La religione delle montagne

Religioni in Cina: il Taoismo

Filosofia e religione ad un tempo, il taoismo è parte della vita del popolo cinese. Ci sono templi (1.800), monaci (20 mila) e fedeli (10 milioni), ma non c’è un leader spirituale di riferimento. Il precetto fondamentale del taoismo dice di «coltivare il proprio sé». Raggiunto questo obiettivo, sarà facile trovare un accordo con il mondo e con l’Universo.

Pechino. Baiyun guan, il tempio (guan) della Nuvola Bianca, è il principale tempio di Pechino della corrente taoista quanzhen. A mezzogiorno, il tempio è assolato. I monaci, dalle tuniche blu e dai capelli raccolti con un fermaglio sulla testa, si aggirano tra i padiglioni. I fedeli, accendono gli incensi, entrano nelle varie sale e si inchinano, tre volte, davanti alle numerose divinità taoiste.

LA GIORNATA DI UN MONACO TAOISTA
Liu Zongmin è a Baiyun guan da cinque anni: «Non chiedere a un monaco per quale ragione ha fatto questa scelta, spesso e volentieri è un percorso difficile, non è, come la gente crede, un passaggio comodo e tranquillo. In principio è molto duro». Oggi, il monaco Liu vive in una stanza singola di dieci metri quadrati, tra i suoi libri e un paravento di legno intarsiato. Dipinge calligrafie cinesi e alleva cinque tartarughe. «Simbolizzano la longevità», suggerisce.
Il tempio dove vive ha visto nascere conglomerati religiosi taoisti fin dalla dinastia Tang (618-907 dopo Cristo), ma fu l’imperatore Chinggis qan (Genghis Khan), della dinastia mongola degli Yuan che nel 1224 fece ricostruire il tempio da Qiu Changchun, importante monaco e patriarca del taoismo quanzhen.
Durante la dinastia dei Ming (1368-1644 dopo Cristo) prese, poi, il nome di tempio della Nuvola Bianca e, da quel momento è sempre stato un punto di riferimento per i monaci e i fedeli. Nel folle periodo della Rivoluzione culturale (1966-1976) è stato uno dei pochi luoghi di culto a non aver subito danni e scempi eccessivi ed oggi è divenuto la sede dell’Associazione taoista cinese.
Tra il 18 e il 22 settembre del 1978 venne istituita a Pechino la terza sessione dell’undicesimo congresso del Comitato centrale del Partito comunista cinese. Deng Xiaoping denunciò gli errori della Rivoluzione culturale. Da quel momento in poi cominciò l’era delle riforme: venne coinvolto l’aspetto economico della Cina e, in silenzio, anche la religione.
«Durante le feste, alle quattro del mattino, siamo già in piedi, per offrire i servizi religiosi ai fedeli, altrimenti la sveglia è alle sette, la colazione è alle sette e mezza… Durante la giornata ci sono due letture fisse, quelle del mattino e della sera, per i vivi e per le persone morte e le letture per lo studio, che cantano le gesta dei grandi maestri e dei patriarchi. Ad esempio, c’è una frase che dice, l’uomo potrà essere in pace e con lui l’intero Universo. Il concetto fondamentale del taoismo è coltivare il proprio sé; quando l’animo sarà sereno tutto avverrà in maniera autentica e naturale», continua il monaco Liu.
Il taoismo ha sempre coinvolto diversi piani culturali e religiosi, per cui, spesso e volentieri in Occidente si sono cercate formalizzazioni che incanalassero l’indagine della conoscenza in compartimenti più agibili, e si è confusa la parte con il tutto, definendo una determinata corrente taoista di una particolare epoca come il taoismo intero.

UNA REALTÀ COMPOSITA E VARIEGATA
Era comune la differenziazione tra il taoismo religioso e quello filosofico. Oggi, negli studi contemporanei, si va oltre questa visione, provando ad analizzare il taoismo da più punti di vista: c’è la metafisica e la cosmologia; ci sono i numerosi testi e i commentari ai testi che spesso condividono parte del lessico con il buddismo e il confucianesimo. C’è poi anche un piano sociale, istituzionale e liturgico, sia a livello locale che centrale, il quale si è dipanato nel lungo corso del tempo e in tutta la Cina e che ora sta finalmente emergendo.
Wang Ka, membro dell’Accademia delle Scienze sociali di Pechino presso il Dipartimento di Studi religiosi, afferma che «il taoismo è sempre stato tra la gente, nella società. È sbagliato pensare ad esso come qualcosa di esterno. È una religione viva: ci sono i monaci, i templi e i fedeli, il taoismo è parte della vita del popolo cinese. Fino al 1949, per ogni lutto che avveniva nelle famiglie era invitato un monaco taoista a leggere i testi, oggi nelle campagne avviene ancora ma in città molto meno».
La differenziazione tra le campagne e le città si ripercuote sensibilmente anche sulla religione: ci sono templi ufficiali nelle città, come ad esempio il Baiyun guan, che possono essere considerati come una vetrina della rinascita del taoismo, e numerosi templi dislocati nelle aree non cittadine, i quali assurgono ad una funzione di collante sociale e religioso per le comunità.
Tracciare una linea chiara e dai contorni tersi sul taoismo, sia a livello storico che religioso, è un’impresa difficile e non renderebbe neanche giustizia ad una realtà composita e variegata.
Quello che è certo è che il taoismo risulta esente da un unico credo e da un unico leader spirituale. I testi, criptici e sintetici, derivano da un panorama culturale localizzato, dove il culto si è sempre differenziato a seconda del contesto economico e sociale e dal luogo di residenza di chi lo praticava.
Vincent Goossaert, direttore per la Ricerca per gli affari religiosi a Parigi, sottolinea: «A livello teologico, cosmologico (e quindi anche per la coltivazione del sé) e liturgico, gli elementi chiave del taoismo sono rimasti stabili. I rituali taoisti compiuti tra la gente, piuttosto che nei templi ufficiali, sono praticamente gli stessi del passato, sia per la loro funzione sociale che a livello di contenuto. Alcuni elementi istituzionali rilevanti sono venuti meno durante il ventesimo secolo, e hanno reso il taoismo ancora più decentralizzato».
Il taoismo, così come altri culti locali cinesi, durante il ventesimo secolo ha avuto un forte ripiegamento su se stesso: l’influenza occidentale e il valore dato alla scienza e alla tecnica hanno visto la distruzione di numerosi luoghi di culto durante la rivoluzione del 1911-1912, e ancora nel 1926 e nel 1928, con la guerra civile cinese, durante la quale si sono voluti sradicare le strutture sociali che avevano caratterizzavano la Cina fino a quel momento.
Con la fondazione della Repubblica popolare cinese, nel 1949, a Pechino, vennero distrutti la maggior parte di templi taoisti e buddisti. La Rivoluzione culturale, infine, ha ulteriormente sfregiato quello che già era stato parzialmente annientato.
Per il professor Wang Ka, però, il termine annientare non è adatto e  si infervora nello spiegare che «nell’arco degli ultimi trent’anni, dal periodo delle Riforme in poi, in Cina ci sono ufficialmente più di mille e ottocento templi taoisti, molti nelle zone rurali. Una statistica ha annunciato che i credenti taoisti sono più di dieci milioni, anche se registrare i credenti in Cina non è impresa facile, mentre i monaci arrivano a essere ventimila».

