anni a Puno. Poi, a causa della
presenza di Sendero luminoso, il Mlal è costretto a chiudere i progetti.
Mentre quasi tutti i suoi colleghi rientrano in Italia, Vittoria decide di fermarsi
a Lima. Qui conosce il fenomeno delle ragazze che, lasciati i villaggi di
campagna e le poverissime famiglie, si trasferiscono in città per lavorare come
domestiche nelle case dei più benestanti. Rimane così colpita dal dramma umano
che sta dietro questo tipo di lavoro domestico, che decide di andare in
provincia per capire e soprattutto per tentare di fare qualcosa. Dato che il
console italiano non le consente di andare ad Ayacucho, lei sceglie Cusco, dove
inizia a lavorare da sola. Nel 1994, con l’arrivo di Josefina e Ronald, i due
primi soci, il progetto si formalizza nella nascita del «Centro di appoggio
integrale per la lavoratrice domestica» (Centro de apoyo integral a la
trabajadora del hogar, Caith).
Il Caith nasce come luogo di assistenza e accoglienza
temporaneo. Ma il fenomeno è più grave di quanto inizialmente pensato. «Capimmo
– racconta Vittoria – che il maggior problema era ed è quello delle bambine che
lavorano in casa. Piccole che possono avere anche soltanto 5 anni! Modificammo
quindi lo statuto dell’associazione per superare il vincolo della temporaneità
e consentirle di ospitare le bambine fino all’età di 14 anni. E successivamente
aiutarle a reinserirsi nel mondo del lavoro».
Vittoria racconta un mondo di vera e propria schiavitù. «La
bambina non può andare a scuola, non può uscire. Dipende totalmente dalla
famiglia in cui lavora. È a disposizione dei suoi membri 24 ore al giorno. Se
alle due del mattino, la signora si mette in testa di volere un tè, la bambina
si deve alzare, preparare la bevanda e portargliela».
Ricorda il caso di una bambina che bussò alla porta
all’una e trenta del mattino: « “So che qui date da dormire alle donne che
lavorano in casa…”. Faceva impressione sentire parlare di donne da lei che
era alta un metro e dieci e aveva soltanto 8 anni. Raccontò di essere stata
licenziata alle 11.30 della notte. “Ho cominciato a camminare per le strade e
poi mi è venuto in mente che c’eravate voi”».
Voi è il «Centro Yanapanakusun» che, dal 2001, ha
inglobato il Caith, svariate attività educative, un centro di produzione
agricola, e alcuni programmi di turismo responsabile.
In lingua quechua, Yanapanakusun significa «aiutiamoci».
Un verbo coniugato in vari modi da Vittoria e collaboratori. Ad esempio, mandando
le ospiti più piccole a scuola e le più grandi a lavorare con un contratto
stilato in base ai principi della legge peruviana sul lavoro domestico2
e sottoscritto anche da Vittoria, in qualità di direttrice del centro. Ma la
strada è lunga.
Il ministero del lavoro stima che in Perú ci siano circa
700 mila lavoratori domestici, in gran parte donne (trabajadoras del hogar).
Di queste almeno 120 mila sarebbero bambine3. A Cusco,
dove Vittoria e i suoi collaboratori lavorano, si parla di 5.000 piccole schiave.
Il modo in cui una bambina diventa una lavoratrice
domestica è una storia che nasce dalla povertà e dallo sfruttamento.
«La persona, di solito una donna, va nei villaggi più
poveri a cercare le bambine – racconta Vittoria -. Quando ne trova qualcuna, promette
a lei e alla famiglia che la manderà a scuola e che la tratterà come una figlia».
La bambina arriva in città, dove – non conoscendo nessuno – rimane subito
isolata dal mondo. Quello nuovo, ma anche quello vecchio.
«A volte i genitori vanno a trovarle, ma i padroni hanno
svariati metodi per fare sì che essi desistano velocemente. Ad esempio, la
prima volta dicono loro: “Tua figlia non è in casa”. La seconda: “Tua figlia si
vergogna di te”. Il padre – che già ha complessi d’inferiorità (perché parla quechua,
perché è povero, perché viene dalla campagna) – se ne va, convinto che la
figlia lo rifiuti. A quel punto la signora dice alla bambina: “Guarda i tuoi
genitori che razza di persone sono: sei qui da mesi, ma non sono mai venuti a
trovarti». Dunque, la violenza è doppia: le bambine sono sfruttate dalla
famiglia in cui vivono e allontanate dalla famiglia d’origine. Non ci si deve
stupire se in molte subentra un sentimento di rabbia su cui Vittoria e
collaboratori cercano di lavorare.
