Il Paese che non c’è Territorio palestinese. Lezioni di resistenza pacifica
Alcuni villaggi sulle colline a sud di Hebron, in Area C
(territorio palestinese sotto controllo e amministrazione israeliani),
rischiano di scomparire per far posto a insediamenti di coloni e avamposti
militari israeliani, totalmente illegali anche per le leggi d’Israele. La popolazione
locale, per lo più composta da pastori e agricoltori, nonostante le violenze
che subisce da anni, resiste con azioni nonviolente per difendere i propri diritti,
sostenuta dai volontari dell’Operazione Colomba (vedi:
www.operazionecolomba.it). Anche l’autore di questo articolo vi ha portato la
sua esperienza di resistenza pacifica.
«Loro hanno le armi e le pietre,
noi i bastoni del pastore. Loro hanno la polizia dalla loro parte, noi nessuno,
solo le nostre famiglie. Loro fanno quello che vogliono e noi dobbiamo tacere.
Loro vengono e buttano giù le nostre case, distruggono le nostre cistee; noi
le dobbiamo ricostruire di nascosto. Fino a quando?». Il lamento di Abud è il lamento
di un popolo.
Ormai la nascita di uno stato
palestinese sembra un sogno impossibile. Il territorio di Gaza, sul mare
Mediterraneo con una uscita verso l’Egitto è considerato un’immensa prigione a
cielo aperto. Il territorio della Cisgiordania è una pelle di leopardo, nella
quale i villaggi dei pastori devono convivere con gli insediamenti israeliani
serviti da strade, luce elettrica, acqua in abbondanza.
Un solo ulivo dei coloni beve in
un giorno tanta acqua quanta ne beve un villaggio palestinese con donne, uomini
e bambini. Con l’acqua abbondante chiunque è capace di far fiorire il deserto.
Gerusalemme est e Betlemme con i
territori vicini vede un muro costruito al di fuori di ogni logica, che non sia
quella del disprezzo dei valori e della giustizia, tagliando pascoli, dividendo
famiglie e comunità, distruggendo relazioni, isolando le fonti di acqua a
favore del più forte. Come si può pensare a due stati e due popoli? Si dovrebbe spostare mezzo
milione di israeliani, che adesso vivono fuori dai confini ufficiali dello
stato d’Israele.
A fine novembre 2012 si è tentato
ancora una volta un qualche riconoscimento della Palestina alle Nazioni Unite,
nonostante la minaccia d’Israele di ridurre alla fame la comunità palestinese.
Eppure il riconoscimento della Palestina come membro osservatore (stesso status
del Vaticano), ruolo finora svolto dall’Organizzazione per la Liberazione della
Palestina (Olp), ha avuto i numeri necessari per diventare realtà. Nel
settembre 2011 Mahmoud Abbas aveva cercato di ottenere il riconoscimento della
Palestina come stato membro, ma era stato bocciato dal veto americano al
Consiglio di Sicurezza, mentre altri stati, tra cui l’Italia, esprimevano la
loro neutralità sulla faccenda. Adesso poi, dopo la guerra dei nove giorni, la
posizione di Fatah, dominante in Cisgiordania, appare più debole rispetto a
quella di Hamas della striscia di Gaza.
E tutti, paesi arabi della
primavera, Stati Uniti, Europa e lo stesso Israele, si lasciano impressionare
di più da chi fa la voce grossa: non certamente l’autorità palestinese
dialogante, ma quella che spara i razzi fabbricati in Iran. Il più forte e il
più rumoroso aggiunge degli argomenti importanti alle proprie ragioni.
Intanto continua l’ostilità
quotidiana: pecore uccise, ulivi tagliati, pietre sui bambini che vanno a
scuola, asini rubati… Sono le azioni dei coloni, normalmente integralisti
ebrei, convinti che tutta questa terra sia stata data loro da Dio. «Terra», sì,
ma con della gente dentro, non una terra vuota.
Segni di cambiamento
Oggi non mancano gli israeliani
che mostrano solidarietà e sensibilità verso i palestinesi. Sono i giovani che fanno
obiezione di coscienza contro il servizio militare obbligatorio per uomini e
donne. Essi sono disposti ad andare in prigione pur di non imbracciare le armi
contro i pastori.
Sono gli avvocati, alcuni già in
pensione, che suggeriscono gli articoli di legge favorevoli ai palestinesi, che
difendono chi viene imprigionato, che esigono, quando possibile, l’abbattimento
di insediamenti israeliani.