MONACI E LAICI 
A Baiyun guan, i monaci si differenziano a seconda delle loro funzioni.
«L’abate del tempio è colui il quale ha la responsabilità delle relazioni con l’esterno, mentre il supervisore è incaricato dell’andamento di tutto ciò che avviene all’interno tempio, c’è poi chi si occupa delle scritture e chi è assegnato all’accoglienza dei fedeli, in totale oggi siamo cinquantanove monaci», racconta sempre il monaco Liu, mentre continua a versare il tè nelle piccole tazzine sul tavolo della sua camera.
Le funzioni religiose vengono spesso espletate grazie all’aiuto degli huoju daoshi, termine generico che indica i laici avviati allo studio e alla pratica del taoismo.
«Quanti siano i huoju daoshi è difficile da determinare, non c’è stata una ricerca generale, ma nei grandi templi, per valutare quanti siano, si procede con l’individuare le famiglie di volontari che sono coinvolti nei riti, da qui si ha un’idea generale», continua il professor Wang.
A livello storico, sono sempre state figure al margine, in quanto lo Stato, anche nel passato, non ha mai voluto conferire la possibilità ai taoisti di celebrare i riti al di fuori di un luogo ufficiale, come vuole essere il tempio.
Per lungo tempo gli è stato impedito di espletare le funzioni religiose, mentre dagli anni Novanta si sta cercando un modo per regolamentare la questione, con l’attivazione di precetti e linee guida che il taoista laico dovrebbe rispettare. Nonostante le proibizioni e i precetti scritti di recente, queste figure hanno accompagnato il taoismo nelle sue funzioni sociali e liturgiche.
Alcune ricerche dell’Associazione nazionale taoista hanno individuato, nel 2000, ventimila taoisti laici a livello locale, ma è senza dubbio difficile avere un dato preciso, seppure si suppone un forte aumento nell’ultimo decennio.

IL TAOISMO E LA PRESENZA GOVERNATIVA
L’Associazione taoista cinese, fondata nel 1957, ha avuto la funzione primaria nella restaurazione dei templi distrutti. All’inizio degli anni Ottanta si è proceduto con il recupero dei luoghi di culto nelle zone urbane per poi passare alle zone rurali negli anni Novanta.
Nella regione del Jiangsu, ad esempio, nel 1993 i templi taoisti erano solo cinque, ma nel 1999 erano già quarantadue.
L’Associazione, oltretutto, si occupa dell’educazione dei monaci e della regolamentazione del riconoscimento dei luoghi di culto a livello ufficiale.
Questo implica, senza dubbio, una presenza del governo all’interno dei luoghi di culto, che d’altronde stanno beneficiando dei finanziamenti statali e degli introiti dovuti al boom turistico.
La burocrazia a cui sono sottoposti i templi, segue una logica diversa da quella che era visibile nel passato, dove i templi minori, a livello locale, erano autonomi, seppur collegati in vari modi ai templi più importanti.
La funzione dei templi ufficiali, connessi con all’Associazione taoista cinese, pone in primo piano la diffusione della cultura taoista in senso lato. Il turismo, con la vendita dei souvenir religiosi (bracciali, oggetti di giada, statuette, ecc.), si associa ad una divulgazione di «precetti morali», che ben si confanno alla politica attuale della «società armoniosa». Spesso in questi templi, come a Baiyun guan, sono presenti dei veri e propri ambulatori dove si effettuano diagnosi e cure mediche, secondo i principi della medicina cinese.
«I fedeli, che vengono al tempio per bruciare gli incensi, hanno motivazioni diverse. C’è chi crede o chi viene per il giorno della nascita dei patriarchi1, c’è invece chi ha dei problemi in famiglia, chi cerca fortuna o un lavoro… abbiamo un rapporto stretto con i fedeli. Può accadere che qualcuno abbia dei dubbi nel corso della vita o si trovi in un momento di impasse, noi proviamo ad aiutarli», conferma il monaco Liu. I servizi che i monaci di oggi offrono ai fedeli, comunque, sono simili a quelli che offrivano nel passato: accompagnare nelle tappe fondamentali della vita, ossia nascita, matrimonio e morte.
«C’è sempre stato il fascino dell’eremita e di colui che si ritira dalla società. Ma per superare queste rappresentazioni e capire il ruolo del taoismo nella vita delle comunità locali di oggi, abbiamo bisogno di osservazioni sul campo e di dettagliate fonti storiche. Questo non è stato possibile fino a tempi relativamente recenti, ma adesso gli studi sul taoismo sono incentrati  sull’importanza del taoismo a livello sociale», afferma il professor Goossaert, ricordandoci che la Cina è cambiata anche da questo punto di vista.

CITTÀ E CAMPAGNA, DIMENSIONI DIVERSE
Spesso e volentieri i rituali sono espletati solo in parte nei tempi urbani ufficiali, molti si celebrano in quelli delle piccole comunità. I fedeli vengono coinvolti in brevi sezioni che in altre circostanze, invece, possono durare giorni, come nel caso del funerale. Sebbene la liturgia sia molto simile, differente è il contesto e lo stile dei riti.
Negli abbienti templi urbani, ad esempio, si sfoggiano oamenti religiosi come vesti e strumenti musicali che invece scarseggiano nelle comunità rurali.
I principali templi urbani accolgono una tipologia di fedele. Data la funzione divulgatrice della cultura taoista e visto il costo relativamente alto dei biglietti di ingresso al tempio, il fedele taoista, spesso e volentieri si dirige in templi locali o di periferia.
Questi templi non sono, solitamente, collegati con l’Associazione taoista cinese, ma sono piuttosto gestiti da organizzazioni locali, le quali possono agire in autonomia, sebbene spesso le ristrutturazioni e il recupero dei luoghi fisici siano state finanziate anche da parte del governo, sovente come ampliamento dell’area urbana.
I templi delle piccole comunità locali, nella continua ricerca di una loro dimensione tra la cooperazione e l’autonomia, sono tuttora presenti sul territorio cinese. Così si intrecciano i diversi piani delle aree urbane e di quelle rurali. Le prime volte alla diffusione delle cultura taoista e le seconde, più integrate nella comunità locale, che celebrano i riti per i fedeli. Quello che emerge è comunque una dimensione del taoismo variegata e più immersa nella società di quanto siamo stati abituati a vedere o a leggere sui libri2.