«Quando arrivano qui, per prima cosa noi cerchiamo di
ricostruire un concetto di famiglia, dicendo: “Guarda che i tuoi genitori ti
hanno mandata a lavorare perché speravano o si illudevano che saresti stata
meglio”. Ricordiamoci che le famiglie mandano le figlie nella convinzione che –
perlomeno – esse avranno un’esistenza migliore della loro».
Perché la vita in molti villaggi rurali di questo Perú
profondo, lontano dalle rotte turistiche, è di una durezza estrema. A tal punto
che, la maggioranza delle bambine, pur confessando di aver sofferto molto, dice
che non ritoerebbe nei campi. «Occorre riconoscere – avverte Vittoria – che
non c’è soltanto il fenomeno del reclutamento, ma può esserci anche un
allontanamento volontario per scappare alla povertà e alla violenza familiare».
Al Centro, le bambine possono arrivare in tre modi: o
perché mandate dal tribunale, o perché si presentano spontaneamente dopo essere
scappate dalla loro prigione, o perché portate da altre bambine.
Dal 1994 al 2012, al Caith sono passate circa 1.500 lavoratrici
domestiche all’anno. Attualmente vi risiedono 27 minori e alcune maggiorenni.
Ma una parte consistente del lavoro del Centro si svolge in periferia. «Noi
lavoriamo in 30 comunità con 14 promotori sociali ed educatori. Qui cerchiamo
di fare un’opera di sensibilizzazione con i genitori delle bambine, ma anche
con insegnanti e alunni».
Sensibilizzare sulla problematica del lavoro domestico
infantile è un obiettivo fondamentale. «Le famiglie che reclutano bambine –
spiega Vittoria – non sono necessariamente ricche. La signora individua una
piccola di una famiglia povera o almeno più povera della sua. Sa che quella è
manodopera non qualificata ma che non costa nulla. Tante volte mi sono chiesta:
“È meglio essere disprezzati da chi ha una faccia diversa dalla tua o da chi ha
la stessa faccia di tua madre?”. Purtroppo, capita spesso – lo vedo ad esempio
al mercato – che ci siano ex lavoratrici domestiche che si vendicano su altre
bambine di quanto esse stesse hanno sofferto da piccole. Ho chiesto una volta a
una di loro perché non mandasse la bambina a scuola. Lei mi ha risposto: “Perché
dovrei? Io non ci sono mica andata”. Non è raro che l’oppresso, appena si
presenti l’occasione, diventi oppressore».
Vittoria e collaboratori lavorano soltanto con donne e
bambine, ma esiste anche un problema declinato al maschile.
«I maschietti che lavorano in casa sono ancora più
vilipesi perché fanno un lavoro considerato da femmina e di conseguenza – in un
paese machista come il Perú – senza valore. Per questo, quando riusciamo
ad incontrarli, si vergognano a parlarne. Ci sono poi i ragazzini che lavorano
la notte. Per esempio, i garzoni dei foai. C’era una bambino di nemmeno nove
anni che portava qui la gerla del pane alle tre e mezza del mattino».
Eppure, anche nell’ambito del lavoro minorile, c’è chi
sta peggio: sono i minori che non hanno neppure una famiglia. «Dormono per
strada o nei dormitori. Se non lavorano (o non sono capaci di rubare), loro non
mangiano. In questo, i bambini lavoratori che vivono in famiglia risultano meno
sfortunati: sono costretti a lavorare però, per quanto male possa andare,
almeno hanno un tetto e qualcosa da mangiare».
Per tutto questo, Vittoria e collaboratori hanno aperto
la loro scuola, inizialmente pensata per le sole lavoratrici domestiche, anche
ai ragazzi lavoratori.
«Il giovane che ci porta il latte, oggi avrà 17 anni, è
totalmente analfabeta. Quando ci porta il conto, dice a me di leggerlo».