Ci sono i poveri di Jaffa ai
quali vengono tolte le case per lasciare spazio a ville e resort lungo
la riva del mare, non importa se palestinesi o israeliani.
Si comincia a vedere la lotta dei
poveri contro i prepotenti. La lotta delle femministe dell’associazione Ahoti
for Women in Israel (Sorelle per le donne in Israele), che a Tel Aviv
aprono le porte del loro piccolo centro d’incontro a tutti per denunciare,
appoggiare e cercare vie di uscita per i poveracci che, arrivati dall’Africa,
vengono abbandonati senza nessun futuro, nel parco vicino.
È chiaro che i palestinesi hanno
anche i loro problemi interni; il primo e forse il più profondo è la spaccatura
tra Hamas e Fatah. Fino a che punto si può essere
mansueti a Gaza, un luogo invivibile, con 5.800 persone per chilometro quadrato
(in Italia ce ne sono 201), con problemi gravi di acqua, energia elettrica,
mancanza di ospedali, scuole… sotto blocco permanente per terra e per mare,
un territorio tagliato fuori dagli altri territori palestinesi. È evidente che
la maggioranza della popolazione si senta identificata con chi si oppone in
modo più violento alla dominazione israeliana.
Intanto la Cisgiordania è
praticamente divisa in tre zone:
– Territorio a controllo e
amministrazione palestinese (Area A);
– Territorio a controllo
israeliano, ma con amministrazione palestinese (Area B);
– Territorio a controllo e
amministrazione israeliana (Area C).
Mentre il primo copre un 17% del
territorio con il 55% della popolazione palestinese, il secondo copre il 24%
del territorio con il 41% della popolazione, il terzo fa riferimento al 59% del
territorio con appena il 4% di palestinesi.
Hafez non è l’unico ma è un
tassello importante e riconosciuto nelle colline a sud di Hebron. Lui stesso
racconta la sua storia. Quando era poco più che un
ragazzo vide sua madre maltrattata e picchiata da coloni israeliani tanto da
finire in ospedale. Andò a trovarla e le assicurò che avrebbe trovato il modo
di vendicarla. «Cerca un’altra strada – gli
disse lei -. Se ti vuoi vendicare potrebbero distruggere il nostro villaggio e
noi ti perderemo. Alla fine, che cosa si guadagnerebbe? Un’altra strada.
L’unica possibile è quella di resistere usando altri metodi: la non violenza
attiva. Come? I bambini, andando a scuola; i pastori portando il gregge al
pascolo. Se c’è un attacco dei coloni, tutti gli abitanti si fanno presenti. Se
distruggono la moschea, scuola, strade… le ricostruiamo. Noi restiamo qui e
continuiamo a resistere alle politiche di aggressione con la non violenza».
Il piccolo villaggio di At-Tuwani
ha così conquistato il suo diritto a esistere. Nel 1999 tutti gli abitanti
hanno resistito a ogni evacuazione, anzi, hanno ospitato altri pastori evacuati
a loro volta dalle loro terre poco lontane. Con l’aiuto di attivisti israeliani
e di un avvocato si è capito che non tutti gli israeliani sono soldati o
coloni.
Oggi una presenza preziosa è
quella dei giovani dell’Operazione Colomba, corpo non violento di pace
dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Armati di macchine fotografiche e
videocamere si muovono continuamente per documentare, dare appoggio con la loro
presenza pacifica e diventando l’occhio che vede e discee i fatti. Un continuo, a volte quotidiano, report
fa arrivare all’estero la documentazione in italiano e in inglese. La gente si
sente collegata con la solidarietà internazionale, i soldati e i coloni hanno
sopra di loro gli occhi attenti di tanti che non accettano l’ingiustificabile.
Dal 2010 At-Tuwani è collegata
con la linea elettrica, che arriva da Yatta, la più grande città palestinese
della zona, facendo passare i cavi sopra la bypassroad, (una strada che
collega le colonie israeliane) cosa finora impensabile. L’acqua è assicurata più o meno
grazie ad alcuni depositi, cistee che sono state legalizzate. I bambini arrivano dal villaggio
di Tuba accompagnati da una scorta dell’esercito israeliano che li difende
dagli attacchi dei coloni. Se un colono si presenta incappucciato lungo la
strada per terrorizzare i ragazzi, gli inteazionali e le famiglie arriveranno
in tempo per proteggerli mentre i soldati cercheranno di mostrare la loro
affidabilità.