Désirée Marianini

Note
1 – Il taoismo, a differenza delle religioni abramitiche, non ha un unico padre fondatore. Il Pantheon taoista è sorprendentemente ampio, varia nel tempo e a seconda della corrente religiosa. Tra le varie divinità ci sono anche figure rappresentative o grandi maestri, definiti patriarchi, in quanto hanno avuto una funzione importante per la scuola di riferimento. Ad esempio il quinto patriarca della scuola Quanzhen è Wang Chongyang, personaggio storico vissuto nel dodicesimo secolo dopo Cristo. .
2 – Alcuni testi consigliati: Marcel Granet, Il pensiero cinese; Kristofer Schipper, Il corpo taoista; Fabrizio Pregadio, Awakening to the reality.

BOX

Breve storia del taoismo

UNA PAROLA, MOLTI SIGNIFICATI

Il testo fondamentale, il Daodejing, risale al 300 avanti Cristo. Si distinguono due correnti principali: la corrente «zhengyi» e la corrente «quanzhen».

La parola taoismo deriva dal cinese tao, secondo il sistema Wade-Giles (utilizzato per la traslitterazione dei caratteri cinesi in alfabeto latino nel ventesimo secolo). Secondo il sistema Pinyin (traslitterazione usata dal 1958 ad oggi) deriva invece da dao. Molti testi utilizzano indifferentemente la parole taoismo (da tao) o daoismo (da dao). Il carattere cinese è, comunque, la raffigurazione di vari concetti: via, cammino, percorso, metodo, parola e dottrina. Nell’affrontare una lettura su cos’è il taoismo dovremmo abituarci ad una multi-semantica e renderci subito conto della «non linearità», caratteristica della lingua e della cultura cinese.
Fermandoci ad osservare la linea del tempo della storia taoista notiamo come abbia raggiunto lo status di religione ufficiale della Cina contemporanea, ma anche quante diverse correnti si sono evolute nel tempo.
Una semplice immagine concessaci dal sinologo ed esperto di taoismo Russell Kirkland, merita di essere riportata: «Non è un’unica tradizione che si evolve, ma piuttosto il risultato di vari concetti e insegnamenti che si dipanano nel tempo, ed eventualmente confluiscono insieme, come le correnti confluiscono in un fiume». 
Il peo del corpo taoista si rifà alla lontana epoca della dinastia Zhou, ossia un periodo di tempo che corre dall’XI alla fine del III secolo avanti Cristo.
Nel 1993, a Guodian una città del centro sud della Cina, gli archeologi trovarono una copia del testo fondamentale del taoismo, il Daodejing, risalente a trecento anni prima di Cristo (leggere box successivo).

Il taoismo contemporaneo si muove tra gli inizi del XIX secolo e oggi, in tutto questo periodo ha subito depressioni e rinascite.
Le due più grandi correnti attive nella Cina contemporanea sono la corrente zhengyi e la corrente quanzhen. La prima si fa risalire al 142 d.C., quando Zhang Daoling fondò ufficialmente la Chiesa dei Maestri Celesti.
A quel tempo risale l’attuale visione di una teologia burocratica, in cui i monaci sono concepiti come dei funzionari dell’universo. In quel periodo vengono istituzionalizzati i centri di culto da parte del governo, e i templi taoisti vengono chiamati guan, nome ancora oggi utilizzato.
Il luogo centrale per le ordinazioni istituzionali dei monaci era il monte Longhu, nella provincia cinese del Jiangxi. La caratteristica principale della corrente zhenyi è il metodo di ordinazione dei monaci, che ha seguito, fino a tempi recenti, una affiliazione familiare, per cui esclusivamente alcune famiglie possedevano i requisiti per poter consacrare i novizi come monaci.
Da molti studi risulta che i monaci zhenyi sono stati e sono tutt’oggi esperti nei riti, piuttosto che nelle pratiche individuali di coltivazione spirituale. I templi zhenyi, oggi, sono localizzati al sud della Cina e a Taiwan, molti dei monaci sono sposati e vivono da laici, con figli e famiglia.
La corrente quanzhen, emerse verso il XII secolo dopo Cristo, con Wang Zhe, ma il suo effettivo sviluppo avvenne grazie al monaco e patriarca Qiu Changchun (1148-1227) che riorganizzò l’interno ordine.
Differenziandosi dalle istituzioni familiari della corrente zhenyi, la corrente quanzhen pone l’accento della sua pratica nella visione di una coltivazione personale e spirituale, comunemente definita come alchimia interiore.  L’ordine ebbe uno sviluppo indipendente durante il corso della dinastia mongola degli Yuan, con la creazione di numerosi templi per l’ascesi individuale e le pratiche interiori.
Un aspetto fondamentale per l’ordinazione dei monaci era lo spostarsi e poi risiedere in templi diversi su tutto il territorio cinese per accumulare esperienza e pratica meditativa con diversi maestri.

Désirée Marianini

BOX2

Divinità, luoghi sacri e scritture
GUARDARE AGLI «IMMORTALI»

I monaci interpretano le scritture taoiste, che sono espressione diretta delle divinità. Queste sono il modello di riferimento per i fedeli.

Le divinità taoiste – dette anche «Immortali» – sono l’oggetto del culto taoista in quanto personificazione del dao. Sono l’essenza del Qi originario1, dal quale sono nati e al quale ritornano.
Sono modelli per le persone comuni, a cui tendere nella propria vita, sono comunque esseri straordinari, che la narrativa taoista vede volare nel cielo dotati di poteri straordinari. Il mondo in cui vivono è simile al mondo terreno in cui sussiste un ordine gerarchico e istituzionalizzato. Molte delle divinità risiedono anche sulla terra e i luoghi in cui dimorano sono sacri. L’altare delle divinità taoiste è occupato da tre immortali: i Tre Puri.
Le montagne, come luogo di residenza delle divinità taoiste, hanno una grande importanza nella religione, vengono considerate sacre e sono mete di pellegrinaggio. Durante la dinastia Han furono consacrate cinque montagne per proteggere i quattro punti cardinali ed il punto centrale e associate con il culto taoista. Così, il monte Heng nello Shanxi rappresenta la protezione per il Nord, al monte Heng (stesso nome, ma scrittura diversa) nella regione dello Hunan è affidato il Sud, mentre il monte Tai nello Shangdong protegge l’Est, infine l’Ovest è affidato al monte Hua. Nello Henan la montagna Song è il fulcro centrale di tutti i punti cardinali.
Le scritture hanno un ruolo fondamentale perché il testo scritto è espressione diretta della divinità, i monaci tramite la comprensione del testo comunicano con gli spiriti ed il testo in sé diventa un talismano.
Le scritture sacre Jing hanno un carattere salvifico in quanto sono un contratto con le divinità ma anche l’espressione di una conoscenza esoterica di una realtà sconosciuta. Gran parte della narrativa taoista oggi è scritta nel Daozang, il canone taoista, la cui ultima versione risale al 1444 dopo Cristo.

