Linea di galleggiamento

Un passo avanti e uno indietro

Sotto il presidente Benigno Aquino i problemi del grande arcipelago asiatico non sono cambiati: la riforma agraria è fallita; la povertà e la disoccupazione rimangono alte; la tratta di esseri umani prospera; nel Sud agiscono alcuni gruppi terroristici. Per tutto questo, le Filippine – tra l’altro sovrappopolate – sono caratterizzate da una massiccia emigrazione.

Con l’arrivo alla presidenza nel giugno 2010, dopo un’accesa campagna elettorale, di Benigno Aquino III detto «Noynoy», le Filippine sembravano tornate ai loro ideali e a nuove speranze. Cinquantenne, schivo e pragmatico, single con fama di playboy, impegnatosi in campagna elettorale in un programma riformista e moralizzatore della vita pubblica, Noynoy, pur con molti limiti di appartenenza sociale, carattere e capacità, poteva forse essere l’unica possibilità lasciata alle Filippine. Una possibilità che, al momento, rischia di essere sprecata. Corruzione, nepotismo, povertà, difficili rapporti con la gerarchia cattolica rendono la presidenza Aquino a dir poco tormentata, certamente poco efficace nel risolvere i problemi nazionali. Su una cosa, però, filippini e osservatori inteazionali sono concordi: pochi sarebbero in grado di gestire efficacemente e in soli sei anni i problemi di un paese come le Filippine e molte delle difficoltà attuali sono eredità dell’amministrazione precedente, quella della presidente Gloria Macapagal-Arroyo.
La difficoltà di delineare la fisionomia di un arcipelago – frammentato per geografia, storia e sovrapposizioni culturali – si gioca su linee comuni e su specificità locali.
Nella prima categoria rientrano la lotta agli antichi privilegi, la riforma agraria, quella del sistema scolastico, il dibattito su educazione sessuale e contraccezione che vede fortemente schierata la Chiesa cattolica; nella seconda, la situazione di Mindanao e del lontano meridione filippino, ma anche quella delle tante «periferie» del paese, luoghi geograficamente, ma soprattutto culturalmente e per possibilità di crescita, troppo lontani dall’indaffarata, caotica e anche disincantata Manila. Ecco allora che proprio da queste aree periferiche parte l’emigrazione, la più massiccia al mondo in percentuale sulla popolazione totale. Manila, nonostante i tentativi di decentralizzazione amministrativa, è ancora una strozzatura nel sistema che organizza le partenze per l’estero attraverso una complessa rete di agenzie pubbliche e private, a volte nell’ulteriore incertezza della clandestinità. Nei paesi d’emigrazione, è invece probabile l’incontro con connazionali raggruppati in comunità sovente vaste e bene organizzate, in cui è possibile acclimatarsi prima ancora di cercare un’integrazione nei paesi d’accoglienza.

LA DIFFICILE EREDITÀ DEL CARDINALE SIN
Una emigrazione in cui anche la Chiesa ha un ruolo: sia chiedendo norme a tutela degli emigranti e offrendo attività di counseling in patria, sia provvedendo alle molte cappellanie filippine in oltre un centinaio di nazioni.
La storia filippina del dopoguerra è stata caratterizzata prima dalla costruzione di una fragile democrazia elitaria, eredità della colonizzazione statunitense (anni 1945-1965); da una dittatura lunga e dura guidata da Ferdinand Marcos (1965-1986), all’inizio mitigata da una politica populista e anti-elitaria; infine dal ritrovato orgoglio democratico dopo la «Rivoluzione dei fiori e dei rosari» del febbraio 1986 guidata da Corazón Aquino. Anche nel contesto storico contemporaneo, un cenno va fatto al ruolo della Chiesa nell’accompagnare questo difficile periodo della storia dell’arcipelago asiatico, passato da una democrazia «ritrovata», a una democrazia «tradita». Oggi anche a una rinnovata speranza, ma con poche illusioni.
Sarebbe sbagliato ridurre l’impegno della Chiesa a un ruolo «politico». In realtà, due sono sempre stati i suoi obiettivi fondamentali: formare la coscienza degli elettori e favorire consultazioni libere ed oneste. Senza mai appoggiare espressamente alcun candidato né programma di governo, i vescovi hanno suggerito i criteri morali per una valutazione delle candidature: operare con impegno e coerenza per il bene comune; promozione e difesa della giustizia; spirito di servizio; opzione preferenziale per i poveri e per la difesa dei diritti umani.
Un impegno, quello della Chiesa filippina, o almeno dei suoi settori più progressisti, che ha accompagnato negli ultimi 25 anni una società civile attiva e variegata, sovente ideologizzata e insieme repressa. Va ricordato anche il ruolo del cardinale Jaime Sin, negli anni bui della dittatura, coscienza critica del potere e poi «censore» della nuova e fragile democrazia filippina.
Il cardinale, deceduto il 21 giugno 2005, per quasi trent’anni dal 1974 al 2004 arcivescovo della capitale, è stato simbolo della Chiesa locale, sia nella capacità di dialogo – sovente intransigente – con il potere civile, sia nel tenere acceso l’impegno sociale senza però venir meno ai fondamenti di una Chiesa fortemente tradizionalista.

LA TERRA E LA RIFORMA MANCATA
Con la «Rivoluzione dei fiori e dei rosari», la caduta della dittatura Marcos e la presidenza di Corazon Aquino, la pressione della piazza e di settori dell’esercito costrinse allo studio e all’avvio di un «Programma complessivo di riforma agraria». Presentato come un mezzo per ridistribuire in modo equo le terre del latifondo a contadini senza terra, ha finito col diventare una trappola per i nuovi piccoli proprietari, lasciati senza mezzi concreti. A questo vanno aggiunti le «eque» compensazioni per i possidenti (che avevano ceduto «volontariamente» le proprie terre, mentre in parte venivano ridistribuite a membri delle loro stesse famiglie) e il riacquisto delle terre dai contadini non in grado di vivere del loro lavoro in mancanza di strumenti di sostegno finanziario e tecnico.
Inoltre, solo il 50% delle terre coinvolte nel progetto di riforma era di proprietà privata (e di queste solo il 4% è stato ridistribuito dopo una requisizione; il resto è stato prima acquistato dallo Stato); il rimanente 50% è (o era) proprietà pubblica. Oggi il 68% degli agricoltori non sono proprietari delle terre che lavorano e solo il 3% ha ottenuto la terra attraverso la riforma agraria.

MINDANAO, TRA GUERRIGLIA E BANDITISMO
Posta a sud delle Filippine, Mindanao è l’isola maggiore per superficie di questo paese che di isole ne conta oltre 7mila, ma ospita solo il 24 per cento della sua popolazione. I suoi 120 mila chilometri quadrati sono da quarant’anni un campo di battaglia e i suoi  23 milioni di abitanti (il 70 per cento cattolici e il 23 per cento musulmani) sono ostaggio di un conflitto tra esercito e movimenti indipendentisti che in anni recenti hanno in parte aderito al radicalismo di origine afghana e araba, rilanciando le rivendicazioni locali nel più ampio teatro globale successivo all’11 settembre 2001. Questo nonostante la creazione di una regione autonoma di Mindanao musulmana (con una popolazione islamica al 90 per cento), che comprende le province di Lanao del Sur, Maguindanao, Tawi-tawi e Sulu.
Il massacro di una sessantina di persone, per metà donne della famiglia di un candidato alla presidenza e per metà giornalisti, da parte di un clan rivale nel novembre 2009 nella provincia di Maguindanao, ha aperto gli occhi dell’opinione pubblica filippina e internazionale sui potentati locali, sovente armati, ai quali è garantita immunità e copertura in cambio di appoggio elettorale. Una situazione oggi complessa, quasi inestricabile, quella di Mindanao, come complessa è la sua storia. Da tempo le rivendicazioni autonomiste e identitarie guidate da notabili musulmani locali, eredi di antichi sultanati e privilegi, sono state espropriate da movimenti guerriglieri («Fronte nazionale di liberazione Moro», «Fronte islamico di liberazione Moro») prima e, oggi dal banditismo con pretesto religioso di Abu Sayyaf.
Nel meridione filippino, non a caso sovente definito dagli stessi media locali «far west», la questione religiosa diventa pretesto di divisione e di violenza. Ad essa non è estranea la strategia di Al Qaida e del jihadismo globale che su queste spiagge ha trovato approdi accoglienti, rifugi e uomini pronti a continuare la lotta, ma un ruolo importante hanno anche i vasti interessi delle multinazionali minerarie, le fazioni politiche e le stesse strutture militari.
La Chiesa locale e la missione in questo contesto riescono solo con grande difficoltà ad operare per la pace e la convivenza, come pure per la giustizia e lo sviluppo. Il rischio di essere «presi nel mezzo», di diventare oggetto di minacce, sequestri e anche  obiettivo di sicari è alto e già pagato a caro prezzo.

FAMIGLIA, SINDACATO, MULTINAZIONALI
La società filippina aggrega e insieme vive di un numero enorme di associazioni, gruppi, coalizioni e istituzioni. Una situazione connaturata alla tradizione, alla cultura filippina, che stima aggregazione e armonia sociale come valori prioritari, a partire dall’ambito familiare. Allo stesso tempo, questa impostazione «partecipatoria» più che «di azione» è un limite alla loro attività. L’altro, e ancora più pesante, è la difficoltà ad agire, in particolare in ambito economico o politico. Per decenni, dopo l’indipendenza, sindacati e Ong sono state illuse che la possibilità di crescere sotto il protettorato de facto americano potesse garantire una reale influenza sulla vita pubblica. Inoltre, la dipendenza del paese dalle iniziative imprenditoriali e dagli investimenti stranieri si è scontrata contro gli interessi locali portati avanti da alcuni gruppi. Non si può negare che la forte sindacalizzazione, molto avanzata rispetto ad altri paesi fino dagli anni Settanta, sospettata spesso di collegamenti con Partito comunista al bando e con le sue ali armate e guerrigliere, abbia costretto alla chiusura un gran numero di fabbriche nate per iniziativa straniera, giapponese in particolare, o al loro ridimensionamento.
Oggi le cose sono cambiate. Lo dimostrano le aree economiche speciali come quella che gravita attorno alla città di Olongapo (che include l’ex base navale statunitense di Subic Bay). Qui vincono la deregulation e i diktat degli investitori stranieri e delle loro controparti locali più che le necessità di tutela e di benessere della popolazione.
Mentre – e è un poco lo specchio del paese – accanto alle attività che danno da lavorare a migliaia di filippini nel settore formale (con punte avanzate di tecnologia e know-how), prosperano prostituzione e sfruttamento.
Insomma, le Filippine modificano l’apparenza ma non la sostanza. La scarsa memoria dell’arcipelago continua a giustificare il potere di pochi, l’«ineluttabilità» dei suoi mali incentiva mille iniziative, ma non una reazione. Non a caso l’emigrazione, incentivata fin dai tempi della dittatura, è oggi organizzata, gestita e per certi aspetti sfruttata proprio dalle strutture governative.

Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




Cercare gli ultimi

L’intervista: il missionario

Fede, chiesa, missione, teologia secondo padre Ezio Roattino.

«Io mi sforzo di ispirarmi al vangelo di Gesù. Quindi, cerco di condividere l’esistenza con i crocefissi. I crocefissi sono i poveri, gli impoveriti, le vittime. In una parola, sono gli ultimi. Con loro io mi sento bene. Oggi gli ultimi sono i campesinos sfollati, gli afrocolombiani e, nella mia quotidianità, gli indios del Cauca. Anche se faccio fatica, anche se ho i miei anni, anche se parlo la lingua nasa più o meno, io sono contento di essere lì con loro. Natale Vivalda, prete di Genova trapiantato in Colombia, ove morì il 13 luglio 2011, mi fu d’esempio. Lui andava nelle notarie pubbliche per controllare di chi fosse la terra. Natale mi diceva: “Tu, Ezio, non ti salverai da solo. Gli altri ti salveranno”».

Nel Cauca, da molti anni i missionari della Consolata vivono tra gli indios nasa. Con quale obiettivo?
«Li accompagniamo e li ascoltiamo. Sapendo che sono “altri”. Occorre proseguire sulla strada della “convivialità delle differenze” (essere alla stessa tavola), come diceva don Tonino Bello. E, se sono “altri”, altro sarà l’incontro con il vangelo. Come un seme che diventerà spiga con la linfa della terra e con il sole e la pioggia del cielo.
A Pentecoste tutte le genti, convocate dalla terra intera, ascoltavano la parola di Dio, proclamata da Pietro, nelle loro proprie e diverse lingue. Il vangelo, liberato dalla cultura occidentale (la cosiddetta inculturazione) e fondato sul dialogo (l’interculturalità), è sfida primaria della nostra missione.
Juan Del Valle, il primo vescovo (era spagnolo) di Popayan, così scriveva – attorno al 1546 – al Re di Spagna: “Qui gli indios sono più maltrattati che gli israeliti in Egitto. E se non si rimedia io continuerò a gridare, nonostante mi buttino pietre”. Se è fondamentale l’esistenza di una resistenza, allora occorre dare voce a chi la resistenza la mette in pratica. Vivere quotidianamente con i Nasa risponde a questo obiettivo».
Vivere la quotidianità è vivere la trascendenza?
«“La gloria di Dio è la vita dell’uomo”, dice San Ireneo. E, come precisava l’arcivescovo Romero, dandone un tocco latinoamericano, “la gloria di Dio è la vita del povero”. Bonhoeffer scriveva dal carcere ad un amico: “Dobbiamo imparare a vivere ogni giorno come fosse il primo e l’ultimo giorno della nostra vita. Può darsi che il giudizio universale arrivi domani, ma fino a domani io lotterò per la trasformazione di questo mondo”. Dunque, come missionari della Consolata siamo in Colombia, perché crediamo che dobbiamo sì lottare per la vita eterna, ma anche per la vita storica. Che poi è la ricerca dell’eguaglianza, della libertà e della solidarietà».

