Tassi di omicidio superiori a quelli di
paesi in situazioni di conflitto armato, fortissima disuguaglianza nella
distribuzione delle risorse, profondo machismo
culturale con relative violenze domestiche e femminicidi in costante
crescita, tratta di bambine e ragazze… L’Honduras è ritenuto il paese più
pericoloso al mondo, eppure qualcosa si sta muovendo, soprattutto a livello di
organizzazione femminile, per difendere i propri diritti e introdurre
importanti cambiamenti nella società.
In tutto l’Honduras risuona una sola parola
d’ordine che in questo momento interessa la popolazione: cambiamento. Sono
passati più di tre anni dal colpo di stato, e da allora tanto è stato fatto
dalla gente honduregna (anche se per l’Onu, almeno il 60% dei 7,3 milioni di
abitanti vive in situazione di povertà) per far valere i propri diritti di
scelta e creare un contrappeso ai giochi di potere dell’oligarchia delle
famiglie più influenti del paese. L’Honduras è il terzo paese in America
Latina, dopo Colombia e Haiti, ad avere maggiori disuguaglianze sociali.
Generalmente la gran parte dei governi passati avevano la tendenza a preservare
lo status quo, mantenendo il potere nelle mani di poche famiglie.
Resistenza nata dal golpe
Con il governo di Manuel Zelaya,
durato dal 2006 al 2009, destituito da un colpo di stato delle forze armate,
c’era stato un cambio di tendenza e si era visto un tentativo di introdurre
importanti cambiamenti per una maggiore giustizia sociale, tra cui l’aumento
del salario minimo e una bozza di riforma agraria. Ma queste novità non erano
ben viste da chi ha perpetrato il golpe del 28 giugno 2009. Il nuovo governo ha
raggiunto il potere successivamente con elezioni, considerate alquanto
discutibili anche dalla comunità internazionale, alle quali non sono stati
ammessi gli osservatori delle Nazioni Unite.
Ora è al potere il governo del
Partito Nazionale, un partito conservatore, il quale considera incostituzionali
alcune importanti riforme che erano state intraprese negli anni precedenti. Nel
frattempo peró una gran parte della società civile si è organizzata nel Frente
Nacional de resistencia Popular (Fnrp) per esprimere il proprio dissenso
nei confronti di un governo che in realtà fa l’interesse di una parte piccola
della popolazione.
Il Fnrp, che dal colpo di stato ha
coinvolto nelle proprie rivendicazioni movimenti popolari e organizzazioni che
cercano una trasformazione sociale del paese, è vicino a rappresentanze di ogni
strato sociale: cittadini, contadini, operai, microimpresari, gruppi
ambientalisti e studenteschi, forze politiche progressiste e democratiche,
professionisti, donne, artisti, popolazioni indigene, comunità ecclesiali di
base, e altro ancora. Questo movimento ha un braccio politico, costituito dal Partido
Libre (Partito Libero), la cui candidata alla presidenza è Xiomara Castro,
moglie di Manuel Zelaya, il quale è pure cornordinatore del partito e del
movimento.
Lotta per la terra
Come tutti gli esponenti politici
che si candideranno alle elezioni del 2013, la signora Xiomara avrà molte
questioni spinose da affrontare. «In primo luogo la proprietà della terra, che è
una delle ragioni principali di lotta all’interno del paese. La popolazione
dell’Honduras è prevalentemente agricola, ma la maggior parte delle terre è
paradossalmente proprietà di pochi: il 50% della superficie coltivabile è in
mano al 3,7% della popolazione», riporta Anna Schieppati, volontaria italiana
presente nel paese centroamericano da quattro anni e collaboratrice di diverse
ong locali. «Si coltiva una grande varietà di prodotti, grazie alle variazioni
climatiche del paese. Nelle zone più calde crescono anacardi, ananas, meloni;
in quelle più fredde patate, fragole, cavoli. In tutto il paese si coltivano
mais e fagioli, due elementi basilari dell’alimentazione locale». Un’ottima
varietà di prodotti, il cui ricavo però, come spesso accade, non viene
distribuito equamente tra la popolazione.