Ricordiamo allora i testi principali del taoismo.
Daodejing o classico della via e della virtù: viene attribuito allo stesso Laozi, ma gli studiosi hanno più volte dibattuto sulla sua effettiva pateità. La versione più antica risale al III sec. a.C.. È un testo  breve ed enigmatico di circa cinquemila caratteri cinesi, nel quale vi sono istruzioni e regole per la crescita personale ma anche per la vita in un contesto socio-politico. Viene analizzato il concetto di Dao e di Virtù (De). Al testo sono stati accorpati diversi commentari i quali esplorano diversi significati in base alle scuole e le correnti di riferimento.

Zhuang zi: questo testo viene associato ad un personaggio che visse nel IV sec. a.C., il maestro Zhuang e che probabilmente ne scrisse sette capitoli. Sono presenti aneddoti e storie le quali illustrano la realtà universale e l’impossibilità della sua conoscenza attraverso la parzialità dell’esperienza umana.

Huainan zi: venne compilato nel 139 a.C. da Liu An, nipote del fondatore della dinastia Han, abile prosatore che divenne in seguito re di Huainan. Il testo è una collezione di ventuno brani nei quali Liu An esplora vari elementi dello scibile umano: filosofia, scienza, politica, astronomia.

Baopu zi: la parte intea del testo, venne scritto da Ge Hong nel 320 avanti Cristo, ed esplora i significati dell’alchimia interiore e la meditazione come mezzo per arrivare alla trascendenza.

Des.Ma.

Note
1 – Il Qi originario è a livello cosmologico e ontologico il pneuma (respiro o soffio) dell’antecedente al cielo, (termine importante per la cosmologia cinese, lo stato in cui Yin e Yang non si sono ancora uniti). Il Qi originario emerge dal Dao, è immateriale e rifugio dell’essenza, ossia rifugio del seme per la nascita del cosmo intero..

Désirée Marianini




Figlio della savana

Intervista con il cardinale Polycarp Pento, arcivescovo di Sar es Salaam

Nato nel 1944 in un villaggio della diocesi di Sumbawanga, Polycarp Pengo fu ordinato prete nel 1971; laureato in teologia morale all’Alfonsiana (Roma), fu rettore del seminario maggiore di Segerea (1978-83); consacrato vescovo di Nachingwea nel 1984, fu trasferito nella diocesi di Tunduru-Masasi (1986) e poi a quella di Dar Es Salaam (1990) come coadiutore del card. Rugambwa, a cui succedette nel 1992. Fu creato cardinale nel 1998.

Il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam e presidente del Simposio delle Conferenze episcopali d’Africa e Madagascar (Secam) è stato uno dei protagonisti della II Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi (Roma, 4-25 ottobre 2009). Sintesi di tale Assemblea è l’esortazione apostolica postsinodale Africarne Munus, un documento che «darà alla Chiesa nuovo slancio per costruire un’Africa riconciliata nel cammino della verità, giustizia, amore e pace, e al Tanzania uno stimolo nuovo per una fede più matura» afferma il cardinale.

Cardinale Pengo, fra gli eventi significati della sua vita, certamente vi spicca il giorno in cui fu nominato arcivescovo di Dar Es Salaam. Quali furono, allora, i suoi sentimenti e quali sono oggi?
Entrai in servizio effettivo come arcivescovo di Dar Es Salaam nel 1992 e avevo una grande paura. Mi dicevo: «Polycarp, tu sei un figlio della brughiera e della savana! Che cosa farai in una grande e modea città? Come ti accoglierà la gente?».

La gente l’ha accolta bene e continua a farlo.
È vero. E di questo ringrazio il Signore.

Si dice che i tanzaniani, religiosamente, si dividano in tre gruppi uguali: il 33 per cento sono i cristiani e altrettanti sono i musulmani e i seguaci delle  religioni tradizionali. Qual è il rapporto fra cattolici, luterani, anglicani, «salvati», ecc.?
Il rapporto fra i cristiani cattolici, luterani e anglicani è buono. È molto migliorato rispetto a qualche decennio fa. Oggi, ad esempio, nell’ospedale governativo «Muhimbili» di Dar Es Salaam i cristiani condividono la stessa cappella, pur conservando le loro differenze dottrinali. Invece, con i «cristiani salvati» (walokole) abbiamo grossi problemi.  Questi vanno a caccia dei loro fedeli nelle varie chiese e imbrogliano le persone religiosamente e psicologicamente. Assai meglio è relazionarsi con i musulmani, perché conosci bene il loro pensiero. Quanto al numero, i dati citati sono superati, perché i cattolici da soli coprono il 27 per cento della popolazione e superano i musulmani.

Circa l’islam, Lawrence Mbogoni scrisse: «Durante gli anni 1985-95 gruppi di musulmani disprezzarono con asprezza i cristiani; il disprezzo culminò il 13/02/1998 allorché 2 cristiani furono uccisi e molte abitazioni distrutte»1. Eminenza, oggi qual è il rapporto fra cristiani e musulmani?
I disordini del decennio 1985-95 furono causati da diversi giovani musulmani, disoccupati, mandati a studiare l’islam fondamentalista in Egitto o in Arabia Saudita. Al loro ritorno in Tanzania, manifestarono la loro ostilità verso i cristiani saccheggiando molti negozi di carne suina a Dar Es Salaam e compirono altre distruzioni. Oggi non si registrano più atti del genere. Tuttavia l’ostilità verso i cristiani persiste. Non mancano gli insulti. La polizia sente tutto e sa tutto, ma non interviene. La mia paura è che i cattolici, che ora sopportano tutto in silenzio, un giorno perdano la pazienza. E allora saranno guai, purtroppo.

Il 2011 è stato un anno significativo per il Tanzania, perché ha celebrato 50 anni di indipendenza. Secondo il giornale «Mwananchi», lei commentò l’evento in questi termini: «Nei 50 anni passati abbiamo avuto dei successi. Ora dobbiamo darci da fare affinché, quando celebreremo il centenario della nostra indipendenza, non si dica: era meglio al tempo dei colonialisti». E aggiunse: «La nostra nazione nasconde gruppi di traditori, egoisti, capaci anche di uccidere i loro compagni pur di acquisire potenza e ricchezza»2. Eminenza, queste sono parole pesanti. Forse troppo pesanti, o mi sbaglio?
Sì, sono parole pesanti. Però ritengo che sia mio dovere denunciare con verità e chiarezza la situazione difficile del Tanzania. L’uomo della strada, di fronte a tante prevaricazioni subite, ha bisogno di una parola forte, affinché si cambi rotta. Altrimenti, potrebbero succedere grossi guai anche in Tanzania.