Una rivoluzione, dunque?
«La Rivoluzione francese non parlava forse di liberté, egalité, frateité? E con essa tante altre rivoluzioni. E la rivoluzione di Gesù, figlio di Dio e figlio dell’uomo, si sarà forse esaurita in Duemila anni di storia? Avremo già sfruttato questa miniera di risposte e di nuovi cammini? Occorrerebbe credere di più per osare di più e incidere di più».

Qualcuno si lamenta affermando che lottare per trasformare il mondo terreno non è compito di un missionario…
«Un giorno un confratello del Kenya mi chiese: “Ma la teologia della liberazione in America Latina non è finita?”. Io gli risposi: “Fino a che nel Padre nostro ci saranno le parole  ‘Liberaci dal male’, la teologia della liberazione, che diventa spiritualità e pratica della liberazione, non si potrà seppellire, perché è parte del vangelo”.
Un caro amico, sacerdote colombiano, padre Federico Carrasquilla, ci diceva: “Nella nostra Chiesa vedo chi lavora per Dio e chi lavora per il Regno, come se fossero due cose separate. Ma non si può lavorare per Dio senza il Regno, né lavorare per il Regno senza Dio. Da una parte, abbiamo belle liturgie e cerimonie senza preoccuparsi di chi non ha pane né lavoro, né casa; dall’altra, è tutto un organizzare comitati, sindacati, assemblee senza preghiera, eucarestia, lettura della parola di Dio. Non può esistere un Re senza Regno, né un Regno senza Re. Gesù non ha predicato Dio e non ha predicato il Regno, ma ha predicato il Regno di Dio”».

Padre Ezio, come vede la missione dei missionari della Consolata?
«È la missione della consolazione: consolare i poveri, i più poveri, gli ultimi. Giuseppe Allamano, il nostro fondatore, ci ha lasciato come esempio la vita e l’opera dello zio Giuseppe Cafasso. Questi, durante tutta la sua esistenza, visitò le quattro carceri di Torino. Lo fece ogni settimana, accompagnando fino al patibolo 68 condannati a morte. Per questo venne soprannominato “il prete della forca”, il prete degli ultimi.
In Colombia, chi sono e dove sono i condannati a morte? Se li conosciamo, stiamo accompagniandoli?».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Resistenza e dignità

Gli indigeni del Cauca

Sono pochi, ma combattivi. Nel Cauca, il movimento indigeno, nato dalla lotta di Manuel Quintín Lame, ha pagato il suo impegno con una lunga serie di morti. I più conosciuti sono padre Alvaro Ulcué (1984) e Cristobal Secue Tombé (2001). Ma il tributo di sangue continua ancora oggi. La guerriglia, i paramilitari e la forza pubblica non gradiscono un’opposizione, che fa della resistenza nonviolenta la propria forza.

In Colombia, su una popolazione totale di 47 milioni di abitanti, gli indigeni sono un milione e 400mila1. «Molti sostengono – racconta padre Roattino – che gli indigeni siano l’unico gruppo sociale che protesta e che si fa sentire». Questo vale soprattutto per gli indigeni del Cauca, appartenenti in maggioranza all’etnia nasa. Le loro mingas suscitano sempre molto clamore. «In effetti – conferma il missionario -, riescono a mobilitare 15-20 mila persone in marce di 4-5 giorni per arrivare fino a Bogotà. Hanno visibilità, anche se poi questa non produce frutti per quanto riguarda la risposta dello Stato. Le firme sono fatte su accordi che vengono regolarmente disattesi dalle autorità. Tuttavia, le mingas sono fondamentali per generare coscienza e solidarietà a livello nazionale».

L’oggetto del contendere è sempre lo stesso: la terra. Per i bianchi, essa è soprattutto una questione economica. Per gli indios, è innanzitutto una questione mistica: la terra è madre. Da difendere a costo della vita.
In Cauca, uno dei primi a parlare di diritti indigeni sulla terra è Manuel Quintín Lame (1880-1967), indio di padre nasa e madre guambiana. La sua lotta inizia combattendo il sistema del terraje. Questo prevede che i coloni (ex schiavi) paghino ai latifondisti un «affitto» costituito in parte da prodotti agricoli, in parte da giorni di lavoro gratuito. Non riuscendo ad ottenere risultati, Lame si fa più ardito iniziando a chiedere la restituzione della terra ai legittimi proprietari, gli indigeni. Una lotta impari, soprattutto per le terre più produttive, quelle in pianura. Tutte le volte in cui gli indios nasa si sono spinti verso le «terre basse», in mano al latifondo o ai paramilitari, è sempre finita nel sangue. Come ricordano il massacro di López Adentro (1984) o quello del Nilo (1991). Ma da anni il problema è anche sulle «terre alte» (conosciute come «tierras quebradas»), in mano agli indigeni, che sono state invase dagli attori del conflitto armato (la guerriglia, l’esercito, i paramilitari) e, più recentemente, dalle imprese multinazionali.
«Oggi – spiega padre Roattino – la vera ricchezza è data dalla enormi riserve di acqua. Si parla di migliaia di sorgenti idriche, centinaia di lagune. Quest’acqua beneficia tutta l’industria della Valle del Cauca e le grandi coltivazioni di canna da zucchero, ma gli indios – unici a poter accampare diritti – non ricevono nulla. Ed anzi rischiano di vedersi espropriati se non stanno all’erta».

Dopo la morte di Manuel Quintín Lame, nel febbraio del 1971 nasce il «Consiglio regionale indigeno del Cauca» (Consejo regional indígena del Cauca, Cric). Ma la lotta degli indigeni della regione trova nuovo impulso quando – è l’anno 1973 – sulla scena appare Álvaro Ulcué Chocué, il primo sacerdote di etnia nasa della Chiesa cattolica colombiana. Padre Roattino ha conosciuto bene padre Alvaro, avendo lavorato con lui dal 1982 al 1984 nei resguardos di Toribio, Jambaló e Taquejó. «Alvaro non soltanto ha marcato un’epoca, ma ha segnato in profondità la coscienza indigena».
Il sacerdote nasa voleva svegliare, scuotere l’indio che la colonia aveva umiliato e standardizzato. Voleva «decolonizzare la mente» degli indios. In primis, riappropriandosi della lingua madre, tratto essenziale dell’identità indigena.
«Una volta – racconta padre Ezio – mi convocarono quelli del Das, Departamento Administrativo de Seguridad. Uno dei punti su cui i servizi segreti vollero interrogarmi era proprio la lingua. “Padre, dicono che lei parli la lingua indigena. Dunque, chi non la conosce non può capirla”. Volevano dirmi: “Lei nasconde delle cose”. Il potere voleva controllare, ma per farlo basta fare una cosa: imparare la lingua. Cosa non facile invero, anche all’interno dei nasa. Un giorno feci salire in auto una ragazza di 15-16 anni che veniva da Cali e andava al suo villaggio. Le chiesi in lingua nasa: “Come stai?”. Lei mi rispose: “Buongiorno, padre”. In spagnolo. “Scusa – le dissi -. Ma tu non sei indigena?”. E lei: “Mia madre era indigena”. Che tradotto significava: per me non è più così».

Nel gennaio 1984 gli indigeni recuperano (non occupano) un latifondo a Corinto: la Hacienda López Adentro, una «terra bassa». Vi rimangono per circa un anno. Il 9 di novembre arrivano i militari che distruggono tutto: 300 ettari di coltivazioni, case e macchinari. Il giorno dopo, 10 novembre 1984, muore padre Alvaro Ulcué, ammazzato a Santander de Quilichao da 2 sicari. «Non fu una coincidenza – spiega padre Roattino -, ma un avvertimento: gli indios si erano spinti troppo in là. Quindici anni dopo sarebbe toccato a Cristobal, altro leader indigeno molto impegnato e deciso nell’azione del recupero delle terre».
Cristobal Secue Tombé viene assassinato il 25 giugno 2001, nel municipio di Corinto. Da allora è stato (è) uno stillicidio. Secondo dati ufficiali di Somos defensores2, nel 2010 in Colombia sono stati assassinati 32 difensori dei diritti umani. Di questi, 11 erano indigeni, di cui ben 8 del Cauca.

Sono passati 500 anni dalla Conquista: l’indio di oggi non è più quello di ieri. «Alcuni leader – spiega Roattino – vorrebbero tornare al passato, dimenticando che anche l’indio è nel 2012. Non si può dire: “Sii indio”. Ci sono indios che non vogliono essere tali. Non si può obbligare, imporre. Occorre dire: “Sii indio, se vuoi”. Personalmente, vedo 3 tipi di indio: c’è quello tradizionale che vuole essere la fotocopia del passato, c’è quello moderno che critica le tradizioni e c’è l’indio nuovo. Quest’ultimo è quello che ha una radice antica, che prende dal passato senza però dimenticare il tempo in cui vive». Un tempo segnato dalla strenua difesa della terra e della propria identità. Lungo questa difficile strada si sono incamminati i 120 mila indigeni del Cauca. A dispetto delle Farc, dei paramilitari e dello Stato colombiano.

Paolo Moiola

Note
1 – La cifra è quella dell’ultimo censimento (anno 2005) effettuato dal Departamento administrativo nacional de estadistíca (Dane). Secondo la stessa fonte, gli afrocolombiani sono poco meno di 4,3 milioni.
2 – Rapporto 2010 di Somos Defensores.

Paolo Moiola




La guerra dentro casa

Un paese senza pace

Cambiano presidenti e comandanti, ma non la situazione. La guerra civile colombiana dura da oltre mezzo secolo. Ne fa le spese la popolazione, soprattutto gli oltre 4 milioni di sfollati e gli indios.
Ne abbiamo parlato con padre Ezio Roattino, missionario nel Cauca, regione dove guerriglia, esercito e paramilitari si fronteggiano senza esclusione di colpi. Sulla pelle dei civili per i quali dicono di combattere.

Spari di mitraglia, boati di esplosioni. Il sito internet delle «Forze armate rivoluzionarie di Colombia» (Farc) ha un «sottofondo musicale» piuttosto particolare. In questo spazio virtuale, il 26 febbraio viene pubblicato un comunicato in cui si annuncia la prossima liberazione di 10 prigionieri di guerra, soldati e poliziotti nelle mani della guerriglia1. Nello stesso comunicato, si annuncia che d’ora in poi le Farc non prenderanno più in ostaggio uomini e donne della popolazione civile. Padre Ezio Roattino, missionario della Consolata, da 30 anni in America Latina (o Abya Yala2, come egli preferisce dire), è scettico. «Nella logica della guerra, ci sono momenti in cui il linguaggio conciliatorio è reso necessario dalla situazione oggettiva. In questo momento le Farc sono in difficoltà». Non si sa con certezza di quanti uomini la guerriglia disponga oggi. Si parla di poche migliaia; qualche anno fa erano oltre 20 mila. I vari fronti e colonne mobili in cui le Farc sono organizzate sembrano muoversi in maniera disordinata, al di fuori di ogni strategia nazionale. «Il cornordinamento – spiega padre Ezio – è diventato molto complicato. Sia per la fortissima militarizzazione del territorio, sia per la diffusione di tecnologie sempre più sofisticate. Molte delle recenti disfatte delle Farc sono state possibili grazie all’intercettazione dei cellulari».
Oltre che dalle sconfitte patite ad opera dello Stato3, le difficoltà della guerriglia sono aggravate dalla scarsità di risorse finanziarie e, probabilmente, dalla mancanza di un forte comando centrale.
Negli ultimi quattro anni, le Farc hanno perso Raul Reyes, Manuel Marulanda, Mono Joyoy e da ultimo Alfonso Cano. Da novembre 2011, il nuovo leader è Rodrigo Londono-Echeverry, detto «Timochenko», di cui però si sa ancora troppo poco.
Paradossalmente, le difficoltà delle Farc si sono tradotte in maggiori pericoli per la popolazione civile, in modo particolare nel Cauca. «A Santander de Quilichao, per le imprese è molto pericoloso sottrarsi al pagamento della “quota rivoluzionaria”, un vero e proprio “pizzo”. Poi, oltre alle estorsioni nei confronti dei soggetti economici, ci sono i sequestri di persona».
Padre Ezio ricorda la vicenda del rapimento di Francesco Menotti Perlaza, figlio di una famiglia benestante. Il ragazzo riesce a scappare, ma per la famiglia l’incubo continua con minacce, bombe e un omicidio. Il 21 aprile 2011 viene assassinato Agustín Perlaza, zio di Francesco. Pochi giorni dopo quella tragica morte, padre Roattino si espone pubblicamente scrivendo una lettera aperta alle Farc. In essa si scaglia contro la «cultura della morte» fino ad affermare che una vera rivoluzione ha una propria etica e mistica oppure non è una rivoluzione.

