Oltre le sbarre Don Pierluigi Murgioni: testimone e martire
Da 20 anni, il 24 marzo, anniversario dell’assassinio di Oscar
Romero (1980), arcivescovo di El Salvador, si celebra la «Giornata di preghiera
e di digiuno in memoria dei missionari martiri». Per tale giornata, presentiamo
la figura di Pierluigi Murgioni, missionario fidei donum in Uruguay dal 1968 al
1977, durante la dittatura militare, quando predicare il Vangelo e parlare di
giustizia significava essere un pericoloso avversario del potere e si rischiava
di essere messi a tacere. Don Pierluigi, infatti, fu imprigionato e torturato
per cinque anni e poi espulso dal paese. È morto a soli cinquantun anni,
lasciandoci come ultimo regalo la traduzione in italiano del Diario di Oscar
Romero.
«Dalla mia cella posso vedere il
mare; stasera c’è una luna piena stupenda, bassa sul mare, rossa, con i fiocchi
di nuvole davanti: tutto uno spettacolo. Sono piccole cose che ti aiutano a “essere
fuori”. Bisogna saper accettare tutto con semplicità come è nella dolce e
terribile logica del Vangelo. Dio è amore, morto e risuscitato e perciò:
benedetti i puri di cuore, benedetti i poveri, benedetti voi che piangete,
benedetti i perseguitati, benedetti i costruttori di pace». Così scrisse in una
lettera dal carcere don Pierluigi Murgioni (1942-1993), sacerdote bresciano,
missionario fidei donum in Uruguay.
La
sua drammatica ma nel contempo straordinaria vicenda umana è descritta nel
libro pubblicato dall’Editrice Ave dal titolo: «Pierluigi Murgioni. Dalla
mia cella posso vedere il mare». Ne è autore il professore Anselmo Palini,
docente di materie letterarie nella scuola superiore, che ha al suo attivo
diverse pubblicazioni sui temi della pace, dell’obiezione di coscienza, dei
diritti umani e della nonviolenza. In questo libro egli approfondisce la storia
umana e spirituale del prete bresciano, ingiustamente incarcerato e torturato
durante gli anni bui della dittatura militare in Uruguay, dove si trovava come fidei
donum in servizio pastorale nella diocesi di Melo, all’interno del piccolo
paese sudamericano.
La sua vicenda ricalca quella di
tanti testimoni che incarnando lo spirito del Concilio Vaticano II e della
Conferenza di Medellin, fecero la scelta dei poveri e di conseguenza
denunciarono le ingiustizie strutturali che in maniera pervasiva stravolgevano
la realtà sociale e civile di tutta l’America Latina. La teologia della
liberazione diede a queste persone i criteri evangelici per una corretta
analisi della situazione e le Comunità di Base – autentica linfa vitale del
cattolicesimo latinoamericano – diedero spessore ecclesiale alle scelte di
posizione che questi profeti del secolo ventesimo facevano nella realtà in cui
erano inseriti.
Don Pierluigi era arrivato in
Uruguay nel 1968 nel contesto della cooperazione e comunione tra le chiese che,
sotto il poderoso impulso dell’enciclica Fidei Donum di Pio XII, aveva
incrementato notevolmente il numero dei sacerdoti diocesani italiani impegnati
nei vari paesi così detti di missione.
In Uruguay, in particolare,
approdarono sacerdoti delle diocesi di Novara, Bergamo, Brescia e Verona. Una
perfetta miscela piemontese-lombardo-veneta che, se pur dispersa negli angoli
più reconditi dell’Uruguay, si ricompattava periodicamente attraverso degli
incontri memorabili, capaci di risollevare lo spirito e il morale ai missionari
italiani, anche nei momenti più duri, tale era l’amicizia, l’affetto e l’unione
reciproca che stava alla base di questo legame. Di questi incontri, don
Pierluigi era un po’ l’anima; purtroppo un amaro destino aveva riservato per
lui un’esperienza missionaria del tutto particolare.
