EMI 3: L’Immagine del Missionario
Tre intellettuali «leggono» la missione in italia
Una società che cambia. Un ruolo e un’immagine quelli
dei missionari, che attraversano i secoli. Ma cosa sono oggi i missionari
nell’immaginario collettivo italiano? Lo abbiamo chiesto a personaggi «non
sospetti».
Come sta cambiando, nel nostro paese, l’immagine dei
missionari e della missione? Vale a dire: a mezzo secolo dal documento
conciliare Ad gentes e dalla definitiva decolonizzazione, a oltre venti
dalla fine dell’utopia comunista e oltre dieci dall’11 settembre 2001, nel
contesto di un mondo in fuga (T. Giddens) e sempre più globalizzato. E mentre
la storia sembra al di fuori del nostro controllo, e noi non sappiamo dove
stiamo andando.
Le prime grandi missioni delle chiese cristiane fuori
dall’Europa – dopo la stagione pionieristica del primo millennio d.C. – erano
intrecciate al colonialismo, dal sedicesimo al ventesimo secolo: spagnoli e
portoghesi portavano con sé i loro frati mendicanti, così come olandesi e
inglesi i loro missionari protestanti.
I missionari potevano, di volta in volta, sostenere o
criticare i conquistatori, ma avevano in comune il senso di dove la storia si
stava dirigendo: verso il dominio occidentale del mondo. Verso la civiltà
cristiana. Un dato che, in ogni caso e al di là della buona fede dei singoli,
determinò il panorama della scena missionaria.
Nella seconda metà del secolo scorso, la missione si è
venuta a trovare in un nuovo contesto: il conflitto tra i due blocchi di
potenze, quello orientale e quello occidentale, tra il comunismo e il
capitalismo. Alcuni missionari possono aver pregato per il trionfo del
proletariato e altri per la sconfitta del comunismo ateo, ma tale conflitto
rappresentava il palcoscenico inevitabile dell’opera missionaria.
Ora, i missionari non vengono più
mandati per nave verso paesi sconosciuti e, quasi ovunque, non sono più lontani
che un giorno di viaggio. In un quadro così frastagliato, quanto e com’è mutato
l’immaginario collettivo sul missionario e la missione in Italia (un paese che
sta vivendo la stagione di passaggio dalla religione unica degli italiani
all’Italia delle religioni)? Abbiamo cercato di capirlo interrogando alcune
personalità illustri della cultura laica nazionale: Salvatore Natoli, Annamaria
Rivera e Giuliano Vigini.
Per Giuliano Vigini, uno dei nomi più noti
dell’editoria, dalla vasta attività critica e bibliografica, l’impegno
missionario di religiosi e laici che operano in Italia ha un duplice effetto: «Da
un lato, quello di essere sempre uniti, in una tensione costante di fede e
carità, a tutti coloro che in tanti paesi offrono la loro vita per la
predicazione e la testimonianza al vangelo: orizzonte e paradigma di ogni
attività ecclesiale, come ha ribadito anche di recente Benedetto XVI». In tal
senso, «tutti coloro che, con la preghiera, il sostegno economico e l’impegno
diretto, cornoperano alla missione e insieme contribuiscono in Italia alla
formazione di una coscienza missionaria, sono come dei costruttori di ponti che
collegano e avvicinano mondi lontani, facendoli sentire parte integrante della
vocazione e della vita della Chiesa».
Dall’altro lato, si tratta di «essere attivamente
impegnati in questa terra di missione che – come tanti altri paesi di antiche
radici cristiane – è diventata l’Italia, anch’essa dunque da rievangelizzare
per essere restituita alla fede viva del vangelo». Peraltro, «in questa società
sempre più crocevia di fedi, lingue e culture, il missionario è chiamato anche
a nuovi compiti: l’ascolto e il dialogo religioso e interculturale, la
partecipazione ai problemi e alle sofferenze della gente, la solidarietà sempre
più generosa verso i più poveri, antichi e nuovi».