«I grandi latifondi esistenti,
invece – continua Schieppati – appartengono in maggioranza alle compagnie
bananiere e a quelle che producono olio di palma africana, pianta molto dannosa
per l’ambiente, perché rovina il suolo. Ma la gente qui non tace: le grandi
lotte di rivendicazione contadina sono iniziate proprio in Honduras negli anni
’90 con il governo di Calleja, in cui si implementò una politica a livello
regionale di carattere neoliberista (soprattutto con la Ley de modeización
y desarrollo agrícolo), sponsorizzata dagli Stati Uniti, in cui l’accesso
alla terra non fu più amministrato dallo stato. Però, nonostante le battaglie
vinte, il modello capitalista continua a farla da padrone».
Due esempi possono dare un’idea
della situazione conflittuale nel paese. Il primo è la condizione delle
famiglie contadine del nord del paese, in un territorio chiamato Bajo Aguán, «in
cui i contadini rivendicano le terre possedute da René Morales, Reinaldo
Canales e Miguel Facussé, quest’ultimo una delle persone piú influenti del
paese, legato anche al narcotraffico», continua la volontaria italiana. Miguel
Facussé comprò le terre dallo stato proprio in seguito alla Ley de
modeización. Peró le associazioni contadine locali affermano che le terre
in realtà furono vendute attraverso una procedura illegale e per sostenere la
loro causa nel 2001 si organizzarono nel Movimiento unido campesino del Aguán
(Muca).
La zona del Bajo Aguan è
considerata una zona di conflitto. Ciò risulta già evidente sulla strada per
arrivare in questo territorio: vi sono moltissimi blocchi stradali dei
militari, che fermano macchine, autobus, moto, camion e controllano i documenti
dei viaggiatori e il materiale che eventualmente viene trasportato. La lotta
dei dipendenti e guardie dei proprietari terrieri contro i contadini è una
lotta armata, che ha visto molti morti da entrambe le parti. Un importante
quotidiano nazionale afferma che ogni 16 giorni avviene una morte violenta.
«Esercito e polizia non sono
imparziali custodi dell’ordine; basta ascoltare cosa afferma il commissario
responsabile dello sgombero: “Sono inutili gli sforzi che fanno i contadini; è
un atteggiamento irrazionale. Abbiamo una forza normale; puó essere che ci
siano stati scontri da entrambe le parti, è uno sgombero, non è una festa. E la
loro presa di posizione è una stupidaggine, quindi noi la prossima volta non
cercheremo il dialogo come stiamo facendo adesso. Se loro si credono forti, non
hanno la minima idea di quanto siamo forti noi”» riporta Schieppati. Parole
forti, di minaccia, che fanno capire quanto sia ardua la situazione.
Un altro esempio del tutto
diverso, ma che riflette bene la realtà di un paese messo a disposizione di
tutti tranne che dei suoi cittadini, è il progetto delle ciudad modelo
(città modello). L’idea era di dare delle terre in concessione a un consorzio
nordamericano per la costruzione di città. Le ciudad modelo erano
pensate come urbanizzazioni che potevano avvalersi di una legislazione a parte,
indipendente da quella honduregna, essere esenti dalle tasse locali e avere una
polizia propria.
Le zone scelte erano aree
strategiche in quanto a locazione e risorse: uno sbocco sul mare, terre ricche
di acqua e molto fertili, strade ben asfaltate. La promessa fatta alla gente
era quella di centinaia di nuovi posti di lavoro. Il Congresso ha cercato di
far approvare questo progetto, che però, grazie anche alla pressione di molte
associazioni e semplici cittadini, che ogni mercoledì si riunivano per
protestare contro questa proposta, alla fine è stato dichiarato
incostituzionale.