Da poco è uscito il documento di Benedetto XVI «Africarne Munus», che riguarda il Sinodo dei vescovi africani (Roma, 4-25 ottobre 2009). La Chiesa in Africa sta affrontando problemi cruciali che possono scoraggiare. Nel documento il papa scrive: «Scongiuro la Chiesa universale a guardare l’Africa con occhi di fede e speranza»3. Eminenza, che cosa consiglia al Tanzania?
In Tanzania noi cattolici dobbiamo rendere più matura e concreta la nostra fede cristiana. Troppi cattolici vivono ancora secondo la fede tradizionale-pagana, che non è la fede cristiana. Ad esempio: di fronte a una difficoltà (riguardante soprattutto la salute), il tanzaniano a chi si rivolge? Si rivolge al «curatore tradizionale» (che spesso è anche stregone). Questo è un segno chiaro che non si è ancora cristiani, che la fede è ancora pagana. Non abbiamo assunto la rivoluzione-liberazione di Gesù Cristo. E non dimentichiamo che  Gesù non ci ha salvati percorrendo la strada della ricchezza, del prestigio e delle comodità. Inoltre non ha ucciso nessuno, ma si è lasciato uccidere, dopo aver sofferto una morte atroce. Questo è il dono della sua salvezza. È nostra responsabilità accoglierla così com’è. Non imbrogliamoci né imbrogliamo con tante parole. Non cadiamo nella tentazione di ricambiare i torti patiti, anche di fronte ai musulmani. Costruiamo la fede su Gesù Cristo che perdonò tutti, morì in croce e, dopo tre giorni, risorse.

Anni fa lessi un articolo di un missionario, intitolato «Io sono uno straniero nella casa di mio Padre» (I am a stranger in my Father’s house). Perché il missionario, anche dopo tanti anni di lavoro, si sente ancora mzungu, cioè un «diverso», un pesce fuori dall’acqua?
Questo fatto rattrista un poco. Però non è un dato comune. Molti missionari si sentono a casa loro nella cultura del Tanzania o di altri paesi. Conosco missionari della Consolata e di altre congregazioni che rifiutano di ritornare in patria, che dicono: ora i miei fratelli sono questi e non quelli del paese in cui sono nato, che non mi conoscono nemmeno per nome.

Francesco Beardi

1    Cfr. Lawrence E. Y. Mbogoni, The Cross versus The Crescent (Religion and Politics in Tanzania from the 1880s to the 1990s), Dar Es Salaam 2004, 171-184.
2    Mwananchi, Agosti 14, 2011.
3    Africarne munus, Esortazione postsinodale di Benedetto XVI, 2011, 5.

Francesco Beardi




La chiesa rompe l’assedio

La visita del Papa

Per adattarsi ai nuovi tempi, anche Cuba sta cambiando, pur rimanendo fedele alla propria Rivoluzione. Gli Stati Uniti, che dall’isola distano soltanto cinquanta chilometri, rimangono sempre l’oppositore più intransigente. Come nel 1998, anche nel 2012 è toccato alla Chiesa cattolica rompere l’assedio.