A parere di Salvatore Natoli, docente di filosofia
teoretica presso l’Università di Milano Bicocca, un pensatore dichiaratamente
laico eppure aperto al confronto con le istanze cristiane, per cogliere
l’immagine del missionario occorre evidenziare due aspetti, complessivamente in
sintonia con quanto sostiene Vigini: «Prima di tutto, visto il sempre più
profondo processo di secolarizzazione, egli è colui che s’impegna per la nuova
evangelizzazione, dato che viviamo ormai in una terra pagana. In secondo luogo,
il missionario è poi colui che si propone di fornire delle risposte sensate ai
nuovi bisogni, cercando di porre un freno alla dilagante miseria, di carattere morale
e materiale, impegnandosi dunque in un’opera di misericordia morale o corporale».
Riguardo all’interrogativo su quale immagine dei
missionari abbiano i nostri connazionali, Vigini ammette che, non conoscendo
indagini o sondaggi in tal senso, gli è possibile semplicemente esprimere una
sensazione personale: «Gli italiani, orientati in questo senso anche da tante
trasmissioni e immagini televisive, vedono prevalentemente il missionario
impegnato in attività filantropiche e sociali. Costruiscono case, ospedali,
scuole; si curano della miseria, delle malattie e delle necessità di tante
persone che, senza la loro presenza e il loro lavoro, sarebbero abbandonate a
se stesse. Per questo loro impegno, i missionari sono certamente apprezzati e
aiutati dagli italiani». Tuttavia, egli conclude che «tutto questo rischia di
mettere un po’ in ombra, nell’opinione corrente, l’obiettivo religioso primario
della loro vocazione».
Secondo Natoli, presso gli italiani la figura del
missionario – non dandosi oggi, in realtà, una riflessione significativa al
riguardo – risulta molto più sfumata, rispetto al passato: «Peraltro, ho
l’impressione che si conceda loro una larga fiducia, particolarmente sotto il
profilo di esercitare un’assistenza alle popolazioni coinvolte». Per questo,
alla fine, il loro giudizio pare a Natoli comunque positivo.
Infine, ma non da ultimo per importanza, è lecito
domandarsi quanto l’azione dei missionari in vari ambiti (lotta alla fame nel
mondo, nuovi stili di vita, beni comuni, mondialità, dialogo interreligioso,
lotta al razzismo…), raccontati anche attraverso la Emi, sia servita per
diffondere sia tali temi sia la loro voce in Italia. Secondo Vigini, è
innegabile che tale azione sia servita, e non poco: «Quanto i missionari fanno
in molti campi è servito in particolare a radicare negli italiani due
convincimenti: che pochi come loro si spendono per il bene degli altri e che ci
si può fidare di loro, perché sono testimoni credibili». Mentre «sarebbe anche
importante far capire la radice e lo spirito del servizio che i missionari
svolgono per il bene della chiesa e dell’uomo».
Più articolata la riflessione di Natoli in proposito: «Il
missionario ci permette di fare un’opera di transfert: piuttosto di
impegnarmi in prima persona in un cambiamento individuale, è più semplice fare
l’offerta al missionario, cosa che ci fornisce sollievo pur non producendo una
trasformazione interiore». Alla fine, il rischio è di procurarsi un alibi,
perché «monetizzare la carità è facile, in quanto ci evita di entrare in
contatto diretto con la sofferenza».
Intriganti sono poi le considerazioni di Annamaria
Rivera, antropologa, saggista, scrittrice, docente di etnologia e di
antropologia sociale presso l’Università di Bari, editorialista per i quotidiani
Il Manifesto e Liberazione, che, interrogata in merito, afferma: «Fino
ad alcuni anni fa i missionari erano per me principalmente quelli di cui si
parla nella letteratura antropologica. Ciò che sapevo di loro riguardava,
dunque, lo straordinario contributo alla conoscenza delle lingue locali, il
patrimonio d’informazioni e conoscenze sulle più varie popolazioni e culture
esotiche, accumulato nel corso dei secoli, la redazione delle prime monografie
etnografiche, quindi il contributo implicito alla nascita dell’antropologia: la
disciplina che ho insegnato per alcuni decenni nell’università e che pratico
nel lavoro di ricerca.