Uno dei più
grandi problemi del paese, che è andato esasperandosi negli ultimi anni, è il
clima di violenza, dovuto al fatto che l’Honduras è diventato un’importante via
del traffico internazionale di droga, passaggio preferito dai narcotrafficanti
che vengono dal Sud America e sono diretti negli Stati Uniti e in Canadà.
Un dato su
tutti: il tasso di omicidi è di 86,5 ogni 100 mila abitanti, uno dei più alti
al mondo. Basti pensare che nel non lontano Costa Rica è di 10,3, in Italia di
1,1 e la media mondiale è di 8,8.
La violenza ha varie cause, che
possono essere identificate nella grande disuguaglianza all’interno della
società e nella grande diffusione di armi da fuoco, che possono essere reperite
con facilità. Non bisogna però dimenticare anche l’aspetto culturale della
violenza che, per esempio, si esprime all’interno della società con il machismo
o maschilismo: «La donna honduregna si alza alle quattro del mattino per
accendere il fuoco e preparare la colazione per la famiglia; molto spesso
lavora fuori, oltre che in casa, generalmente coltivando i campi, dedicandosi a
lavori informali, o partecipando a microimprese – spiega Schieppati -. Spesso,
purtroppo, le donne si trovano a doversi occupare da sole della sussistenza
della famiglia; sovente i figli vengono concepiti al di fuori dell’unione
matrimoniale e non è raro che un uomo abbia figli da diverse donne. A ciò
bisogna aggiungere che molti uomini non vogliono contribuire al mantenimento
dei figli e a volte si rifiutano di riconoscerli proprio per non avere
responsabilità nei loro confronti».
A livello istituzionale sono state
create nuove leggi e istituzioni per combattere il machismo e la
situazione di oppressione e violenza in cui sono costrette a vivere molte donne
honduregne; ma sono soprattutto le organizzazioni civili che hanno contribuito
a fare grossi passi in avanti, pretendendo dalle istituzioni governative di
mettere in pratica quello che generalmente rimaneva solo sulla carta.
«Varie associazioni di donne nel
corso degli anni hanno lottato per introdurre importanti cambiamenti a livello
sociale, culturale, legale. Esse sono presenti su quasi tutto il territorio con
nomi e scopi differenti: Visitación Padilla, Centro de estudios de la
mujer, Centro de derechos de mujeres, Las Hormigas, Programa
Deborah», continua la volontaria italiana, che collabora con alcune di esse
alla promozione della parità di genere.
«Nel dare maggior potere alle
donne, queste associazioni hanno avuto un ruolo fondamentale, mettendo in atto
con intelligenza varie strategie: hanno raccolto informazioni e pubblicato
studi di alto livello sulla condizione femminile per avere più visibilità; si
sono cornordinate con la cooperazione internazionale per ottenere fondi con cui
sostenere le varie attività; hanno esercitato una forte lobbying sulle
istituzioni governative, esigendo più sensibilità da parte loro». Uno dei loro
servizi più significativi ed efficaci è l’apertura di consultori legali
gratuiti, che informano circa le leggi del paese e, se necessario, offrono
assistenza legale alle donne che non possono permettersi un avvocato.
«Proprio questi consultori sono
stati importanti per ridare dignità alle cittadine e avvicinarle alle
istituzioni, il cui personale, negli altri luoghi pubblici, tende molto spesso
a trascurare, o peggio ancora, a mortificare le donne che vi accorrono per
sporgere denuncia, soprattutto se queste vengono da aree rurali e hanno uno
scarso livello scolastico», racconta ancora Schieppati.
Un ulteriore flagello che la
società civile dell’Honduras sta tentando di combattere è l’Aids. Il paese
centroamericano presenta il tasso più alto di portatori del virus Hiv del
continente, con lo 0,8% della popolazione (in Italia è 0,006%). Nonostante il
fatto che molti ospedali possano distribuire i farmaci, l’attenzione integrale
ai pazienti è rara. La cura è gratuita, il problema è che questa non è
disponibile per tutti. Data la scarsità dei farmaci disponibili negli ospedali,
la cura viene iniziata solo con quelle persone che, per condizione familiare,
stile di vita, possono garantire continuità.