«LEI NON PUÒ ENTRARE CON LE ARMI»
Ancora più difficile è la situazione per chi vive nei centri minori. Come a Toribio, il piccolo comune di montagna, in gran parte abitato da popolazione di     etnia nasa, dove padre Roattino
(continua a pag. 18)
è stato parroco fino a pochi mesi fa e dove gli attacchi della guerriglia sono molto frequenti. L’obiettivo è la locale stazione di polizia, ma gli effetti si ripercuotono su tutti.
«Le Farc che io conosco – parlo  di Toribio e del Cauca di questi ultimi anni – non lottano più per un ideale sociale, ma sono entrate nello spazio del terrorismo. Per esempio, il fatto di usare le bombole del gas che esplodendo colpiscono indiscriminatamente, secondo me va contro qualsiasi etica rivoluzionaria».
Sabato 9 luglio 2011 a Toribio è giorno di mercato. È attesa una chiva, una corriera, carica di prodotti della campagna. Invece, ne arriva una piena di bombe e ordigni esplosivi. L’esplosione, violentissima, avviene vicino alla stazione di polizia, non lontano dalla chiesa. Ci sono 3 morti e 122 feriti. Un bilancio che sarebbe potuto essere molto più tragico se la chiesa e la casa parrocchiale non avessero fatto da muro di contenimento, attutendo l’urto dell’onda esplosiva e proteggendo così tutta la gente che riempiva il mercato della piazza principale di Toribio.
Padre Roattino è duro con le Farc, ma lo è altrettanto con lo Stato. A Toribio il missionario non consente alla polizia di entrare in chiesa con le armi. Una decisione che viene spesso interpretata come un affronto di lesa maestà. «Un giorno, un comandante della locale stazione di polizia chiese di leggere le scritture durante la messa. Ma io mi opposi. “Io non metto in dubbio la sua fede – gli dissi -, ma lei rappresenta uno Stato armato”. A volte, mi vedo costretto a ricordare che Gesù Cristo fu ammazzato dalle forze dell’ordine… La parola di Dio – “Tu non uccidere” – vale sia per la guerriglia che per lo Stato. Perché non esiste una guerra giusta».

NUOVO TRATTATO, NUOVI ESCLUSI
Dall’agosto 2010 è presidente della Colombia Juan Manuel Santos. Che sicuramente non è un uomo nuovo. È stato ministro sotto la presidenza di Álvaro Uribe e proviene da una delle famiglie più influenti del paese.
I Santos sono stati proprietari ed oggi azionisti de El Tiempo, il principale quotidiano colombiano. Padre Roattino non vede, nel paese, i progressi che politici e media propagandano. «Viene esaltata – spiega il missionario – l’inteazionalizzazione del paese perché, il 12 ottobre 2011, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il “Trattato di libero commercio” con Bogotà. Ma il Tlc sarà certamente un brutto colpo per la Colombia degli esclusi. I prodotti provenienti dagli Stati Uniti invaderanno il mercato colombiano spiazzando con i loro prezzi bassi le produzioni locali».
Anche sul tema del conflitto armato interno, i proclami della presidenza Santos si scontrano contro la realtà. Nel luglio 2011, è stata promulgata la «Legge per le vittime e la restituzione delle terre»4, che si prefigge di restituire agli sfollati (desplazados) la terra persa a causa del conflitto e di indennizzare le vittime di violazione dei diritti umani. Peccato che la legge nasconda svariati trucchi giuridici5.
In Colombia, esistono almeno 4 milioni di sfollati6 e si stima che le terre in mano a proprietari illegittimi siano almeno 6,5 milioni di ettari. Numeri enormi. «Dubito molto sull’efficacia di questa legge. Basta ragionare un attimo: chi ha il coraggio di andare a reclamare una terra su cui si sono insediati altri soggetti, certamente più forti e più protetti di una famiglia di sfollati?».
I soggetti cui padre Roattino si riferisce sono latifondisti e paramilitari. Va ricordato che la «Legge di giustizia e pace»7, fulcro del processo di disarmo dei paramilitari, è sostanzialmente fallita. Oggi si sono formati nuovi gruppi paramilitari che, secondo cifre ufficiali, conterebbero 5.700 membri. Il fenomeno è reso possibile dalla connivenza con il mondo politico (come ha evidenziato lo scandalo conosciuto come «parapolitica») e con una parte delle forze di polizia. Nel 2011, almeno 180 poliziotti sono stati incarcerati per vincoli con i paramilitari8.
La terra è ambita da tutti, ma a prevalere sono sempre i soliti. In questi ultimi anni, c’è stata un’invasione di multinazionali minerarie sulla Cordigliera andina colombiana, la quale, tra l’altro, è una grande riserva di acqua, ospitando le sorgenti di tutti i grandi fiumi: Magdalena, Putumayo, Caquetà, Cauca. Ebbene, qui il governo ha già rilasciato 64 concessioni minerarie per poter estrarre petrolio o altre ricchezze come l’oro. «Ci sono resguardos indigeni – spiega padre Roattino – venduti a compagnie minerarie senza una consultazione previa con le popolazioni, come previsto dalla Costituzione. Quindi, l’acqua e la foresta appartengono agli ultimi arrivati. D’un colpo, la storia è tornata indietro di 500 anni!».
Per il 2012 in Colombia si prevede una crescita del Prodotto interno lordo pari al 4,5%. Numeri da invidia per politici, economisti e media del sistema neoliberista. Peccato che questo sviluppo segua le consuete strade della diseguaglianza, come sottolinea padre Roattino: «Oggi in Colombia gli ultimi – indios, afrodiscendenti, campesinos – stanno peggio di prima. Non ci sono dubbi che l’esclusione è in aumento. Com’è in aumento l’insicurezza. A Bogotà si dice più o meno così: nella condizione in cui ci troviamo oggi, i poveri non possono più mangiare, la classe media non può più comprare, i ricchi non possono più dormire (per la paura di essere derubati)».
A parte le vittime della guerra e della delinquenza, tra la gente comune a rischiare la vita sono soprattutto i sindacalisti e i difensori dei diritti umani. Nel 2011, sono stati assassinati 26 dei primi e 49 dei secondi9. L’impunità continua a coprire la violazione dei diritti umani. Il governo di Santos non si distingue da quello di Álvaro Uribe, suo predecessore, neppure in questo.

Paolo Moiola

Note
1 – La liberazione degli ostaggi è avvenuta lo scorso 2 aprile 2012. Alcuni erano prigionieri da 13 anni.
2 – Abya Yala è il nome indigeno delle Americhe.
3 – Pur lasciando spazio a colpi di coda, come avvenuto il 17 marzo 2012 quando le Farc hanno ucciso 11 soldati nel dipartimento di Arauca. Pochi giorni dopo, la controffensiva dell’esercito ha portato all’uccisione di 33 guerriglieri e alla cattura di 5.
4 – Ley de víctimas y restitución de tierras. La legge è scaricabile dal web.
5 – Gilberto Lopez y Rivas, Colombia. Il terrorismo di Stato continua, Latinoamerica n. 4, 2011, pagg. 68-71.
6 – Sono 3,7 milioni secondo Acción Social, organismo pubblico; sono invece 5,3 milioni secondo Codhes, nota Ong colombiana.
7 – Ley de justicia y paz, n. 975, 25 luglio 2005.
8 – Rapporto di Human Rights Watch, gennaio 2012.
9 – Rapporto di Somos defensores, Ong che si occupa di proteggere i difensori dei diritti umani: www.somosdefensores.org.

Paolo Moiola




Terzo polmone del cristianesimo

Cristiani in Siria: tra due fuochi

La Siria è, insieme al Libano, la terra che esprime pienamente la ricchezza e la complessità della storia cristiana: orientali, cattolici e ortodossi, ci sono tutti; un crogiolo di confessioni, riti e culture che, attraverso i secoli, è diventato un laboratorio di dialogo ecumenico e tolleranza interreligiosa; un’esperienza bimillenaria presa tra due fuochi: le violenze settarie dei ribelli e la repressione feroce del regime.

Da oltre un anno si susseguono le notizie sulla carneficina in corso in Siria. Tra le loro pieghe, ogni tanto si sentono accenni a cristiani in fuga: caldei, assiri, siro-ortodossi, siro-cattolici… Per la maggior parte della gente questi cristiani sono un mondo sconosciuto; i più informati li considerano residuati di un mondo esotico e complesso, conosciuti per i loro riti pittoreschi e le tante giurisdizioni: nella sola città di Aleppo ci sono 11 chiese diverse, la maggior parte delle quali con a capo un vescovo.
Di fronte a una guerra civile ormai in corso, con bombardamenti dell’esercito regolare e autobombe degli insorti, i cristiani si trovano tra due fuochi. Incombe sulla Siria la minaccia comune a molti paesi del Medio Oriente: la fuga dei cristiani e l’estinzione delle più antiche Chiese cristiane, risalenti all’epoca apostolica. Sarebbe una perdita enorme per l’intera umanità, che non può permettersi di vedere disperso un ricchissimo patrimonio culturale e religioso tramandato ininterrottamente per duemila anni.

il polmone siro-orientale
La prima evangelizzazione della Siria, secondo l’antica tradizione ecclesiastica, risale all’apostolo Giuda Taddeo, del clan familiare di Gesù, e all’apostolo Tommaso, nel suo viaggio verso la Persia.
La Siria, a quei tempi, comprendeva i territori dell’omonima provincia romana, dalla Palestina alle regioni dell’Eufrate, e aveva come capitale Antiochia di Siria. L’area geografica si allarga di molto se pensiamo alla lingua parlata in quelle regioni: il siriaco, un dialetto strettamente legato all’aramaico, la lingua parlata da Gesù e dagli apostoli.
Ad Antiochia soggioò a lungo l’apostolo Pietro, prima di stabilirsi a Roma; sempre ad Antiochia tutti i discepoli di Gesù, giudei e pagani, da allora e per sempre vennero chiamati «cristiani».
Intoo all’anno 36, sulla via di Damasco, folgorato da Gesù stesso, Saulo di Tarso divenne l’apostolo delle genti e fece di Antiochia di Siria il punto di partenza dei suoi viaggi missionari. E dopo la distruzione di Gerusalemme per mano dei romani (70 d.C.), Antiochia diventò il centro delle chiese di lingua siriaca e scuola del pensiero cristiano d’Oriente, come Alessandria (poi Costantinopoli) lo fu delle chiese di lingua greca e Roma di quelle di lingua latina.
Già nel II secolo la teologia siriaca, non ancora influenzata dal pensiero greco, si sviluppò con caratteristiche autoctone, grazie alla riflessione di grandi figure come gli apologeti Teofilo di Antiochia e Taziano il Siro, Afraate monaco, asceta e vescovo, e soprattutto il grande sant’Efrem il Siro (306-373), teologo, poeta e padre della chiesa.
Alla fine del III secolo, la chiesa siriaca era profondamente radicata nelle città e nelle campagne, grazie soprattutto alla straordinaria fioritura del fenomeno ascetico-monastico, le cui caratteristiche indigene, come la forma eremitica degli stiliti, distinsero la chiesa siriaca e la resero famosa su tutte le altre. San Simeone Stilita (521-592) e san Marone sono alcuni dei più noti tra i tanti monaci che vissero in questa regione. Testimoni di tale fioritura sono migliaia di luoghi di preghiera, risalenti al IV e V secolo, i cui ruderi ancora visibili sono disseminati nelle famose «90 città morte» a ovest di Aleppo.
Ben presto la Siria fu teatro delle controversie cristologiche che causarono la divisione religiosa in Oriente: quando il concilio di Calcedonia (451) condannò il monofisismo (Cristo avrebbe una sola natura), condanna ribadita nel secondo concilio di Costantinopoli (553), la maggior parte dei cristiani siriaci rifiutarono le decisioni conciliari, dando vita alla chiesa siro-ortodossa (monofisita). Più che a divergenze teologiche, lo scisma fu dovuto a fraintendimenti linguistici e, soprattutto, alla reazione nazional-religiosa contro i dominatori greco-bizantini. Una parte della società, più colta e ellenizzata, accettò senza difficoltà le decisioni conciliari, dando origine alla chiesa melchita (melek=re).
Per tutto il millennio (cioè finché le condizioni lo permisero) i siriaci, soprattutto orientali, svolsero una stupefacente attività missionaria, espandendo il vangelo nella penisola arabica, fino a raggiungere varie tribù mongole dell’Asia centrale, il Tibet e la Cina.
Di valore eccezionale è la produzione di testi teologici e spirituali delle chiese siriache: un patrimonio letterario ricchissimo, purtroppo poco conosciuto e in parte perduto, che non ha nulla da invidiare alla letteratura greca e latina, tanto che uno dei massimi studiosi di questa tradizione, Sebastian Brock, riprendendo una immagine di Giovanni Paolo II, afferma che la cristianità respira con tre polmoni: quello latino, quello orientale e quello siriaco.