Sapevo anche del loro rapporto complesso con
l’espansione coloniale: dapprima strenui oppositori del sistema schiavistico e
appassionati difensori dei diritti delle popolazioni indigene, poi – in epoca
contemporanea, quando si generalizzarono i movimenti per l’indipendenza dei
popoli colonizzati compromessi talvolta con il colonialismo. E tuttavia la loro
vocazione universalista, mutuata dal cristianesimo, il più delle volte li mise
al riparo dai miti nazionalisti e dalle loro conseguenze nefaste».
Nel 2006, ad Annamaria capita di trovarsi a tenere una
conferenza durante un convegno organizzato da un mensile missionario, sia pure sui
generis: «Dei missionari avevo dunque un’esperienza per lo più indiretta e
libresca nonché scarsamente aggiornata al tempo presente. Finché fui invitata
come relatrice in uno dei convegni del Cem Mondialità, a Viterbo. Fu
un’esperienza inaspettata ed entusiasmante poiché vi trovai molto di ciò che
credevo irrevocabilmente perduto con la fine degli anni ’70 e del quale
conservavo acuto rimpianto: la capacità di rendersi comunità – almeno per
alcuni giorni – condividendo convivialità e calore umano, ma anche competenza,
spirito critico, non conformismo, insieme con il senso della ricerca e
dell’impegno, dell’ironia e del gioco. Vi trovai soprattutto un’attitudine che
sembra ormai perduta nella nostra società (intendo dire nei più vari ambienti
professionali, sociali e politici dell’Italia dei nostri giorni): l’interesse
verso l’altro/a e la tendenza a valorizzarlo/a e a valorizzarsi reciprocamente.
Fu in quella occasione che conobbi un saveriano, padre
Domenico Milani. Ne fui colpita: il gran vecchio, sagace e dolce, con un gran
senso dell’umorismo, sapeva raccontare in un modo che non poteva essere più
accattivante. Narrava dei suoi incontri con donne e uomini africani,
soprattutto congolesi, con una leggerezza pari alla drammaticità della loro
condizione. Più tardi, prendendo a pretesto una visita alla preziosa collezione
etnografica conservata nel rifugio silenzioso e solenne dei saveriani di Parma,
riuscii a incontrarlo e a salutarlo per l’ultima volta».
Non fu, quello, peraltro, l’unico suo rapporto con il
mondo missionario: «In seguito ho avuto altre occasioni per partecipare alle
iniziative ispirate dai saveriani: un articolo per Missione oggi e
ancora altri appuntamenti di Cem Mondialità. Fino al più recente, il 17
marzo 2012, dedicato ai Nuovi spazi dell’intercultura, quando fui
invitata a parlare delle nuove forme di razzismo in Italia e dei possibili modi
per contrastarlo e superarlo, fra i quali le pratiche interculturali. Come
sempre, il convegno fu arricchito da momenti conviviali e da una performance
teatrale interattiva. Anche quest’ultima all’insegna dell’imprevedibile, del
non convenzionale, perfino dello spiazzante.
Fu mia figlia, che avevo coinvolto nella performance, a
offrirmi una chiave possibile per definire quello stile – al tempo stesso laico
e spirituale, impegnato e lieve, inteazionalista e comunitario – di leggere e
vivere la realtà. Con una battuta ironica e folgorante: “Sono dei veri hippie
e non hanno bisogno di droghe!”». Fino a concludere: «A pensarci bene, in fondo
quella di mia figlia non era solo una boutade. A caratterizzare il
movimento hippie, infatti, furono il pacifismo integrale, il senso
comunitario, l’esaltazione dell’amore e della fratellanza, l’ideologia mite e
non dottrinaria, la matrice spirituale attinta al pensiero di Gesù Cristo,
Buddha, Francesco d’Assisi, Gandhi…; nonché la controcultura che privilegiava
la performance, il teatro di strada, la musica popolare».
Ecco. Senza pretese di esaustività, ovviamente, qualche
idea in più ce la siamo fatta. Anche se il mosaico è lungi dall’esser esaurito,
e le sfaccettature della figura del missionario di oggi, sospeso tra una società
di fatto postcristiana e un Dio che sta cambiando indirizzo, posizionandosi
sempre più spesso a Sud dell’Equatore, sono – ammettiamolo – ben difficili da
afferrare pienamente.
Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }
Brunetto Salvarani