L’Avana. Nel decennio che ho vissuto in Italia prima di atterrare nella più grande Isola delle Antille, ho imparato che per parlare di Cuba, prima bisogna scegliere quale sarà il nostro punto di osservazione.
Si può decidere di osservarla dal Nord del mondo, in questo caso dall’Italia, lontana novemila chilometri, una distanza siderale (e non solo nel senso geografico del termine), oppure si può scegliere di osservarla con i piedi piantati nel Sud del mondo, a partire da paesi simili a quest’isola. Simili per popolazione, per risorse naturali e prodotto interno lordo. Credo che guardare Cuba dal Sud sia eticamente più corretto, altrimenti si rischia inconsapevolmente di assumere in modo acritico le idee tergiversate che promuovono i mezzi di comunicazione mainstream e, dietro a questi, i nemici della Rivoluzione cubana. Cuba è un paese socialista, con undici milioni di abitanti, che ha deciso di contraddire, con la sua Rivoluzione, la più grande potenza militare ed economica al mondo, che si trova a cinquanta chilometri scrasi dalle sue coste.  Con la sua Rivoluzione contesta anche il modello di libero mercato professato e promosso dal Nord del mondo. Questo è costato all’isola caraibica un embargo economico che dura da più di mezzo secolo, oltre al terrorismo finanziato apertamente dagli Stati Uniti e dai cubani fuoriusciti e stabilitisi a Miami. Credo che pochi paesi al mondo potrebbero resistere in simili condizioni. E questo è un fatto storico.
Fatta questa considerazione, possiamo atterrare sull’isola, camminare insieme fra le sue strade e ripercorrere la storia dei contatti e dei contrasti fra la Rivoluzione cubana e la Chiesa cattolica.
CUBA SI MUOVE
Quello attuale è per Cuba un periodo di grandi cambiamenti, non certo il primo e nemmeno l’ultimo che quest’isola caraibica, situata al centro del grande Golfo del Messico, si è trovata a vivere.
Le strade cubane sono diverse da qualsiasi altra in America Latina: qui non ci sono cartelloni pubblicitari, mentre negli ultimi trent’anni la pubblicità ha letteralmente ridisegnato i paesaggi urbani degli altri paesi del continente. Questi sono stati davvero invasi da un groviglio d’insegne d’ogni forma e dimensione, accalcate disordinatamente, con vistosi colori fosforescenti di giorno e luci artificiali di notte, come tanti piccoli altari consacrati alla fede della società consumistica.
Nelle strade dell’Avana invece questo non accade: i pochi manifesti che si trovano appesi sono messaggi in difesa della rivoluzione o di denuncia dell’embargo, a cui ultimamente si sono aggiunti gli appelli per il ritorno dei cinque eroi antiterroristi, ingiustamente incarcerati negli Stati Uniti. Le strade di quest’isola, così particolari, stanno vivendo al tempo stesso (come l’intera isola) un processo di profonda trasformazione. Nell’ultimo anno i cambiamenti si sono fatti evidenti: si tratta di una crescita a dir poco esponenziale di chioschi, piccole caffetterie, ristorantini a conduzione familiare, piccoli bar istallati nei cortili delle case dei privati, in cui si offrono pizze, caffe, spremute di frutta e una lunga serie di dolci della variegata pasticceria habanera. L’Avana è in metamorfosi, i cosiddetti cuentapropistas (quanti lavorano per conto proprio e non alle dipendenze dello Stato) tra il 2011 e il 2012 si sono moltiplicati, grazie alle aperture del VI Congresso del Partito comunista dell’anno scorso. I cuentapropistas stanno reinventando il modo di fare commercio. Stanno cambiando anche il volto del mercato. Una quantità di carretti (il cui arrivo è anticipato dalle grida dei venditori) girano oggi per le strade, carichi di ananas, pomodori, tuberi di manioca, fagioli e altre verdure, fra cui la tipica malanga. Questa è una patata dolce, che insieme alla carne di maiale, costituisce uno dei fondamenti nella dieta cubana, a tal punto da diventare, come racconta il cantautore popolare del gruppo Buena Fe, un prodotto socioculturale. Questo paese e il suo popolo hanno un loro ritmo di vita peculiare, che oltre ad essere una particolarità degli isolani, è diventato ancora più indecifrabile e caratteristico dal marchio lasciato dalla combinazione di oltre mezzo secolo di rivoluzione socialista e privazioni dovute all’embargo.
In questi giorni, nei giornali più popolari, quali Juventud Rebelde (dell’Unione dei Giovani comunisti) e Granma, il giornale ufficiale del Partito comunista, si pubblicano una serie di articoli sulla storia della Chiesa cattolica e alcuni comunicati ufficiali della conferenza di vescovi cattolici di Cuba. Nelle chiacchiere disordinate che si fanno per strada fra conoscenti e passanti, l’arrivo del pontefice è diventato un tema inevitabile.
Ritorniamo un po’ in dietro dove ebbe inizio questa storia.
CHIESA E RIVOLUZIONE:
UN INIZIO DIFFICILE
La Chiesa cattolica e la Rivoluzione hanno cominciato il loro rapporto, diciamo, col piede sbagliato. Questa è l’opinione di Sergio Samuel Arce Martinez, notabile teologo presbiteriano, che nel suo libro «La missione della Chiesa in una società socialista» (La misión de la Iglesia en una sociedad Socialista), afferma: «Il trionfo della rivoluzione sorprese la Chiesa, che si trovava teologicamente impreparata, inadeguata dal punto di vista pastorale e  ideologicamente reazionaria […] La peggiore delle nostre povertà era quella pastorale, che non impegnandosi a favore del popolo, praticava un amore che non possedeva l’efficacia della giustizia e si traduceva in rassegnazione conformista. La povertà pastorale della chiesa nel 1959 trovava corrispondenza nella sua povertà teologica, incapace di analizzare evangelicamente o biblicamente la Rivoluzione, situazione che portò all’esodo dei pastori agli inizi del 1960».
Nello stesso libro, qualche pagina oltre, Arce cita un discorso di Fidel Castro al riguardo: «Il movimento rivoluzionario internazionale, lungo la sua storia, non ha mai stabilito la questione dell’esclusione dei credenti dal partito. Nel caso di Cuba obbedì alla circostanza eccezionale del conflitto che sorse fra la gerarchia cattolica e la Rivoluzione nei primi anni, giacché purtroppo, la religione cattolica era la religione dei ricchi».
Secondo la blogger cubana Yasmín Silva, membro dell’Osservatorio critico: «La Chiesa cattolica lungo il ventesimo secolo e fino al ‘59, fu una chiesa prevalentemente urbana e associata alle classi alte. Quando, negli anni ’50, a Cuba si comincia ad articolare il movimento di liberazione dalla dittatura batistiana con una serie di scioperi e grandi manifestazioni popolari, la chiesa non ebbe una risposta coerente di fronte a questo movimento, ma appoggiò, per omissione o in modo cosciente, i governi reazionari che allora erano alleati con gli Stati Uniti. La situazione peggiora ulteriormente dopo il 1959, quando la rivoluzione si dichiara socialista e la chiesa si oppone con violenza, fino a risultare coinvolta in progetti e operazioni della Cia, come l’«operazione Peter Pan» (1960-’62), con cui si fecero uscire da Cuba migliaia di bambini senza genitori, perché fossero accolti negli Stati Uniti. Quest’operazione ebbe la sua giustificazione nella menzogna che questi bambini sarebbero stati mandati nell’Unione Sovietica per essere addottrinati. Con questi avvenimenti, la chiesa perse molto di quella già esigua base sociale, che aveva nella prima metà del ventesimo secolo».
NUOVA AMERICA, NUOVA
CHIESA
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti nelle vicende fra la Rivoluzione cubana e la Chiesa cattolica. Per cominciare si fece il Concilio Vaticano II, che aprì la Chiesa a un mondo pluralista ed ebbe le sue ripercussioni in America Latina, con la conferenza di Medellin nel 1968. Quest’apertura, in Cuba, si tradusse in una serie di cambiamenti nell’ottica della distensione, come la Carta pastoral del 1969, in cui l’episcopato marcava la propria distanza dal radicalismo controrivoluzionario annidato a Miami.
Nei decenni successivi, i movimenti di liberazione nel vicino Centroamerica ebbero una forte componente religiosa, soprattutto all’interno del Frente Sandinista de Liberación Nacional (Fsln) in Nicaragua, dove un sacerdote ed esponente della Teologia della liberazione, Eesto Cardenal, durante il periodo rivoluzionario nicaraguense (1979-1990) fu ministro della Cultura. Nel Salvador, durante gli anni Ottanta, ricordiamo l’assassinio di monseñor Aulfo Romero e di un gruppo di gesuiti dell’Università centroamericana (Uca), che si erano spesi in difesa dei settori popolari e contro la repressione militare. O pensiamo al Guatemala, all’assassinio di monseñor Juan Gerardi, insieme a quello di molti altri preti guerriglieri che diedero la loro vita, tutti impegnati nell’opzione per gli impoveriti, che in quegli anni  trovava spazio all’interno della Teologia della liberazione. Questi eventi ebbero una forte ripercussione a Cuba e nei rapporti fra Chiesa cattolica e Rivoluzione.
Nel 1991, nell’ambito del quarto Congresso del Partito comunista cubano e delle conseguenti riforme costituzionali dell’anno seguente, si affermò la distensione fra le Chiese cattolica e protestante e la Rivoluzione cubana.
ANNO 1998: FIDEL CASTRO E GIOVANNI PAOLO II
La visita di Giovanni Paolo II a Cuba nel 1998 fu un evento che in qualche modo chiuse questo periodo. Si attendeva come l’incontro fra i due giganti: Fidel Castro, leader indiscusso della Rivoluzione cubana e Giovanni Paolo II, punta di lancia dell’anticomunismo, i due superstiti del crollo del socialismo, della fine di un’epoca, quella del bipolarismo e della guerra fredda. Quest’incontro aveva gli occhi del mondo intero puntati addosso. Quattordici anni dopo, molte cose sono cambiate. Allora fu Fidel Castro quello che raccolse più vantaggi dalla distensione delle relazioni con il mondo cattolico cubano. In quest’occasione saranno Raul Castro, la Rivoluzione cubana e in definitiva il popolo cubano insieme alla chiesa cattolica, che trarranno vantaggi dal dialogo fra Chiesa e Rivoluzione.
Molti religiosi hanno lavorato in questa direzione, come il teologo e attivista brasiliano Frei Betto, che nell’aprile del 2005, alla fine del suo intervento speciale nell’Incontro intergenerazionale sulla teologia cubana, celebrato nella cattedrale episcopale della Santissima Trinità dell’Avana, affermava: «Essere Chiesa in un paese come il Brasile, come il Salvador o il Guatemala, è diverso da essere Chiesa a Cuba. Perché in questi paesi il popolo non vede ancora garantito, né strutturato politicamente, il diritto alla vita. Sebbene in Brasile si siano fatti passi avanti con Lula, i nostri problemi sono così imponenti da non poter essere risolti in quattro anni; in questo paese [Cuba, ndr], dopo più di quarant’anni, si è riusciti a garantire la vita a tutti, ovvero, qui si condivide il pane. Questo non significa che le nostre chiese debbano sacralizzare il sistema politico cubano. Piuttosto è fondamentale che le chiese si mettano al servizio del popolo cubano, perché la gente abbia la vita e la vita piena. Se la Rivoluzione va in questa direzione, la Rivoluzione va nella direzione di Gesù. La Rivoluzione aiuta a costruire nella storia il Regno di Dio».