Impatto con l’islam
In seguito alla conquista araba (VII secolo) i cristiani bizantini e siri esercitarono un enorme influsso anche sulla nascente civiltà islamica, sia quando Damasco divenne la capitale dei califfi Omayyadi, sia quando la capitale fu spostata a Baghdad dalla dinastia degli Abbasidi (750). Funzionari cristiani ed ebrei pullulavano nell’establishment dei vari califfati. Uno di essi fu san Giovanni Damasceno (675-749), di nobile famiglia arabo-cristiana, amico e consigliere del califfo e responsabile economico del califfato fino a quando si ritirò nella laura di San Saba in Palestina.
L’incontro tra cristianesimo e islam portò per forza alla presentazione delle rispettive dottrine di fede. Lo stesso Damasceno analizzò il Corano, lo paragonò alla Bibbia e ne dedusse che l’islam era un’eresia cristiana.
Ben presto l’arabo divenne idioma cristiano, usato nel dibattito culturale e nelle differenti controversie religiose nell’area islamica: il vescovo Teodoro Abucara (741-825), discepolo del Damasceno, compose in arabo le sue opere, tra cui il trattato sulla Difesa delle icone, traendo argomenti dal Corano e dai detti del Profeta.
Per tre secoli, numerosi cristiani siriaci (ed ebrei) animarono le famose accademie musulmane fiorite in Siria e in Mesopotamia e, su incarico dei califfi, intrapresero una sistematica traduzione dal greco in arabo, attraverso il siriaco, dei testi letterari, filosofici e scientifici dell’antichità classica. In tal modo la conoscenza del mondo greco-romano divenne uno dei fondamenti della cultura arabo-islamica.
Durante il Medio Evo gli arabi, attraverso la Spagna, riportarono i testi classici della filosofia greca in Europa, che aveva quasi del tutto dimenticato questa tradizione.
Nel secondo millennio, sotto il dominio dei mamelucchi e poi dei turchi ottomani, la storia dei cristiani della Siria fu costellata di violenze e pogrom anticristiani; ma nei momenti di calma essi riuscirono a contribuire allo sviluppo della regione con le loro attività commerciali e intellettuali, culminate in iniziative culturali, verso la metà del secolo XIX, come scuole, tipografie, giornali, testi scolastici e di letteratura… che hanno creato in Libano e in Siria il senso di «arabità», collante comune a cristiani e musulmani in chiave anti ottomana e terreno di coltura del nascente nazionalismo siriano.
Durante il mandato francese (1921-46), un giurista cristiano libanese, Edmond Rabbath, ispirò la Costituzione del 1930: sfruttando il senso di arabità, fu prescritta una rigorosa neutralità del potere civile nei confronti delle varie confessioni religiose. Il modello «laicizzante» rimase anche dopo la dichiarazione d’indipendenza (1944) e nella nuova Costituzione elaborata all’inizio degli anni ‘50: nonostante le pressioni dei Fratelli musulmani, l’islam non fu menzionato come religione di Stato; mentre fu prescritta l’assoluta appartenenza alla religione islamica del presidente della repubblica (art. 3).
Altri cristiani contribuirono all’indipendenza della Siria, come Michel Aflaq, militante nazionalista, che nel 1947 fondò il Partito Baath arabo socialista (o semplicemente Baath, ossia, risurrezione). Un altro cristiano, Fares al-Khoury, anche lui tenace nazionalista, fu eletto presidente della Repubblica per due volte (1945 e 1954) e fu acclamato padre della patria, ma, a differenza di Aflaq, si oppose al pan-arabismo di Nasser e alla unione tra Egitto e Siria (1958-1961).

Caleidoscopio di riti e culture
Trent’anni fa in Siria vivevano 9 milioni di abitanti; oggi sono quasi 23 milioni, compresi 472 mila rifugiati palestinesi e 1,5 milioni di sfollati iracheni: un mosaico di «47 gruppi etnici e religiosi», secondo un professore di relazioni inteazionali di Damasco.
Sotto l’aspetto etnico il popolo siriano è composto da arabi e aramei arabizzati (86%), curdi (7%), armeni (2%), turchi, circassi, caldei, assiri, turkmeni, ceceni e altri. Sotto l’aspetto religioso la società siriana risulta ancora più frastagliata. La maggioranza dei siriani sono musulmani sunniti (74%) il resto è formato da minoranze di sciiti, alawiti, drusi, ismailiti e altri gruppi islamici.
I cristiani sono circa 2 milioni (quasi 10%) e costituiscono a loro volta un autentico caleidoscopio di riti e tradizioni, con 11 gerarchie e comunità differenti, con ben 3 patriarchi di chiese orientali che hanno la propria sede a Damasco, erede della sede apostolica antiochena.
Metà di essi appartiene alla chiesa antiochena (greci ortodossi); circa 500 mila costituiscono la chiesa ortodossa siriaca; 125 mila la chiesa apostolica armena; poche migliaia di nestoriani o assiri e protestanti.
I cattolici siriani sono circa 430 mila, divisi in varie chiese con giurisdizioni diverse per i fedeli di ciascun rito: greco-cattolici o melchiti, siriaci, maroniti, armeni, latini, caldei. 
La Siria è, insieme al Libano, l’unico paese arabo in cui l’islam non è definito religione di stato dalla Costituzione e la religione non è riportata sulle carte d’identità. I cristiani, quindi godono di totale libertà di culto e possono svolgere i loro riti e funzioni (messe, processioni, pellegrinaggi…) liberamente e pubblicamente, purché non disturbino l’ordine pubblico; le solennità cristiane come Natale e Pasqua sono giorni festivi per tutto il paese; croci, insegne religiose, edicole mariane… sono apertamente esposte nei quartieri cristiani. Non esiste alcuno ostacolo all’edificazione di nuove chiese e strutture religiose; anzi, talvolta è il governo a facilitae la costruzione, particolarmente nelle aree suburbane di Aleppo, Damasco, Homs, offrendo il terreno e accelerando i permessi. Senza dimenticare che, al pari di moschee e strutture islamiche, chiese e edifici cristiani sono esenti da tasse e godono della foitura gratuita di elettricità e acqua.
Un decreto presidenziale del 2006 garantisce ai cattolici la possibilità di regolare questioni di diritto familiare ed ereditario secondo norme e criteri differenti da quelli derivanti dalla legge coranica. Tutto ciò ha garantito e stabilizzato la presenza cristiana nel paese e scoraggiato l’emigrazione.
Sulla libertà di coscienza, però, pesano le regole dettate dalla tradizione musulmana. Nessuna legge proibisce il proselitismo cristiano, ma il governo lo scoraggia, fino a perseguitare i missionari cristiani; la conversione al cristianesimo è ritenuto un reato dall’establishment religioso e sociale; come in tutte le società islamiche, una donna musulmana non può sposare un cristiano; se una cristiana sposa un musulmano i suoi figli sono automaticamente considerati musulmani.
Per tenere insieme questo mosaico di gruppi etnici e religiosi la società siriana ha saputo sviluppare una mirabile ma fragilissima armonia sociale e interreligiosa, basata sul nazionalismo arabo di matrice laica, ma anche imposta, da oltre 40 anni, con l’uso della repressione poliziesca. Da quando, cioè, governo ed esercito, con il colpo di stato che nel 1970 portò al potere Hafez al Assad, sono passati nelle mani degli alawiti, una minoranza di matrice sciita, rinnegata come eretica dalla maggioranza sunnita.

Futuro di paura
Da oltre un anno i cristiani si sentono in pericolo, da quando cioè sono scoppiate le proteste antigovernative, poi degenerate in atroci violenze. Con una girandola di disinformazione mediatica, governo e oppositori si rimpallano le responsabilità della mattanza, che sarebbe già costata più di 9 mila vittime, con centinaia di bambini. Al di là di tutte le informazioni e disinformazioni che provengono dalla Siria, la situazione è molto complessa. Da una parte c’è il regime autoritario, poliziesco, oppressivo di Bashar al Assad, che dal 2000 ha ereditato potere e metodi dal padre Hafez: nessuno in Siria scorda la feroce repressione della rivolta guidata dai Fratelli musulmani, nel 1982 ad Hama, costata circa 20 mila morti.
Dall’altra c’è l’opposizione che, sull’onda della cosiddetta primavera araba, lotta per una maggiore libertà e democrazia, in modo da affrontare gli enormi problemi economici in cui si dibatte il paese. In pratica però, si tratta di un’opposizione molto frastagliata all’interno, che va dai movimenti laici liberali ai gruppi fondamentalisti, in cui il desiderio di libertà si confonde con quello della rivincita dei sunniti contro la minoranza alawita; un coacervo di movimenti senza veri leader di riferimento; gruppi degenerati in bande armate che infieriscono contro la popolazione civile di ogni confessione.
Alla divisione intea si aggiunge una lotta di influenze, quasi una guerra per procura fra potenze mondiali e paesi confinanti: Usa e paesi sunniti (Arabia Saudita ed emirati del Golfo) dalla parte dei ribelli islamici; Russia, Cina e paesi sciiti (Iran) schierati con Assad.
Nel clima di caos e violenze a pagare il prezzo maggiore sono la popolazione civile e le minoranze non schierate nel conflitto tra sunniti e sciiti; tra queste minoranze ci sono i cristiani, presi tra due fuochi: tra la brutalità del regime e la lotta senza quartiere dei ribelli islamici.
Dall’inizio del 2012, infatti, si stanno registrando parecchi episodi palesemente anticristiani: il 25 gennaio è stato ucciso padre Basilios Nassar, sacerdote greco ortodosso, mentre prestava soccorso a un ferito in una strada di Hama; a Homs i ribelli hanno ucciso 230 cristiani; chiese, scuole e case di cristiani sono state saccheggiate e distrutte; in qualche manifestazione di protesta del venerdì è risuonato lo slogan: «Alawiti alla tomba e cristiani in Libano».
Non siamo ancora all’esodo, ma i cristiani hanno iniziato la fuga: essi temono che, tolto di mezzo il regime degli Assad, che fino ad ora li ha riparati dalle violenze e discriminazioni perpetrate in altri paesi islamici, si ripeta lo scenario dell’Iraq, dove le milizie sunnite praticano apertamente la caccia al cristiano.
Fermare la repressione del regime è un imperativo, quanto fermare una deriva settaria che caratterizza la lotta in corso. «Credo che la Siria, dopo un anno di questa esperienza, non sarà più la stessa – afferma il patriarca melchita Gregorio II Laham -. Credo che ci sarà un cambiamento di base, e credo che anche il presidente Bashar al Assad lo voglia».
Di fronte alle critiche di chi rimprovera la Chiesa in Siria di non schierarsi contro il sistema, il patriarca chiama al dialogo «tutti i partiti in Siria e fuori della Siria» e, rivolgendosi soprattutto ai paesi Europei e del Mediterraneo dice: «Non pensate a cambiare il regime, ma aiutate il regime a cambiare. Credo che sia questa la giusta visione delle cose. E per questo la chiesa è là, e ha fatto molto… Per noi non è il momento di chiedere i nostri diritti, ma di riscoprire la nostra missione in un mondo arabo, che vive una nuova nascita. Predicare la pace, la legalità, la giustizia è la nostra maniera di accompagnare gli avvenimenti, sia all’interno che all’esterno».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Cari missionari

Lettere

Terra d’Emilia addio
Alla fine dell’ottobre scorso i missionari della Consolata hanno definitivamente (ma si spera provvisoriamente) lasciato la parrocchia di S. Valentino di Castellarano (Re). Le cronache riportano la presenza dei missionari della Consolata in questa terra d’Emilia già dal 1929. Dopo la pausa bellica sono tornati a Sassuolo (Mo) dove hanno fondato la parrocchia che ancora porta il loro nome e dove sono stati fino al 1992 quando si sono trasferiti al di là del fiume Secchia, nella bellissima collina reggiana. Qui li ho conosciuti nel 1998 al ritorno da un viaggio missionario in Tanzania, quando la parrocchia era retta da p. Enrico Rossi (1935 – 2001). Da allora fino adesso, così come tanti altri frequentatori della missione, ho condiviso la mia vita e la mia storia con loro. Ciascuna delle persone che frequentava la missione ha i suoi ricordi, io ho i miei. Ricordo p. Filosi Beardino condividere con me un goccio di vino da messa di nascosto dopo aver lavorato nell’orto (il Signore l’ha chiamato al banchetto celeste solo pochi giorni fa, il 16 marzo 2012, aveva 64 anni, ndr.). Ricordo p. Svanera (Beppe) parlare della Colombia e i volti di tutti i missionari che passavano di qui per rendere testimonianza nelle varie serate missionarie. Ricordo con grande commozione le estati di studio passate presso di loro e i giovani di Bevera che assieme a p. Mario (Viscardi) venivano in ritiro da noi. Ricordo i tanti Natali e le tante Pasque passate con loro, come se fossimo tutti una famiglia. Ricordo con immenso affetto la saggezza e la bontà di p. Colusso (Giovanni Battista, 1915 – 2007) e di p. Massano (Carlo, 1929 – 2012), scomparso il 5 febbraio scorso, le chiacchierate di latino con p. Antoniani (Athos) e le tante cene animate in compagnia dei vari amici della Consolata. Ricordo p. Sottocoa (Tommaso) celebrare il mio matrimonio.
Ricordo tantissimi avvenimenti che rimarranno per sempre indelebili nella mia mente e nel mio cuore. Quanta parte delle nostre vite è legata a loro! La loro porta era sempre aperta per chiunque. Per me e mia madre, i missionari sono stati una seconda famiglia, soprattutto dopo che abbiamo perso la prima. Non ho mai visto mia madre così felice ed appagata come quando ha prestato servizio per loro, acquisendo il giocoso titolo di madre superiora della casa. Quando ho conosciuto i missionari mi sembrava strano chiamarli «padri». Adesso che se ne sono andati ne capisco il senso, poiché mi sento orfano di loro. Mi sento perciò di ringraziare dal più profondo del cuore (e sono sicuro di farlo a nome di tante persone) tutti i missionari che si sono avvicendati qui a S. Valentino. Il vostro ricordo rimarrà per sempre qui da noi, dove avete dato tanto frutto.
avv. Alessio Anceschi
via email, 24/02/2012
 