Il problema è che i tre quarti
degli infettati sono persone senza tetto, che vivono per la strada, e pertanto
la loro condizione è di totale abbandono. Molte persone inoltre, una volta
contagiate, vengono abbandonate dai familiari.
«Il virus è ancora visto come uno
stigma: molte persone affermano che “la malattia è un castigo del Signore per i
peccati della carne”; tanti non dicono di avere il virus e non si sottomettono
a cure, proprio per non dover confessare ai propri cari di essere stati contagiati»
sottolinea la volontaria italiana.
Tra le realtà che combattono la
stigmatizzazione, dando un accompagnamento integrale alle persone infette senza
condizioni economiche o familiari adeguate, c’è Casa Zulema, un centro di
accoglienza per malati di Hiv-Aids in un paese a breve distanza dalla capitale
Tegucigalpa. Qui le persone sono accudite e rispettate nella loro dignità e
ricevono un’alimentazione sana ed equilibrata.
Casa Zulema prende il nome da una
donna morta in ospedale abbandonata da familiari e amici. La accompagnò nei
suoi ultimi giorni di vita padre Ramon Martinez Perez, un sacerdote spagnolo
che alla morte della donna, nel 1997, decise di costruire una casa per casi
simili. All’inizio essa aveva lo scopo di offrire la possibilità di una morte
dignitosa alle persone che si trovavano abbandonate in ospedale.
Oggi, con i progressi della
ricerca medica, la casa è diventata principalmente un luogo di recupero, in cui
la gente apprende le nuove abitudini necessarie per portare avanti la cura con
successo, imparando ad accettare e convivere con la malattia per poi tentare di
reinserirsi all’interno della società.
A Casa Zulema vivono donne,
uomini e bambini senza limiti di età, religione o razza (il 90% della
popolazione honduregna è meticcia). «L’unico requisito necessario per
alloggiarvi è che il paziente non abbia atteggiamenti violenti o aggressivi,
che mettano in pericolo gli altri abitanti», spiega dogna Laura, la
responsabile della struttura. «La vita in Casa Zulema inizia alle 7 di mattina,
con la colazione nella sala da pranzo comune e la prima distribuzione dei
farmaci. Poi i bambini vanno nella scuola vicina, mentre gli adulti
contribuiscono, a seconda delle condizioni fisiche e psicologiche, alla pulizia
della casa e del giardino, alla preparazione del pranzo e della cena. Nel
pomeriggio c’è un momento di preghiera e di riflessione spirituale. La sera,
dopo la nuova tornata di farmaci, che sono molto forti, la gente sente presto
il bisogno di riposare. La domenica spesso si organizzano escursioni nei
dintorni».
Nella casa operano volontari e
persone che ricevono uno stipendio, anche se minimo, come la cuoca, la donna
delle pulizie e un’amministratrice tuttofare. Solo due sono le persone che
vivono 24 ore su 24 nella casa: dogna Laura e Claudia che accompagnano e
si prendono cura della vita di circa 20 persone tra adulti e bambini.
«La casa vive principalmente di
carità e sono molte le aziende, le parrocchie e semplici individui che offrono
ciò che è necessario: cibo, vestiario, biancheria, prodotti d’igiene personale,
quadei e giochi per i bambini, medicine; ma non gli antiretrovirali, che sono
dati dall’ospedale. Sono molte le persone e i gruppi che si ricordano della
casa per condividere quello che hanno» ribadisce la responsabile.
Esiste, quindi, tutta una parte
di Honduras che ha a cuore il prossimo e che sta alzando la propria voce. Il
futuro prossimo dirà se riuscirà a dare un volto nuovo, migliore, al proprio
paese.
Daniele Biella