José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




La svolta di Macky

Macky Sall, quarto presidente del Senegal

Il Senegal conferma la sua tradizione democratica. Il duello finale tra il presidente al potere da 12 anni e il suo giovane allievo si è svolto nella calma. Nonostante i morti di febbraio e i vizi di incostituzionalità. La temuta deriva per il potere è stata arginata.
E ora il neopresidente deve rimboccarsi le maniche.

È la sera del 25 marzo, tiepida e tranquilla come quella di tante domeniche in questa stagione a Dakar. Il presidente del Senegal Abdoulaye Wade telefona a uno dei suoi «allievi», Macky Sall: «Le cose stanno definendosi, la vittoria è tua. Ti faccio i miei complimenti». Macky risponde con malcelata soddisfazione ma con rispetto: «Vi ringrazio!».
I senegalesi hanno votato tutto il giorno nella calma, per eleggere il loro nuovo presidente della Repubblica. I concorrenti al ballottaggio: «il vecchio» Wade e «l’allievo» Macky. Chiuse le ue alle 18, le proiezioni davano già il secondo con oltre il 60% di preferenze (risultato che si attesterà a 65,80%). I timori di un’involuzione «modello Costa d’Avorio» con il presidente uscente sconfitto che non vuole mollare, sono subito smentiti dalla telefonata. Il Senegal è a una svolta storica.

Un uomo ostinato
Abdoulaye Wade, «le vieux» (il vecchio) come viene soprannominato nel suo paese, ha 85 anni, ma ha deciso di attaccarsi al potere, nonostante tutto e tutti.
Eletto la prima volta alle consultazioni del 19 marzo 2000, questo oppositore storico divenne così il terzo presidente della Repubblica del Senegal. Dopo Léopold Sédar Senghor, il padre della patria e Abdou Diouf, entrambi del Partito Socialista, ognuno dei due al potere per 20 anni di fila dal giorno dell’indipendenza, il 4 aprile 1960. Diouf è sconfitto al secondo tuo da Wade. Nel 1974 Wade aveva fondato il Parti démocratique senegalais (Pds) di cui diventa il primo presidente.
Nel 2000 dunque si grida al «cambiamento» e si spera in una nuova era per il Senegal. Ma così non è. Ci si renderà presto conto che il sistema di corruzione e clientelismo perdura e si diffonde.
Il referendum costituzionale del 2001 dota il paese di una nuova Costituzione (la quarta dal 1960). La modifica fondamentale è quella dell’articolo 27: la durata del mandato presidenziale è ridotta da 7 a 5 anni (più consona alle democrazie modee) e il numero di mandati è limitato a due. Una clausola importante sancisce che queste due regole saranno modificabili solo tramite referendum popolare. La nuova Costituzione sopprime inoltre il Senato: il parlamento diventa unicamerale.
Finito il primo mandato nel 2007 (Wade era stato eletto quando vigeva l’altra Costituzione, con settennato), il presidente viene rieletto per altri cinque anni. È il secondo mandato e lui ha 80 anni. In questa occasione il presidente dichiara: «Non potrò più presentarmi in futuro perché ho bloccato la Costituzione su questo punto».
Ma nel 2008 ci ripensa. Il governo (il Senegal è una repubblica presidenziale, per cui il presidente della Repubblica è il capo dell’esecutivo) fa votare cinque leggi costituzionali, tra le quali quella che modifica l’articolo 27, riportando il mandato presidenziale a 7 anni. Il modo con cui l’emendamento viene fatto è però anticostituzionale, in quanto non è stato utilizzato il referendum.
dopo wade, wade?
Negli ultimi anni Abdoulaye Wade manda avanti suo figlio Karim, facendogli assumere sempre maggiori incarichi di potere. Lo nomina presidente dell’Agenzia nazionale dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (Anoci). Il giovane deve seguire gli imponenti cantieri per l’incontro internazionale previsto nel 2008 proprio a Dakar. Ma l’Assemblea Nazionale (il parlamento) lo convoca per cattiva e opaca gestione dei fondi.
Il presidente dell’assemblea è Macky Sall, già primo ministro di Wade e suo possibile successore nel partito. Le vieux non lo perdonerà.
Karim Wade si candida a Dakar nelle amministrative del marzo 2009, ma il verdetto delle ue è implacabile. Sarà consigliere d’opposizione. Neanche due mesi dopo il padre Abdoulaye lo nomina ministro con la responsabilità di quattro dicasteri (Cooperazione internazionale, Territorio, Trasporti aerei e Infrastrutture). Nel 2010 colleziona anche l’importante ministero dell’Energia. Ma i senegalesi mal sopportano questa concentrazione di potere nelle mani di famiglia.
Nel giugno 2011 Wade propone di modificare lo scrutinio presidenziale: si eleggerebbe un «ticket presidenziale», ovvero presidente e vice-presidente, con appena il 25% dei suffragi. La popolazione vi vede il disegno di una successione ereditaria.
I principali partiti politici si rivoltano e così la società civile: le manifestazioni in capitale, di fronte all’Assemblea Nazionale, assumono contorni violenti. Wade è costretto a ritirare il progetto di legge.