KONY 2012
Cari amici missionari,
mi sento un po’ stupida di fronte al filmato che mi ha mandato mia nipote, 18 anni, maturità classica il prossimo giugno. Dopo un momento di sgomento ho pensato a voi, che mi conoscete, siete gli unici di cui mi fidi. (Il filmato è quello di Kony 2012 @ http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded &v=VpS0tEpclzs – che è stato visto da quasi cento milioni di persone, ndr.).
Siete tutti giornalisti, conoscete i segreti del marchingegno, amate i ragazzi, sapete come sono. Io nonna mi sento in bilico: da un lato sono contenta di poter raccogliere quanto il nonno ed io nel tempo, tramite i figli, abbiamo seminato anche nei nipoti; dall’altro non mi fido del marchingegno, delle trappole pubblicitarie, dei facili entusiasmi. Me l’avete insegnato voi. Sono diffidente ed entusiasta allo stesso tempo. Voi siete “smaliziati”, potete dirmi se la cosa è valida, reale, vera, affidabile ecc. Faccio girare? Deludo mia nipote? Cosa le racconto?
Nonna Paola
via email, 13/03/2012
Purtroppo la storia di Joseph Kony e della sua Lord Liberation Army (Lra) è vera. Lui e la sua gente hanno fatto disastri in Uganda, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e nord del Congo. I fatti riferiti nel video riguardano l’Uganda e sono anteriori al 2008 quando la
Lra ha praticamente abbandonato il paese per continuare le sue azioni disastrose nelle nazioni vicine. La Lra è stata poi molto attiva nel Sud Sudan (con l’appoggio – si dice – del Nord Sudan). Le azioni di guerriglia e terrorismo si sono poi estese alla Repubblica Centrafricana e al nord del Congo. Due delle nostre missioni, Bangadi e Doruma, ai confini con il Sud Sudan, sono state ripetutamente assalite e saccheggiate, costringendo i missionari e la gente ad abbandonarle.
Qualcuno dice che il film fa leva sulle emozioni e semplifica le situazioni; in Uganda è stato accolto con molto criticismo, ma mons. Juan Jos Aguirre, vescovo di Bangassou nella Repubblica Centrafricana – dove la Lra ha ora le sue basi -, ha detto che il film ha il merito di portare questa guerra dimenticata all’attenzione del mondo. Certo non è tutto chiaro quello che sta dietro – e chi sta dietro – a questa propaganda.
Di positivo c’è che da molto tempo non si parlava più di Kony, anche se la sua Lra è ancora ben attiva e continua a fare danni, sfruttando la complicità di tanti che hanno interesse a mantenere l’instabilità in una regione ricchissima di risorse e in balia degli speculatori inteazionali.
La Caritas del Congo RD ha appena iniziato un programma di reintegrazione economica per 28.000 delle 320.000 persone che sono state fatte fuggire dalla violenza della Lra nell’Alto e Basso Huele, dove ci sono stati ben 12 attacchi solo in questi primi tre mesi del 2012, con 17 persone rapite. Queste finiscono per fare i portatori se adulti, schiave sessuali se ragazze e bambini soldato se maschietti. A tutti questi vanno aggiunti oltre 30mila congolesi che si sono rifugiati nella Repubblica Centrafricana. Forse nell’Uganda si tratta ormai di rimarginare le ferite e guarire la memoria, ma in altre parti del centro Africa si continua a vivere nel terrore a causa di Kony e del suo folle esercito.




Sui monti vita nuova

Lemie, Valli di Lanzo: dodici battesimi in regalo

Il viso di Aaliyah, nata a Lemie 5 mesi fa da genitori camerunesi, è incoiciato da un berretto di morbida lana bianca. La giovane mamma la stringe tra le braccia per custodie il calore. Gli altri due bimbi nati in Italia, Felicia, bimba nigeriana di appena due mesi, e Nketa, piccolo congolese di tre, sono infagottati in pesanti coperte bianche.
Assieme agli altri nove bambini festeggiati oggi, nati in Africa durante il viaggio della loro famiglia alla ricerca di una nuova casa, passano dalle braccia dei propri genitori a quelle dei padrini e delle madrine di pelle bianca.
L’emozione è palpabile. Fino a nove mesi fa, non uno solo dei 90 residenti a Lemie – paese che si sta spopolando, così come la valle che lo accoglie – avrebbe potuto prevedere un evento del genere. Questa  mattina (sabato 18 febbraio 2012), dodici bambini africani vengono battezzati nella parrocchia di San Michele Arcangelo.
La chiesa è piena di persone. Sono state aggiunte delle sedie vicino all’altare per le famiglie dei battezzandi e il variegato spicchio di mondo che si è presentato all’appello delle campane: i carabinieri, le suore, i cittadini del paese, il sindaco, gli operatori e i volontari impegnati da maggio dello scorso anno nell’accoglienza dei rifugiati.
Le prime parole di p. Paul placano il brusio. «Non vi sembra già un miracolo? Persone provenienti da ogni parte del mondo che si riuniscono nella fede. Nonostante le differenze, siamo tutti fratelli».
Si affiancano nella conduzione della cerimonia il parroco di Lemie, Don Bartolomeo Giaime, piemontese doc, e p. Paul Nde, della Pastorale Migranti, originario del Camerun, che ha accompagnato le famiglie fino a questo momento in un percorso costellato di sabati di preghiera e di canto.
L’italiano non può essere l’unico idioma, si deve ammorbidire nella cadenza francese e trovare sintesi nella lingua inglese, affinché il cerchio della Parola di Dio possa abbracciare tutti i presenti. I canti immergono in orizzonti nuovi, dal sapore inedito, la maggior parte dei presenti. Siamo in terra d’Africa. È difficile non abbandonarsi al ritmo dei tamburi.
Alla fine della cerimonia le Suore del Cottolengo, su invito di p. Paul, intonano il Magnificat, seguite da suore di origine africana che chiudono la cerimonia con una vivace preghiera di ringraziamento.
La festa che segue è un intreccio di Nigeria, Congo, Camerun e Italia, nel cibo offerto, nelle parole scambiate, nei giochi spontanei dei bimbi.
«Sono arrivato a Lemie con una sola indicazione», racconta p. Paul. «Ci sono dei profughi di lingua francese e dinglese che hanno bisogno d’un sacerdote».
A maggio del 2011, per il tramite della Protezione Civile e del consorzio Connecting People, trentasei profughi subsahariani sono giunti dal territorio libico in questo paesino arrampicato nelle alte Valli di Lanzo. Fin da subito, nonostante i timori degli operatori della cornoperativa Crescere Insieme, impegnati nell’accoglienza, il paese, a partire dal suo primo cittadino, ha aperto loro le braccia.
La loro dimora è una casa storica, Villa Buzzi, messa a disposizione dalla Piccola Casa della Divina Provvidenza Cottolengo. Tra le pareti spesse della vecchia residenza, finalmente al sicuro, sono emerse storie di straordinaria forza e di speranza.
«Devo dire che la loro semplicità mi ha colpito», dice p. Paul. «Queste persone pensano al futuro con un po’ di timore, ma sperano nell’aiuto divino per superare le difficoltà del momento presente».
Richiedenti asilo: questo sono i quaranta migranti per la legge italiana. L’équipe multidisciplinare del consorzio Connecting People e della cornoperativa Crescere Insieme, in collaborazione con la Piccola Casa, ha sostenuto le famiglie con percorsi di apprendimento della lingua italiana, laboratori e attività ricreative, percorsi di informatica, assistenza sanitaria, ma soprattutto ha cercato di riannodare, con tutta la delicatezza possibile, i fili di tante vite spezzate, prima da violenze e persecuzione, poi dalla guerra.
«La settimana scorsa tutti i nostri ospiti hanno sostenuto l’intervista con la commissione ministeriale preposta all’esame delle loro domande di asilo», spiega Mauro Maurino, consigliere di amministrazione del consorzio Connecting People. «Adesso, siamo in attesa delle risposte. Certamente», continua Maurino, «questa festa ha per noi, operatori dell’accoglienza, un grande significato. Vediamo in essa una scelta di appartenenza, niente affatto scontata, a un luogo, a un tempo, a una comunità».
L’azzurro è terso. Il bianco della neve è la risposta della terra al sole, ricco di promesse di primavera. Promesse che il freddo pungente del mattino non riesce ad ammutolire.

Serena Naldini

Serena Naldini




Camminare con la gente

Dalle lettere di padre Beppe Svanera da Marialabaja

Padre Beppe continua a scrivere regolarmente ai suoi amici condividendo un cammino non facile,
ma anche ricco di momenti di grazia.
In queste pagine, squarci di storia alla scoperta delle radici del popolo afro di Marialabaja, e squarci di interiorità di missionari attenti alla realtà e fedeli al Vangelo.

Ordinazione sacerdotale
Finalmente una buona notizia: sabato 19 febbraio 2011 è stato ordinato il primo sacerdote missionario della Consolata, p. Edilberto Maza nato a Marialabaja nel 1977. Ha perso i genitori da bambino ed è cresciuto con la nonna e la zia in una famiglia numerosa di zii, cugini e nipoti. Con lui è stato ordinato diacono il giovane etiope Nebiyu Elias Gabriel che dopo gli studi teologici a Bogotá ha passato un anno con noi dedicando il suo tempo soprattutto ai giovani che, entusiasti, lo hanno accompagnato in questo importante momento. Dopo l’ordinazione partiranno, come tutti i missionari: p. Heriberto per il Mozambico e il diacono Nebiyu verso il Venezuela. Noi li accompagniamo con la preghiera.
La solenne celebrazione ha riempito la chiesa e la piazza. Tanta gente in festa con il nostro Vescovo e un nutrito gruppo di sacerdoti che hanno accompagnato i due giovani missionari al ritmo dei tamburi con canti e balli afro e africani alternati a momenti di intenso raccoglimento e sincera devozione. Da sottolineare la presenza di rappresentanti di quattordici nazioni diverse uniti nella stessa fede e lode a Dio. Bello, definitivamente bello, questo momento che riconcilia con la vita e rinforza i grandi ideali che animano la missione e ci aiuta poi a tornare con nuova energia per affrontare la non facile realtà di tutti i giorni.

MOLTE PROMESSE
Momenti come questi ci permettono in qualche modo di superare anche l’ultima delusione dei nostri governanti. A fine gennaio 2011 abbiamo avuto la visita del vicepresidente della Colombia accompagnato dal ministro dell’Agricoltura e da una serie di personaggi che dovrebbero difendere il benessere dei loro elettori ma che, puntualmente, fanno gli interessi di chi li condiziona con i capitali. La visita è stata il frutto di una lunga e faticosa campagna da parte della Comunità di sfollati di Mampujan. Mampujan è uno dei nostri trentacinque villaggi. La famiglia di p. Heriberto è originaria di là. Come ogni comunità, viveva lavorando i campi in santa pace e senza problemi fino a quando un giorno si presentò la guerriglia e cominciarono le intimidazioni e i sequestri. Una sera del 2000 arrivarono invece i paramilitari che radunarono tutti nella piazza. La gente, spaventata, pregava disperatamente. Non furono uccisi, come era invece successo in altre comunità, ma ricevettero l’ordine di lasciare il paese entro le dieci del giorno dopo. Così Mampujan cessò di esistere: 245 famiglie partirono per Marialabaja portando quello che potevano verso un destino ignoto e crudele. I paramilitari continuarono il loro cammino e in quei giorni trucidarono tredici contadini di Las Brisas, un villaggio vicino. Oggi Mampujan è solo desolazione: le case sono ruderi soffocati dalla selva. Nacque nel frattempo un nuovo Mampujan chiamato «Rosas de Mampujan» su un terreno acquistato dopo l’esodo dal p. Salvatore Mura con l’aiuto di amici italiani, all’ingresso di Marialabaja.
Dopo dieci anni alcuni pensano di ritornare al paesello natio, ma la cosa non è per niente facile. Con quali prospettive? Le persone anziane vanno ogni giorno alla loro terra, distante due o tre ore, per coltivare qualcosa e sopravvivere, e tornano la sera a piedi o con l’asinello perché ancora non si sentono sicuri. I giovani non dimostrano alcun interesse. Si sono abituati al paese, alla strada, alla moto e alla televisione. Lavorare la terra non è il loro ideale di vita. Inoltre il governo non ha ancora mostrato alcun interesse concreto, al di là delle solite dichiarazioni, per assicurare servizi come strade, elettricità, scuola e, soprattutto, i prestiti necessari per tornare a lavorare la terra.
Finalmente però Mampujan sembra interessare il governo che ha scelto questa comunità con altre otto per un piano pilota di possibile ritorno. Da qui la visita del vicepresidente e del suo seguito. L’incontro si è svolto nel cortile della nostra piccola fattoria della Consolata con più di trecento persone, sotto lo stretto controllo di almeno un centinaio di poliziotti e soldati. Speravamo veramente in qualcosa di più, con tutta quella messinscena. E invece ancora una volta la montagna ha partorito il topolino: ancora promesse e tante, troppe parole hanno assopito l’assemblea dei presenti che hanno reagito vigorosamente solo quando il governatore della regione vicina (non il nostro, e neppure il nostro sindaco!) ha toccato il tema della coltivazione della palma che sta minacciando seriamente la sicurezza alimentare della popolazione. Finalmente sono scrosciati gli applausi dei contadini e di tutta la nostra gente per sottolineare come questo sia il vero problema del nostro territorio. Servirà a qualcosa? Noi lo speriamo e continueremo a lottare in questa direzione con tutti i mezzi legali ma soprattutto con la certezza che il Dio di Gesù Cristo che si è manifestato a suo tempo a Mosè ascolterà ancora una volta il «grido del suo popolo».