A fine ottobre l’Unione Europea
ha organizzato un workshop, un momento di incontro, riflessione,
solidarietà. Grazie ai responsabili dell’Operazione Colomba sono stato scelto
per accompagnare quel momento.
– Te la senti?
– Non saprei. Proviamo.
È stata una settimana che si
andava costruendo quasi di giorno in giorno. Incontri che creavano altri
incontri. Dal Centro di Informazione Alteativa a Beit Sahour, a est di
Betlemme siamo passati al «Kairos Palestina», un movimento di cristiani,
che hanno prodotto un documento serio e profondo per costruire cammini di pace
e riconciliazione nella Terra Santa. E ancora incontri con il gruppo della
Teologia della liberazione palestinese, un gruppo piuttosto agguerrito, e le
femministe di Tel Aviv, con gli avvocati che difendono le case di Jaffa, finché
sarà possibile, ecc.
Le date poi cambiavano, affinché
non coincidessero con la festa di Ismaele, quando bisognava sacrificare
cammelli e mucche. Finalmente il lunedì 29 ci siamo
trovati a Al Mufaqara, su, in alto sulla collina. Erano riuniti i capi di
diversi villaggi, i giovani, le donne e i bambini del luogo. Mi avevano proposto un tema: «Lotta
nazionale e perdono personale». Non avevo voluto preparare nessun
testo. Volevo vedere con i miei occhi la realtà, il volto della gente, entrare
nelle loro case, nelle loro grotte. Penso che sia stata una scelta giusta. Come
si può parlare di perdono in questa situazione? Mi sono posto questa domanda ad
alta voce in italiano, tradotta in arabo: «Un mese fa mi hanno ucciso una
pecora e posso perdonare, una settimana fa mi hanno ucciso una pecora e posso
perdonare, ieri mi hanno ucciso una pecora e posso perdonare. Ma domani me ne
uccideranno un’altra, e tra una settimana, e tra un mese e tra due mesi…
Posso perdonare al futuro? All’infinito?». Forse il tema del perdono risulta
corto, non più sufficiente. Vedevo quegli occhi che mi guardavano con
attenzione e ho continuato a parlare: «La lingua ci separa, ma il cuore ci
unisce».
Dovessi riassumere non saprei che
cosa ho detto, ma ho parlato di resistenza e di non violenza attiva. Della
necessità di non perdonare i fatti, ma di guarire la ferita che quei fatti
producono in noi per poter reagire in modo pacifico e umano. «Purtroppo gli israeliani hanno
sofferto molto in Europa e poi anche qui. Ma hanno imparato a reagire con la
forza. Sanno combattere con chi è violento, ma non sanno gestire la non
violenza. Rimangono spiazzati. Alla fine preferiscono avere a che fare con
Hamas e con la guerriglia. A ogni colpo rispondono con il pugno duro, ma con
quelli che sanno resistere senza essere violenti? Come si fa?».
E alla fine, al momento del
riposo, nessuno si è mosso, e sono invece iniziate delle domande a cui ho
risposto come potevo. Un prete cattolico che parlava a
una comunità totalmente musulmana. Ma non ci ho neppure pensato. Ero uno che
parlava e che imparava. Finita la giornata intensa, due
giovani volevano a tutti i costi che andassi anche al loro villaggio, un po’
lontano di lì. «Insh’Allah, se Dio vuole». È rimasto il desiderio. Forse
sarà per un’altra volta.
Alla sera, quando eravamo già
scesi ad At-Tuwani, l’esercito e la polizia israeliani hanno catturato lo scheich,
un pastore molto conosciuto, guida spirituale del villaggio. Stava lavorando
alla sua cisterna. Aveva guidato l’invocazione
iniziale al mattino. Il suo lavoro non era permesso, ma neppure proibito.
Quando la figlia si interpose tra il papà e i militari e fu colpita, egli si
ribellò. Ecco l’accusa: resistenza a pubblico ufficiale. Le ragazze della
Colomba, subito informate, hanno ripreso la scena e si sono guadagnate
anch’esse qualche spintone. Non si può fare di più. Intanto
la gente, accorsa in buon numero, non ha potuto impedire che se lo portassero
via. Lo avevano già messo nella loro camionetta. A quel punto tutti si sono
ritirati: i pastori e i soldati. Quando tutto sembrava finito la gente toò
su, si organizzò e terminò il lavoro. Quando lo scheich toerà dalla
prigione troverà la sua cisterna, così come lui avrebbe voluto realizzarla. Ecco la resistenza pacifica.
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Gianfranco Testa