Il Centro Yanapanakusun è oggi composto da
vari edifici, abitativi e di servizio. Su un muro esterno della struttura
centrale c’è una grande riproduzione del Quarto Stato, il celebre quadro
di Giuseppe Pellizza da Volpedo4. Per
Vittoria non è soltanto un omaggio all’arte e alla storia italiana tra le Ande
peruviane. «È la speranza. Guardate la donna che apre la fila: è una donna che
non copia l’uomo. Ha la gonna, ha un bambino in braccio e cammina con gli
uomini. Il messaggio è: una donna può essere utile alla società anche senza imitare
i maschi. Secondo me, questo quadro è più femminista che
proletario. Fossero stati rappresentati soltanto i proletari maschi, forse non
mi sarebbe interessato».
Il Quarto Stato sintetizza la scelta di vita di Vittoria
Savio: lottare a fianco dei più deboli e in particolare delle donne, fino alle
bambine rese schiave tra mura domestiche.
«Mi arrabbio quando la gente ha pena dei
poveri. Le vittime dell’ingiustizia non debbono far pena, ma suscitare rabbia.
La pena è sterile. O serve soltanto a qualcuno per sentirsi più buono.
L’ingiustizia dovrebbe far scatenare la rabbia dentro le persone. Attraverso di
essa si potrebbe cambiare il mondo».
Conoscenza e turismo responsabile
Soltanto attraverso un’opera di sensibilizzazione sulle
situazioni e sulle problematiche è possibile far crescere un turismo diverso, «responsabile».
Per ora esso interessa percentuali esigue del movimento turistico globale.
Cusco. Per anni ha insegnato matematica in un liceo
piemontese. Se Vittoria Savio dovesse tornare davanti a una classe di studenti
come presenterebbe il Perú, suo paese d’adozione? «Agli studenti direi che il
Perú è una realtà interessantissima. Anche
perché fa riflettere su noi stessi». Il mondo attuale è un mondo in cui convive
una pluralità di canali e di strumenti informativi, ma la qualità
dell’informazione e della conoscenza lascia spesso a desiderare. Cosa
aggiungerebbe di politicamente scorretto la professoressa Vittoria? «Guardate,
direi agli studenti, che la difficile situazione in Perú e in generale nei
paesi del Sud del mondo è colpa vostra. Non soltanto vostra, ma di certo anche
vostra. Porterei l’esempio del voto. Quando gli italiani vanno a votare, essi
scelgono i candidati in base alle loro posizioni rispetto alle tasse, alla
casa, ai servizi pubblici. Quante persone votano valutando anche le idee di
politica estera dei candidati in lizza?».
Una conoscenza completa e corretta è fondamentale per fare
scelte responsabili. Anche nel campo dei viaggi e del turismo.
Il Centro Yanapanakusun si autofinanzia anche con programmi
di turismo responsabile. «La gente che viene da noi – spiega Vittoria – arriva
con delle domande in testa. Sono persone che, oltre a parlare di siti
archeologici, si interessano anche dell’umanità che vive qui. È vero che questo
turismo ci serve come strumento di autofinanziamento, ma è anche vero che è
parte della nostra filosofia mostrare un Perú diverso e altro, un Perú di gente
che soffre, che lotta quotidianamente per sopravvivere. Noi offriamo alle
persone visioni alternative, anche nelle comunità campesine. Ma – questo deve
essere chiaro – non per portare caramelle o altre cose materiali come fosse la
visita a uno zoo».
Pur in costante crescita, questo tipo di turismo rappresenta
ancora un’esigua percentuale rispetto al movimento turistico complessivo. «Sì, è
vero – conferma Vittoria -. Ma questi turisti responsabili (o
responsabilizzati) possono avere un’influenza importante. Ad esempio, io sono
convinta che un viaggio in Perú raccontato da queste persone ha un impatto
diverso rispetto a coloro che parlano soltanto di Machu Picchu».(Paolo Moiola)
• Gisella Evangelisti, Perú.
Luna grande dietro le montagne, Edizioni del Noce, 1999.
• Maite Rofes Chávez, “Estás
bien?”: Caith, la cultura del afecto con trabajadoras del hogar, Lima 2002.
• Stefano Cavallotto, Yanapanakusun,
continuiamo a crescere insieme, Settembre Film (Alba), 2009.
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Paolo Moiola