Pasqua 2011:
sofferenza dalle radici lontane
Nuovamente Pasqua! Vita nuova in Cristo risuscitato e sempre vivo in mezzo ai suoi, perché tutto e tutti abbiano vita, e vita in abbondanza. A Marialabaja chi ha preso coscienza del valore della Pasqua la celebra con gioia. La grande maggioranza, per ragioni storiche, culturali e ambientali, trasforma la settimana santa in una grande baldoria tutta da studiare. Uno dei momenti che suscita maggiore interesse e partecipazione popolare è sicuramente la «Via Crucis» del Venerdì Santo, probabilmente per il predominare del sentimento o anche per l’identificazione della nostra gente con le sofferenze di Cristo.
Sui Monti di Maria, e quindi anche a Marialabaja, la violenza è un fenomeno complesso non ancora studiato a fondo e senzaprospettive di vera pace. Che è successo nei Monti di Maria? Ci sono state una cinquantina di stragi, quasi quattromila assassinii politici, circa duecentomila profughi, campagne abbandonate e tuguri nelle città. Non in una foresta disabitata, ma in territorio con paesi sviluppati, autorità civili, militari e religiose, strutture di governo e organizzazioni popolari a due ore dalla città di Cartagena, capitale del turismo colombiano.
La versione ufficiale parla di paramilitarismo alimentato dal 1997 da un’alleanza di allevatori e politici per «difendersi» dai guerriglieri di sinistra. Le radici sono comunque molto più lontane e affondano nel secolare problema della terra che qui, come altrove in Colombia, è tradizionalmente in mano a poche famiglie.
Negli anni ‘70 ci fu un tentativo di riforma agraria da parte del governo, ma i padroni cacciarono i contadini affittuari, che, in reazione, si organizzarono con l’appoggio ufficiale e occuparono, al grido di «la terra è di chi la lavora», le oltre quattrocento fattorie dove sempre avevano vissuto. Negli anni ‘80 giunsero nella regione diversi personaggi con misteriose fortune legate soprattutto al narcotraffico. Comprarono grandi aziende e protessero con uomini armati il commercio della droga via mare. In quegli anni molti i contadini furono eliminati, mentre scomparvero molti dirigenti sociali identificati come elementi sovversivi. Salvo casi isolati, le autorità militari lasciarono correre.
Contemporaneamente crescevano i gruppi guerriglieri, già diffusi nel resto della Colombia, approfittando della frustrazione del movimento contadino. Non rispettarono l’organizzazione contadina Anuc, perché aveva trattato con il governo, e imposero il loro metodo violento a base di sequestri e taglieggiamenti, creando un grande malessere soprattutto tra i piccoli allevatori di bestiame. I contadini si trovarono stretti tra due fuochi. Anche i guerriglieri si assicurarono un corridoio strategico per il traffico della droga verso il mare e aumentarono vertiginosamente gli assalti, i sequestri e gli assassinii. Paramilitari e guerriglieri si organizzarono sempre meglio con rinforzi continui di personale e mezzi; ma la guerra, fin dall’inizio, fu soprattutto contro i civili accusati di appoggiare uno dei due contendenti. Intanto esercito e polizia combattevano, senza grandi risultati, i guerriglieri e chiudevano un occhio, anche due, sui paramilitari.
La debolezza del governo diede via libera alle «Cooperative Convivir» che in pratica erano gruppi paramilitari che avevano le armi e la protezione dello stato oltre all’appoggio dei grossi allevatori e narcotrafficanti. L’espansione paramilitare non riuscì comunque a eliminare i guerriglieri che continuarono imperterriti le loro attività anche quando nel 2003 cominciò in Colombia il processo di smobilitazione dei paramilitari. Lo stato, finalmente, cominciò una doppia azione che si dimostrò vincente: da una parte trattò la smobilitazione dei paramilitari e dall’altra l’esercito realizzò una serie di azioni efficaci che finalmente eliminarono i diversi gruppi guerriglieri almeno nei Monti di Maria.
Partecipai alla smobilitazione dei paramilitari dei Monti di Maria il 14 luglio 2005 quando tutto sembrava ormai finito. Fu una giornata di festa per la gente. Ma i problemi di fondo rimangono irrisolti. Così scriveva un giornale locale: «Le ragioni di fondo di questo orribile conflitto sono ancora irrisolte: una terra mal distribuita; una presenza debole delle istituzioni governative incapaci di mettere ordine nei titoli di proprietà della terra che oggi, dopo le successive spoliazioni e usurpazioni, continuano ad essere un rompicapo; gli affari dei narcotrafficanti, che si regolano con il piombo e continuano a prosperare nel Golfo di Morrosquillo; la corruzione dei dirigenti politici ossessionati dalla brama di mantenere i loro privilegi e le loro fonti di ricchezza; la miopia di membri della forza pubblica o politici, fuori dalla storia, che vedono pericolosi comunisti nei leader più attivi e continuano a uccidere semplici contadini cavandosela sempre. Solo se cambieranno questi fattori che alimentano il conflitto, gli abitanti dei Monti di Maria eviteranno che la loro triste storia si ripeta».

Non c’è due senza tre, 4.10.2011
Non c’é il due senza il tre, ed è con grande gioia che abbiamo vissuto l’ordinazione del terzo sacerdote e secondo missionario della Consolata di Marialabaja. Dopo il carmelitano p. Fredy e il p. Edilberto Maza, in Mozambico da pochi mesi, il 30 luglio è stato ordinato p. Beardo Matorell Batista che è poi partito per il Tanzania come sacerdote missionario.
Naturalmente l’allegria è stata grande in questo paese afro che ha donato tre dei suoi figli migliori al servizio del Vangelo per una nuova umanità secondo il cuore di Dio. Beardo è figlio di Miguelina e Erasmo due professori esemplari e molto stimati nell’ambiente educativo e sociale di Marialabaja e da sempre impegnati nella parrocchia. Festa grande e significativa soprattutto perché ha confermato ancora una volta i valori della nostra gente nonostante i secoli di schiavitù e la poca considerazione che godono ancora ai nostri giorni. Per noi missionari una bella soddisfazione e un invito speciale perché ci sentiamo stimolati a fidarci sempre di più delle persone che ci circondano e che devono diventare protagoniste del proprio futuro.
Contemporaneamente a questa ordinazione sacerdotale si è costituito nel Centro Afro Allamano un gruppo di giovani impegnati in un progetto educativo con la nostra gente. Sono universitari che da tempo svolgono attività comunitarie e che hanno deciso di «mettersi in proprio» assumendosi la responsabilità nell’educazione del proprio popolo. Inizialmente appoggiati dalla parrocchia, si radunano tutti i lunedì per elaborare materiali di formazione, a partire dalla cultura e tradizione afro, che loro stessi distribuiscono nelle diverse comunità alle persone impegnate o comunque desiderose di lavorare con bambini, ragazzi, giovani e adulti. Questo sta generando un grande interesse soprattutto nelle «mamme comunitarie» che attendono ogni giorno a gruppi di bambini dai tre ai sei anni, nelle maestre delle scuole elementari e nei professori di religione delle medie e superiori.
è interessante notare che il punto di partenza è sempre la Parola di Dio avvicinata secondo l’età delle persone e la sensibilità afro che è profondamente religiosa. Penso che questa sia la chiave del possibile successo della proposta educativa del nostro gruppo di giovani contrariamente alle diverse iniziative che vengono «da fuori» e che per mille ragioni non tengono conto della mentalità religiosa della nostra gente. è un avvicinamento alla Bibbia alternativo rispetto ai diversi gruppi religiosi che pullulano nel territorio e che spesso strumentalizzano la Parola di Dio per allontanare dai problemi reali o per incutere paura minacciando castighi e a volte generando fanatismo.
Riusciranno i nostri giovani eroi a realizzare un Marialabaja diverso? Intanto ci provano! E noi formuliamo i migliori auguri con piena fiducia nella Parola di Dio che con la forza dello Spirito permetterà loro di superare qualsiasi ostacolo.

Natale 2011: cristianizzazione e schiavitù
Il 2011 è stato un anno di grazia per noi e per il nostro popolo con l’ordinazione di due sacerdoti missionari della Consolata. Possiamo dire: «Missione compiuta!»?
In un recente incontro comunitario ci siamo guardati in faccia tutti piuttosto perplessi. Il parroco colombiano P. Gabriel, il brasiliano P. Sergio, il giovane seminarista Alex del Kenya e l’italiano (che sono io), ci siamo visti un po’ persi e abbiamo dovuto riconoscere che siamo ancora ben lontani dal capire cultura, mentalità e linguaggio del nostro popolo, soprattutto per quanto riguarda le sue espressioni religiose. Dio è dappertutto, ma Gesù Cristo è il grande sconosciuto! Eppure la presenza di missionari nel territorio data quasi dall’inizio della conquista dell’America quando fu fondata nel 1535 «Villa Maria» l’attuale Marialabaja. Che è successo in tutti questi anni e particolarmente nei quasi 25 anni della nostra presenza come missionari della Consolata?
Vale la pena ripercorrere le circostanze e le caratteristiche dell’evangelizzazione dei primi tempi della conquista nel territorio di Cartagena de Indias, «porto e porta» degli schiavi che popolarono gran parte della Colombia. L’evangelizzazione, o meglio il proceso di cristianizzazione della popolazione afro fu lungo, contradditorio e doloroso per la semplice ragione che cristianesimo e schiavitù sono andati a braccetto per secoli lasciando conseguenze profonde che durano ancora.
La Chiesa del secolo sedicesimo accettava la schiavitù che già esisteva anteriormente, considerandola normale e addirittura necessaria per offrire a questi «poveretti» la possibilità di entrare nel Regno di Dio. Il cristianesimo incise quindi enormemente sulla creazione di un sincretismo religioso nato dall’incontro delle diverse culture originarie dell’Africa con le tradizioni spagnole imposte con autorità ma non sempre con profondità e libertà. L’influsso religioso cristiano fu inesistente nei palenques (dove si rifugiavano gli schiavi che fuggivano), minimo nelle miniere, limitato nelle aziende agricole spagnole, e più consistente nella città di Cartagena dove i Gesuiti, soprattutto con p. Sandoval e p Claver (S. Pedro Claver), accoglievano nel porto e seguivano nella città con diverse iniziative pastorali gli schiavi che arrivavano dall’Africa.
Nonostante i limiti dell’evangelizzazione, le comunità afro con grande sapienza riscoprirono nel cristianesimo espressioni religiose che furono un’arma di sopravvivenza culturale e permisero di conservare e ricreare elementi mitici delle religioni africane. Questo perdura anche oggi e si manifesta soprattutto nelle feste patronali delle diverse comunità. E non saremo noi, poveri «untorelli», a cambiare questa realtà. Piuttosto siamo chiamati a capire e valorizzare questa cultura e tradizione e aiutare nella formazione di persone che siano sempre più coscienti dei propri valori alla luce del Vangelo di Gesù tanto distorto storicamente come rivoluzionario e dinamico oggi e sempre.
L’accettazione da parte del «negro-schiavo» del messaggio cristiano era difficile da giudicare. La sincerità poteva essere messa in dubbio dalla convenienza, ma sicuramente il senso di protezione che nasce dal battesimo e dall’idea dell’uguaglianza davanti a Dio aiutò lo schiavo ad accettare la sua condizione e a non perdere la speranza nonostante nella maggior parte dei casi fosse trattato come una bestia.
D’altra parte abbondarono i decreti e le ordinanze dei Re di Spagna che ricordavano ai proprietari di schiavi l’obbligo di provvedere alla loro catechizzazione perché si riteneva, con ragione, che la religione organizzata potesse essere un mezzo utile per il controllo sociale. Ma, come succedeva normalmente questi ordini reali, restarono lettera morta. Come restano lettera morta tanti documenti e disposizioni della Chiesa attuale e della Conferenza episcopale. E anche quelli di noi missionari, che con tutta la buona volontà continuiamo l’opera di evangelizzazione di questo popolo senza conoscee bene la storia, il linguaggio simbolico e la realtà più profonda. Ce ne rendiamo conto a ogni piè sospinto e allora tentiamo almeno di voler bene alla nostra gente e di camminare insieme con umiltà e coraggio verso la Luce che è apparsa nella notte di Betlemme per l’intera umanità.