Durante un’incursione nottua
compiuta dai militari che avevano preso il potere tramite un golpe in
cui avevano sospeso ogni garanzia costituzionale, venne arrestato nel maggio
del 1972, con l’accusa di appartenere al Movimento di liberazione nazionale Tupamaros
e senza nessuna spiegazione, portato e incarcerato in un luogo sconosciuto. A
suo carico non fu mai esibito lo straccio di una prova che avesse infranto la
legge uruguayana; però era tale l’astio dei golpisti nei confronti della Chiesa
schierata apertamente e decisamente dalla parte degli oppressi, che essi
vollero, attraverso lui, dare un esempio a tutti gli altri sacerdoti, al fine
di raffreddae lo slancio evangelico e solidaristico con chi era coinvolto nei
cammini di liberazione sociali, civili e politici.
Fu torturato sistematicamente,
per il solo piacere sadico di infierire su un ministro del culto cattolico, che
aveva manifestato solamente carità e solidarietà cristiana nei confronti degli
appartenenti ai Tupamaros (cosa ben diversa dal condividere ideali e
strategie di lotta). Fu privato della possibilità di celebrare l’eucarestia in
carcere e gli vennero tolti sia la Bibbia che il Breviario.
Rapato a zero, con la casacca
color kaki di tela grezza, sulla quale era cucito il numero 756, che era
diventato per imposizione dei suoi carcerieri un suo secondo nome, venne fatto
scendere nel calabozo (prigione sotterranea) dove, insieme ad altri
ragazzi appartenenti alla miglior gioventù uruguayana, passò cinque lunghissimi
anni della sua vita. Gli cambiarono cella e compagni diverse volte.
Sistematicamente, ogni due-tre mesi, veniva fatto vestire con abiti civili, per
fargli balenare la possibilità che «di lì a poco sarebbe stato rimandato in
Italia»; ma era una tragica farsa, studiata dagli specialisti della Cia che
stavano dietro le quinte dei golpisti uruguayani, per fiaccarne l’animo e lo
spirito.
Ma don Pierluigi fu forte,
resistette a ogni tortura e condizionamento; i suoi compagni di sventura lo
ricordano come colui che sosteneva la speranza di tutti, era un riferimento
preciso nella disgrazia collettiva del carcere.
Quando fu rilasciato, il 12
ottobre 1978, all’aeroporto di Montevideo, diversi furono i missionari italiani
venuti a salutarlo e a ringraziarlo per la sua incrollabile testimonianza di
fede offerta nei lunghi anni di detenzione. Il lungo abbraccio che ci
scambiammo prima che lui salisse sull’aereo resta uno dei ricordi più belli e
indelebili che tutt’ora mi porto nel cuore.
Rientrato nella sua Brescia, don
Pierluigi riprenderà il suo servizio sacerdotale come parroco in una suggestiva
località sul lago di Garda, dove tra le altre cose porterà a termine la
traduzione del Diario di mons. Oscar Romero.
Anselmo Palini con questa sua
fatica ha voluto raccogliere lettere e testimonianze di persone che hanno
condiviso la vicenda umana e spirituale di don Pierluigi. Ne è uscito un libro
ricco di pagine toccanti che aiutano a scoprire i veri testimoni del Vangelo
nei tempi in cui viviamo.
Mons. Domenico Sigalini, vescovo
di Palestrina, bresciano come don Pierluigi, compagno di studi e di ordinazione
sacerdotale, durante la presentazione del libro, avvenuta nell’Aula Magna
dell’Istituto dei padri Comboniani di Brescia, il 24 ottobre 2012, ha detto che
questi testimoni vanno tolti dalla cerchia degli affetti familiari e territoriali
e fatti conoscere a un più vasto pubblico, specialmente giovanile, per mostrare
la loro fede cristallina e la loro coerenza evangelica di vita, della quale
sono portatori nel contesto storico ed ecclesiale dei nostri giorni.
Sicuramente la lettura di questo
libro aiuterà molti a ritrovare il gusto dell’appartenenza alla Chiesa, proprio
perché si scopriranno compagni di viaggio di testimoni che hanno saputo offrire
la loro vita nell’annuncio del Vangelo e nella difesa dei diritti dell’uomo.
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Mario Bandera