Pasqua 2012: Villa Maria
Parecchi sono stati incuriositi dal nome di «Villa Maria» citato nella mia lettera precedente. è stato il primo nome di Marialabaja, fondata, secondo la tradizione, da Alonso de Heredia fratello di Pedro de Heredia, fondatore di Cartagena de Indias nel 1535. Mancano molti tasselli per ricostruire la storia di questo paese e del suo territorio, ma il titolo stesso di «Villa» indica che esisteva una popolazione residente che, tra l’altro, pagava tasse e contributi al Re di Spagna. Negli atti del processo di beatificazione di San Pietro Claver (1580-1654) appare ancora citata come Villa Maria e diverse volte si afferma che dopo Pasqua il nostro santo, «schiavo degli schiavi», visitava «Villa Maria popolazione di negri».
Poi tutto è scomparso, anche il nome. I continui attacchi dei nativi alle aziende spagnole, l’insicurezza, l’ambiente selvaggio della regione e le condizioni climatiche avverse, distrussero le case di fango e paglia e cancellarono ogni traccia di presenza umana. Nell’ambiente ostile e isolato rimase la gente con tanta voglia di vivere, e si moltiplicò. Dall’anelito di libertà della maggioranza nera della popolazione e dall’incontro-scontro con gli ultimi indigeni sopravvissuti alla conquista e i pochi coloni, si sviluppò un popolo e si originò una nuova cultura.
Più tardi «Villa Maria» fu rifondata e diventò «Maria la Baja» per distinguerla da «Maria la Alta», attualmente «El Carmen de Bolivar» dall’altra parte dei «Monti di Maria». Nel 1918 vi si stabilì il primo sacerdote (il salvatoriano tedesco P. Alexander Treittinger) e nel 1935 Marialabaja divenne Municipio affermandosi sempre più come la «dispensa alimentare» della regione per la sua terra fertilissima e un vasto e complesso sistema d’irrigazione realizzato dal governo negli anni ‘70.
Con la violenza degli anni 1995-2005 e le coltivazioni di palma iniziate nel 1998 il territorio, la cultura, l’economia, la società hanno subito un profondo cambiamento e non mancano le preoccupazioni per il futuro. Come missionari cerchiamo di stare molto attenti all’evolversi della situazione e camminiamo con il nostro popolo, animando la comunità «dentro e fuori del tempio», cercando nuove vie e possibili soluzioni alla luce della Parola di Dio e offrendo la nostra collaborazione a tutte le persone di buona volontà. E così, poco a poco, con tante difficoltà ma anche tante piccole soddisfazioni, ha preso forma il «progetto afro-educativo Villa Maria» del quale vi ho già scritto. «Villa Maria» perché vuole riscoprire le radici di questa terra, la sua storia, tradizione e cultura, per affrontare il presente e costruire un futuro che sogniamo insieme. Le diverse iniziative sociali della parrocchia animate dalla pastorale sociale e le piccole strutture realizzate in questi anni con la vostra solidarietà sono sfociate in questo progetto con la responsabilità della gente del posto a partire dalla nostra rete di piccole scuole, dalla cascina «Consolata» e dal «Centro Afro Allamano». La Fondazione «a partir de los niños», la «Società di sviluppo afro-rurale» (Cdar) per i progetti agricoli e la «Società Radici di Marialabaja per la sicurezza sociale» (Ramass) sono sempre più protagoniste del progetto, hanno ottenuto riconoscimento giuridico e fanno ora parte, con diversi altri gruppi agricoli e comunitari, della Sezione municipale di Agrosolidaria, una società cornoperativa nazionale che si identifica con questo slogan: «Hasta que tengamos una Colombia justa, debemos tener una solidaria» (Per avere una Colombia giusta, dobbiamo avee una solidale).
Se sono rose… A volte mi chiedo se vale la pena suscitare e accompagnare questi processi organizzativi e culturali. Per qualcuno è tempo perso perché i cambiamenti sono pochi e troppo lenti. Per altri è tutta una nostra montatura, perché se noi missionari lasciassimo, tutto cadrebbe. C’è poi chi dice: «Non sono affari nostri». Rispetto le opinioni altrui e che siano felici! A me piace vivere intensamente il momento presente. Ricordo il passato, che necessariamente insegna, e sogno il futuro, che stimola, ma mi piace vivere pienamente il presente e quindi anche questo progetto afro-educativo, con tutte le sue manifestazioni, incognite e contraddizioni. A chi ci ha accompagnato con affetto e pazienza auguro gli stessi sentimenti e tanta felicità.

Beppe Svanera
(1a parte: MC 2011/04 pp. 22-29;
2a parte: MC 2011/12 pp. 78-84).

Beppe Svanera




Kenya, uniti per la pace: ripartire dai giovani

Cooperando

Riunire migliaia di giovani perché possano discutere e confrontarsi, liberare il campo dagli odi fra
etnie, cercare le reali cause del conflitto e trovare una soluzione comunitaria. Questi gli obiettivi del progetto «Giovani uniti per la pace in Kenya» lanciato dai missionari della Consolata e dall’Associazione Africa Rafiki. Affinché la tragedia degli scontri post-elettorali del 2007 e 2008 non si ripeta e prevalgano il dialogo e la riconciliazione.

Era da poco passato Natale quando l’opinione pubblica internazionale fu bruscamente strappata alla tranquillità delle feste dai primi notiziari che parlavano di centinaia di morti e migliaia di sfollati in tutto il Kenya, risucchiato in una tanto inspiegabile quanto cruenta spirale di odio e violenza interetnica all’indomani delle elezioni politiche del 27 dicembre 2007. Increduli, con il disastro ruandese del 1994 ancora negli occhi, gli osservatori cercavano di spiegare come potesse essere successo quello che unanimemente era ritenuto impossibile: che, cioè, un paese come il Kenya, non certo estraneo alle tensioni fra etnie ma dimostratosi fino a quel momento capace di gestirle, stesse sperimentando la stessa follia collettiva che si era vista all’opera in altri paesi africani e che si sperava superata e irripetibile.
La crisi si chiuse il 28 febbraio del 2008, con l’accordo fra i due contendenti, il presidente uscente Mwai Kibaki e l’oppositore Raila Odinga e la formazione di un governo di coalizione. Rimaneva da far luce sulle violenze perpetrate in quei due lunghissimi mesi di conflitto, il cui drammatico bilancio registrava più di mille morti e seicentomila sfollati costretti ad abbandonare le proprie case nel timore di essere attaccati e massacrati da quelli che, fino a poche settimane prima, erano stati i loro vicini di casa.
Oggi, a quattro anni di distanza, il Paese si prepara a una nuova consultazione elettorale, prevista per la fine del 2012-inizio 2013, in un contesto certamente più disteso e pacificato nel quale però i cittadini keniani rimangono guardinghi. Sebbene il forte desiderio del paese di gettarsi alle spalle i traumi del 2008 nutra un ottimismo tutto sommato abbastanza diffuso, nessuno si sente di escludere del tutto che lo spettro del conflitto inter-etnico torni ad aleggiare non appena la campagna elettorale dei candidati alla presidenza entri nel vivo. Contraddittori sono stati anche i segnali in arrivo dal Kenya dal 2008 ad oggi: se, da un lato, il paese ha accolto in maniera tutto sommato equilibrata la recente decisione del Tribunale Penale Internazionale di incriminare quattro esponenti politici keniani – fra i quali il figlio dell’ex-presidente Jomo Kenyatta, Uhuru – per omicidio, crimini contro l’umanità, deportazione e persecuzione sulla base di affiliazione politica, dall’altro diverse fonti, fra le quali un report della BBC, hanno segnalato circa due anni fa un tentativo di armarsi che alcuni gruppi della Rift Valley avrebbero perseguito acquistando fucili d’assalto AK 47 e G3.
In questo contesto di fiducia prudente si inserisce l’iniziativa «Giovani Uniti per La Pace in Kenya», un progetto della durata di ventinove mesi che prevede l’organizzazione di forum per la riconciliazione in undici località del Kenya. L’obiettivo è quello di coinvolgere circa sedicimila giovani dei gruppi etnici che si sono scontrati nel 2008, in un processo di valutazione e riflessione comunitario sul conflitto post-elettorale per demistificare l’elemento etnico, riconoscere e individuare le reali cause del conflitto e cercare di rimuoverle attraverso la collaborazione e il dialogo all’interno della comunità.

Presi alla sprovvista
«We were caught unaware», (siamo stati presi alla sprovvista). Padre Jacob Ndong’a non si dava pace, e con lui tutti i missionari presenti in Kenya, anche quando nel 2009 la situazione intea era in corso di normalizzazione e la «Commissione per la verità, la giustizia e la riconciliazione», istituita dal nuovo governo, era al lavoro per investigare sui crimini commessi durante gli scontri. La mediazione internazionale dell’ex-presidente ghanese John Kufuor e dell’ex-segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, insieme alle pressioni della comunità internazionale, avevano portato già nel febbraio del 2008 a un accordo fra Mwai Kibaki e Raila Odinga, che avevano formato un governo di coalizione nel quale i due rivali erano, rispettivamente, presidente della repubblica e primo ministro, ma, al di là degli accordi politici di stabilizzazione, il paese era ancora profondamente traumatizzato.
I segni della violenza, d’altronde, erano tutt’altro che cancellati: a Kisumu, città del Kenya occidentale sulle rive del lago Vittoria, in pieno centro città gli edifici dati alle fiamme durante il conflitto rimanevano, neri di fuliggine e sventrati, come cicatrici non ancora rimarginate e pronte a riaprirsi al primo strappo.
Il senso di frustrazione implicito nelle parole di padre Ndong’a derivava principalmente dalla consapevolezza, condivisa dalla maggior parte dei missionari e degli operatori umanitari attivi in Kenya, che gli scontri post-elettorali del 2007 – 2008 avevano cause molto più profonde della semplice contrapposizione etnica, cause che però erano state ampiamente sottovalutate nel loro potenziale distruttivo.
Ad essere preso alla sprovvista è stato in effetti un Paese intero, chiesa cattolica compresa, che pure da anni nei suoi documenti segnalava la gravità della situazione e l’urgenza di risolvere una volta per tutte il problema della terra. La speranza di elezioni pacifiche aveva fatto sottovalutare la campagna di odio etnico messa in atto nei mesi immediatamente prima delle elezioni con ampio uso di radio locali e cellulari. Questo ottimismo «a tutti i costi» aveva lasciato campo libero a quella parte di classe dirigente che aveva volutamente strumentalizzato l’elemento etnico per fomentare tensioni da capitalizzare come merce di scambio nell’arena politica. Nella maggior parte dei casi, le violenze sono state perpetrate da giovani frustrati dalla mancanza di prospettive occupazionali che avevano accettato, in cambio di una manciata di scellini offerti dagli emissari di politici di diversi schieramenti – ben organizzati già da mesi -, di impugnare la panga (il tipico coltellaccio usato dai contadini per far di tutto, dal tagliare alberi al pulire la terra dalle erbacce, dal macellare un animale al farsi uno stuzzicadenti) e diventare giustizieri e difensori del proprio gruppo etnico.

Il conflitto e le sue cause
Proprio questo disagio giovanile è una delle chiavi di volta per comprendere i fatti del 2007 – 2008. Il tasso di disoccupazione, in Kenya, è intorno al 40%: circa sedici milioni di keniani non hanno un lavoro. Di questi, dieci milioni sono giovani fra i 18 e i 30 anni. «L’assenza di prospettive e la difficoltà a garantirsi la sussistenza», commentava padre Gigi Anataloni, missionario della Consolata e direttore della rivista The Seed di Nairobi all’epoca degli scontri, «si trasformano velocemente in mancanza di fiducia in se stessi e nel futuro. Giovani in questa condizione, che vivono di espedienti e che covano una rabbia e una frustrazione profonde, non sono difficili da coinvolgere in azioni violente in cambio di denaro».
Al disagio giovanile si aggiungono altri fattori, primo fra tutti quello dell’iniqua distribuzione della terra. «È un problema che affonda le sue radici nel colonialismo», precisa padre Michael Njagi da Mombasa, dove particolarmente serie sono le conseguenze del mancato riconoscimento del diritto alla terra. «Fu durante l’epoca coloniale che i nativi di zone di particolare interesse agricolo furono sfollati verso aree meno fertili per poter assegnare le loro terre ai coloni europei, sulla base di quanto sancito dal leggi come il Crown Lands Ordinance del 1902 poi rimpiazzato dal Govement Land Act del 1915. Il principio di gestione comunitaria delle terre andò perduto, accantonato in favore del modello occidentale di possesso privato.
A peggiorare la situazione furono le ridistribuzioni successive all’indipendenza, spesso attuate dai nuovi governi in maniera poco chiara a favore di individui potenti e ben introdotti, in grado di corrompere le autorità preposte all’assegnazione delle terre. Si calcola che circa il 60% di tutte le terre arabili sia nelle mani di pochi latifondisti, tra cui molti membri di governi passati e presenti.
Infine, ed è il fatto più di recente, le multinazionali straniere si stanno accaparrando i pezzi di terra migliori e, secondo le stime del Ministero della terra del Kenya, una serie di proprietari assenti, keniani e stranieri, posseggono oltre settantasette mila ettari di terra solo nella zona costiera fra Malindi e Mombasa dove le comunità locali sono costrette a vivere pagando affitti mensili e rischiando costantemente di essere sfrattate e allontanate».
Ulteriore elemento da tenere in considerazione, se si vogliono ricercare le cause reali del conflitto, è l’elevato tasso di corruzione, presente a tutti i livelli della società keniana, che in un contesto di risorse scarse o scarsamente utilizzate limita ulteriormente i margini di ridistribuzione della ricchezza. Se il modo più efficace e diffuso per garantirsi un impiego o un incarico è quello di corrompere chi è nella posizione di concederlo, è evidente che la stragrande maggioranza dei keniani è esclusa dalle dinamiche del mercato del lavoro. «È da questo insieme di fattori», riflette Josephat Khamasi Bandi, responsabile della ong keniana Yupk – Youth United for Peace in Kenya, «che si deve partire per tracciare un quadro realistico delle tensioni alla base del conflitto post-elettorale. La rivalità interetnica ha certamente aggravato queste tensioni ma non le ha causate e, senza queste ingiustizie di fondo, le rivalità tribali da sole non avrebbero potuto causare scontri su larga scala come quelli del 2008».

Il progetto «Giovani Uniti per la pace in Kenya»
È su questa serie di riflessioni che si è basata l’ideazione del progetto Giovani Uniti per la Pace in Kenya. Nato come movimento spontaneo di migliaia di giovani che, all’indomani degli scontri, si riunirono a Dagoretti, nella periferia di Nairobi, per discutere dell’accaduto e cercare risposte pacifiche e comunitarie alla violenza, il progetto attuale è l’ampliamento e l’estensione di quell’iniziativa quasi istintiva. Il responsabile di Yupk, Josephat Khamasi Bandi, è oggi il cornordinatore del progetto ed è impegnato in un intenso lavoro di organizzazione e supervisione dei forum.
«Nel 2008 abbiamo cominciato dalla zona della Rift Valley, dove gli scontri erano stati più aspri e sanguinosi», spiega Josephat, «e abbiamo organizzato forum di due giorni in ventisei parrocchie. A ogni forum partecipavano almeno cinquanta persone, molte delle quali erano proprio i perpetratori delle violenze. Il nostro obiettivo era quello di riunirle e permettere loro di confrontarsi: spesso il risultato erano scontri verbali piuttosto accesi, frutto di un risentimento ancora molto vivo. Ma, piano piano, grazie alla mediazione dei nostri moderatori, le persone trovavano la motivazione e le parole per aprire un dialogo e cominciavano a riconoscere che il problema non era essere kikuyu, luo, kalejin o samburu, bensì non avere a disposizione risorse che permettessero a tutti di garantirsi il sostentamento o il rispetto dei diritti più basilari, come il diritto al lavoro, alla terra, all’acqua. I risultati sono stati incoraggianti, per questo abbiamo deciso di cercare fondi che permettessero di allargare l’iniziativa a tutto il paese».
Oggi il progetto tocca undici località in tutto il Kenya e sono previsti centosessantacinque forum in ventinove che coinvolgeranno oltre sedicimila persone. Durante questi forum si replicheranno le modalità di invito al dialogo e al confronto già sperimentate nella Rift Valley, «naturalmente», aggiunge Josephat, «adattando l’iniziativa alla realtà locale e ai problemi prevalenti in quel contesto. Un conto è far comunicare kikuyu e kalejin che hanno come principale motivo di contesa la ripartizione della terra, altra cosa è aprire un dialogo fra Samburu e Pokot, che competono per l’accaparramento del bestiame e il controllo delle risorse idriche».
Le fasi del progetto sono essenzialmente due: la prima ha lo scopo di accompagnare i partecipanti dei forum fino alle prossime elezioni in un percorso di risanamento della memoria (healing of memories) e presa di coscienza dei propri diritti e doveri di cittadini. La seconda, che comincerà subito dopo le elezioni, darà una valutazione dei risultati ottenuti durante la prima fase – anche alla luce della reazione dei partecipanti a eventuali tensioni pre e post-elettorali – e getterà le basi per una gestione comunitaria dei conflitti e delle diatribe intee.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




La religione del potere

Le minoranze cristiane e l’Islam

Nel 2011, le violenze contro le minoranze non islamiche sono state frequenti. Si sono contate numerose vittime e molti cristiani sono fuggiti all’estero. Parlare di intolleranza religiosa è facile, ma non sempre corretto. Spesso dietro le violenze ci sono i giochi del potere. Ieri Mubarak, oggi i militari hanno tutto l’interesse a distrarre gli egiziani dai problemi della quotidianità. Nel frattempo, in attesa delle elezioni presidenziali, la «rivoluzione» langue.

Il Cairo. Le recenti tornate elettorali, in tutti i paesi del nord-Africa, hanno portato al potere i partiti di matrice islamica. Marocco, Tunisia ed Egitto si sono scoperti conservatori più di quanto ogni analista avesse anticipato. La Camera bassa del Parlamento egiziano è composta per il 40% dai rappresentanti del partito Libertà e Giustizia (costola politica del movimento dei «Fratelli Musulmani») e per il 28% dagli eletti nelle file del partito salafita di Al Nour. La svolta islamica del paese, dopo la caduta di Mubarak, ha messo in fuga decine di migliaia di cristiani.
In Egitto vivono 83 milioni di persone di cui circa un decimo sono di fede cristiana. Questi dati sono però approssimativi. Infatti, nell’ultimo censimento, di inizio anni Ottanta, il dato sulla confessione religiosa non è considerato attendibile. La maggioranza dei cristiani appartengono alla Chiesa di Alessandria d’Egitto, e vengono chiamati copti, al-Qubat in arabo. Questa denominazione viene dal greco aiguptioi e definiva i discendenti cristiani degli antichi egizi, che nel VII secolo non si convertirono all’islam, dopo la conquista del paese da parte degli arabo-musulmani. Dopo secoli di discriminazioni, la situazione dei copti inizia a migliorare a cavallo tra ’800 e ‘900. Le prime violenze interconfessionali del dopo-Mubarak si registrano il primo gennaio 2011: ad Alessandria un attentato suicida uccide 21 persone e ne ferisce altre 79 alla messa di fine anno. Nei mesi successivi si registrano altre violenze: l’8 marzo in un quartiere periferico della capitale ci sono 13 morti: 7 cristiani e 6 musulmani. Sono invece 12 i morti l’8 maggio, a causa degli attacchi nei confronti di due chiese nei sobborghi del Cairo, ma l’episodio più cruento avviene a inizio autunno. Centinaia i feriti e 36 morti è stato il bilancio degli scontri avvenuti il 9 ottobre al Cairo nelle vicinanze di Maspero, nome della torre della radio-televisione pubblica egiziana situata sul lungo Nilo del Cairo. I giornali di tutto il mondo hanno raccontato questi scontri come l’apice della violenza interconfessionale, divampata in Egitto dopo la caduta di Mubarak. Quando l’11 febbraio 2011 viene dato l’annuncio che Mubarak lascia il potere, lo Stato rischia di sbandare e l’esercito, che da sempre è considerato dagli egiziani come il garante della stabilità, prende il controllo del paese. La legge d’emergenza, che dà al Presidente (carica ricoperta ad interim dal generale Tantawi) poteri speciali, resta in vigore. Il presidente, sino alle elezioni che si terranno entro giugno 2012, rimane formalmente Hosni Mubarak, ma tutte la sue funzioni sono espletate da Tantawi, che siede a capo del «Consiglio superiore delle Forze armate» (Scaf). Con il passare dei mesi, i rivoluzionari di piazza Tahrir prendono le distanze dall’operato dei militari e ricominciano le proteste. Prima al riparo delle differenti confessioni religiose e poi sempre più dichiaratamente contro lo Scaf. Il punto più violento è la settimana prima delle elezioni, a novembre 2011, quando negli scontri muoiono più di 80 persone. In queste manifestazioni partecipano persone di ogni estrazione: giovani laici come uomini con le barbe lunghe, emblema dei salafiti. Tra questi anche un anziano sacerdote ortodosso che racconta: «La giunta militare ha deciso di ucciderci. Ha cominciato sin dall’11 febbraio. Ha ucciso i copti a Maspero. Ha ucciso egiziani, cristiani e musulmani in piazza Tahrir».
Abeer Saady è la vice-direttrice del sindacato dei giornalisti egiziani, unica donna eletta tra la dirigenza dell’istituzione. Saady ha vissuto la rivoluzione e gli scontri dell’ultimo anno sempre in prima linea: «Quello che è successo a Maspero è tutt’altro che uno scontro religioso. In quella marcia c’erano copti e musulmani, assieme pacificamente. Marciavano per raggiungere la torre delle telecomunicazioni, quando sono stati attaccati dai militari. Queste violenze sono state documentate da un famoso blogger Alaa Abdel Fattah, che era presente alla manifestazione, e che ha usato tutti i social media per documentare quanto accadeva». Alaa, dopo i fatti di quella notte, è stato arrestato dai militari ed è rimasto nelle carceri egiziane per diversi mesi. «La controrivoluzione e l’esercito – continua la Saady – cercano di distruggere la credibilità di blogger e giornalisti. Si usa e si abusa della religione in questi casi». Sono in molti gli egiziani a pensarla come la sindacalista: Ibrahim ciondola per piazza Tahrir, si avvicina e ascolta interessato i discorsi che vedono in contrapposizione cristiani e musulmani: «Io sono musulmano, prego tutti i giorni, ma ho sempre frequentato le scuole cattoliche. Nel mio palazzo non vive nessun cristiano, ma in quello davanti a me ce ne sono diversi. In Egitto e soprattutto qui al Cairo, viviamo assieme. Certo puoi riconoscere i cristiani: hanno feste e abitudini diverse dalle nostre, ma non tanto da essere meno egiziani di me!». Mentre fa l’elenco di tutte le attitudini comuni tra cristiani e musulmani, assicura che non esiste discriminazione per le minoranze: «Se si fanno delle differenze vengono dalle persone corrotte che ci governano. La notte degli scontri a Maspero, mentre la gente iniziava a morire per strada la televisione pubblica, controllata dall’esercito, incitava all’odio inter-religioso. Il telegiornale raccontava che un gruppo di copti aveva attaccato l’esercito».

SUOR MARINA
Il quartiere di Eliopoli si trova alla periferia del Cairo, ci vuole più di un’ora di tram per arrivarci dal centro. La zona è residenziale, molto pulita e curata. Qui vive una numerosa comunità cristiana, vi risiedono sia cattolici che ortodossi. Suor Marina vive da cinque anni nel convento che si trova vicino a una delle chiese del quartiere, quella di Santa Fatima. È originaria di Assuan, città del sud dell’Egitto. Il suo velo è bianco e dalle maniche del vestito blu fa capolino il tatuaggio di una croce sul polso sinistro. Questo particolare sembra ricordare i punti di contatto che il cristianesimo ha con la tradizione locale, per la quale le mani delle donne accolgono disegni fatti con l’henné. «In questo convento – racconta suor Marina- ci sono sette suore, due maestre (suore anch’esse, ma con il ruolo di seguire le nuove vocazioni nel cammino verso i voti), io sono una di queste, e cinque postulanti. Anche qui, come in Europa, viviamo un periodo di crisi delle vocazioni, ma le postulanti sono il segno che non lasceremo l’Egitto. Siamo egiziane anche noi». Mentre racconta del convento e dei suoi studi a Roma, traspare la sua tranquillità e anche quando, incalzata dalle domande sul rapporto con i musulmani, ricorda i giorni degli scontri più violenti non c’è in lei alcuna rabbia: «In quei momenti ci siamo chiuse in convento. Avevamo un coprifuoco e solo due di noi andavano a fare la spesa, il rapporto con l’esterno era principalmente il sacerdote che veniva ogni giorno a dire messa. Molti cristiani – continua Suor Marina- hanno lasciato il paese, i giornali parlavano di un vero e proprio esodo. Tanti sono andati in America o hanno raggiunto dei parenti in Europa, molti sono andati proprio in Italia». Suor Marina non perde il suo tono sereno nemmeno parlando degli scontri e delle decine di morti che ne sono conseguiti, anche se ammette: «Abbiamo avuto paura. Con le altre sorelle non sapevamo se ci avrebbero mandato via e tutt’ora non sappiamo quali sono le intenzioni del nuovo governo. Proprio per questo le comunità cristiane, senza fare differenza tra i riti, sono più unite che mai». Uno dei fattori più imprevedibili, in questi mesi di transizione, è proprio il governo. Infatti questo non è composto dagli eletti nelle consultazioni elettorali di novembre, ma da membri della Giunta militare. Suor Marina riprende: «Con i Fratelli Musulmani alla guida del paese la situazione potrebbe migliorare, basti pensare che hanno fatto eleggere nelle loro liste diversi cristiani. Questi parlamentari non avrebbero mai avuto la forza per farsi eleggere autonomamente, ma essendo stati inseriti nelle liste di Libertà e Giustizia adesso possono rappresentarci in Parlamento». Suor Marina versa il thé e prepara un vassoio con i dolci «tipici egiziani» sottolinea. «Viviamo accanto ai musulmani. Per noi non sono stranieri, ne noi lo siamo per loro. Certo ci sono dei punti di attrito, ma nei giorni delle rivolte contro Mubarak, a difendere le strade di questo quartiere c’erano, uno accanto all’altro, giovani islamici e cristiani». L’unico nervo scoperto lo si tocca parlando dell’evangelizzazione: «In effetti per chi si converte la vita è tutt’altro che semplice. Se un musulmano diventa cristiano accetta di non vivere più la normalità, ed è costretto a lasciare l’Egitto; molti di essi vanno negli Stati Uniti. Allo stesso tempo, un copto che si converte all’islam non è detto che venga accettato senza problemi. Queste sono situazioni che una buona democrazia potrebbe risolvere ed è per questo che vorremmo un governo laico. Non vedo perché la religione debba influenzare le decisioni politiche, rischiando così di incitare comportamenti discriminatori». Facendole notare che il partito salafita aspira a introdurre la Shaaria, la legge islamica, risponde: «È giusto difendere la democrazia. Quindi, nessuno deve avere l’obbligo di portare il velo». E conclude con una battuta: «Anche se per me non cambierebbe molto. Dato che lo indosso ogni mattina…».

DISEGUAGLIANZE
La contrapposizione e le discriminazioni all’interno della società egiziana sono però visibili e ce ne parla Said Shehata, egiziano e da diversi anni professore alla London Metropolitan, autorevole università inglese: «La questione dei cristiani ha radici profonde. Non si applica lo stesso diritto per la costruzione di chiese e moschee: quest’ultime si possono costruire molto più facilmente. Nelle tensioni tra cristiani e musulmani – continua il professor Shehata- il vecchio regime ha avuto un ruolo importante: la questione religiosa è stata utilizzata per dividere le persone. Questo è avvenuto per far sì che il popolo non si focalizzasse sul regime, ma fosse interessato e preoccupato per altre questioni. Detto questo, è evidente che non c’è uguaglianza tra cristiani e musulmani: solo uno dei 26 governatori egiziani non è un fedele dell’islam, solo pochi ambasciatori sono cristiani e anche le posizioni di governo non sono equamente distribuite. Questi fattori ci portano a dire che c’è una discriminazione anche a livello politico nei confronti dei cristiani». Secondo lo studioso il problema «non è stato creato dai musulmani, ma dal regime e la società ora se lo porta dietro. La tensione c’è ancora e l’unica possibilità di risolverla è partire dall’idea che cristiani e musulmani sono cittadini con eguali diritti». La speranza per la costruzione di un nuovo Egitto post-rivoluzione passa anche dalla soluzione dei conflitti interreligiosi. «Entrambe le comunità – conclude il professore – devono essere coinvolte nella stessa misura. Bisogna incentivare le leggi che cancellino ogni tipo di discriminazione e in particolar modo bisogna usare i media e l’educazione perché parlino dei valori comuni invece che di presunte differenze».

Cosimo Caridi

Cosimo Caridi