Qualcosa si muove
Pochi giorni dopo nasce il Movimento 23 giugno (M23), fondato da alcuni partiti d’opposizione e da diversi gruppi della società civile. Movimento variegato e tutt’altro che unito, M23 ha come obiettivo dichiarato la partenza del presidente: «Wade vattene!». Le altre richieste sono: l’instaurazione di un sistema neutrale per l’organizzazione delle elezioni; che Karim Wade lasci il governo e i media di stato siano più neutrali.
Ci racconta un cornoperante italiano che da anni lavora in Senegal: «M23 è nato come movimento di piazza durante le manifestazioni di giugno 2011 e, in seguito, è stato colonizzato sempre più dai partiti, che l’hanno sicuramente usato per la campagna elettorale. Tra questi Benno Siggil Senegal. Resta comunque un movimento interessante per l’esperienza di coabitazione mista tra diversi soggetti della società civile e partiti». E continua: «Il gruppo più attivo all’interno dell’M23, e anche quello più radicale è “Y en a marre” (ne ho abbastanza, in gergo giovanile, ndr), nato da rapper e appoggiato da moltissimi giovani nelle principali città. Si posiziona come movimento slegato dai partiti – lo ha confermato in campagna elettorale – ed è riuscito a mobilitare giovani che fino a oggi non partecipavano alla vita politica, utilizzando un linguaggio vicino ai ragazzi: rap, slogan efficaci, immagini da puri e duri», conclude.
«Wade fu eletto dal popolo, ma ora ha deluso questo popolo, lo ha tradito. Adesso i senegalesi vogliono un cambiamento». Chi parla è Babacar Sarr, presidente del Fesfop (Festival internazionale del folklore e delle percussioni) di Louga, importante città nel Nord del paese.
«Con il movimento M23 la gente ha detto “No”. Basta andare contro la Costituzione. Si sono trovati partiti politici e leader della società civile. È un nuovo movimento che accompagnerà tutti i cambiamenti nel paese».
«Il popolo senegalese ha bisogno di azioni concrete, anche sulle istituzioni. Occorre separare il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. E poi una buona governance. Un legislativo che rappresenti il popolo, un potere giudiziario che giudichi in nome del popolo, un potere esecutivo che governi per gli interessi del popolo».
Ma le violenze in Senegal non finiscono. Wade è candidato al suo terzo mandato, il Consiglio costituzionale lo ammette il 27 gennaio scorso. Non è accolta invece la candidatura del celebre cantante Youssou Ndur. A Dakar si scatena la guerriglia urbana. I morti sono almeno sei, ma alcune fonti parlano di 15, 150 i feriti, numerosi gli arresti. Per Babacar Sarr, 65 anni, con una vita di impegno politico alle spalle, il paese sta vivendo un momento storico: «Il popolo non deve sempre essere tradito e truffato. La nostra è stata un’indipendenza senza guerra, negoziata. Non abbiamo mai avuto morti. Quelli causati dal regime Wade sono stati i primi. La cittadinanza è sempre più vigilante, esigente, partecipativa». Il Consiglio costituzionale è composto di 5 «saggi», ma l’opposizione sostiene siano stati influenzati dal potere: «La candidatura è anticostituzionale, ma questo dimostra la scarsa indipendenza del potere giudiziario. Perché il Consiglio è stato “costretto” da Wade», sostiene Babacar Sarr.
«La modifica della Costituzione è avvenuta durante il suo primo mandato, il Consiglio sostiene che quello non entra nel conteggio. I suoi oppositori politici, avendo partecipato alle elezioni, è come se lo avessero accettato», spiega invece Mouhamadou Sarr, cornordinatore dei senegalesi del Piemonte, che vive tra Torino e Dakar.

Primo tuo
Il 26 febbraio scorso il presidente uscente affronta il primo tuo contro altri 12 pretendenti, molti dei quali suoi ex alleati, o «allievi» come Idrissa Seck, Macky Sall, Moustapha Niasse. Wade è convinto di vincere al primo tuo ben oltre il 50%. Ma la sua campagna non convince, e soprattutto i suoi ultimi anni di «regno» hanno visto una deriva autoritaria. Così gli elettori lo puniscono.
Il verdetto delle ue gli concede solo il 34,82% con un secondo posto a Macky Sall, 26,57%. Wade ha perso un milione di voti rispetto al 2000 e ne ha totalizzati solo 220.000 in più di Macky. È uno schiaffo per le sue ambizioni. L’astensione è alta: 48% del corpo elettorale.

Il giovane allievo
Macky Sall, 50 anni, è stato tra i più brillanti allievi di le vieux. Dopo gli studi in ingegneria in Senegal e Francia entra in politica aderendo al partito di Wade alla fine degli anni ‘80. Si rivela presto brillante e un valido collaboratore. Nominato ministro dell’Energia e Miniere nel 2001, poi dell’Inteo (2003), diventa in seguito fedele primo ministro di Wade (2004 – 2007) per poi passare alla presidenza dell’Assemblea Nazionale (il parlamento unicamerale). È qui che si consuma la rottura con il «maitre» (maestro), quando, nel novembre 2007 ne convoca il figlio Karim per spiegazioni sulla gestione dei fondi.
Le vieux lo costringe alle dimissioni. Macky fonda il suo partito d’opposizione, l’Alleanza per la Repubblica (Apr – Yakaar).
«Sono stato sorpreso in Senegal, visitando i villaggi in questi ultimi anni, nel vedere che Macky stava lavorando e preparando bene il terreno», racconta Mouhamadou Sarr.
«Io ho sempre speranza in coloro che vogliono cambiare le cose, anche se la situazione culturale e la mentalità politica senegalese tende a resistere al cambiamento», continua il cornordinatore dei senegalesi del Piemonte.
E per quanto riguarda Wade? «Io sono neutrale, ma penso che anche se fosse il migliore presidente del mondo, arrivato alla sua età si dovrebbe preoccupare delle sue preghiere con Dio e dei suoi affari personali, piuttosto che correre ancora dietro al potere».
E continua: «Penso che l’elezione di Macky porterà a un cambiamento in Senegal. Io provengo dalla periferia di Dakar e sono consapevole delle difficoltà che hanno le persone in città, ma anche in provincia. La vita è dura, la gente non riesce più ad andare avanti. Sicuramente abbiamo grosse potenzialità ma le opportunità non vengono date alla popolazione.
Adesso speriamo che questo gruppo di potere sia composto da gente onesta e competente, ma soprattutto con il coraggio di imporre una rottura con alcune pratiche e credenze. Finché i governi sono succubi o influenzabili dai capi religiosi e marabut, perché questi garantiscono loro dei voti, nulla potrà cambiare».
Al secondo tuo, Macky Sall riesce a mettere insieme tutti i candidati perdenti e ricevere il loro appoggio. Wade, invece, cerca voti religiosi, e si reca dal marabut Serigne Béthio Thioune, della potente confrateita dei Muridi, di fondamentale importanza nella complessa società senegalese. Ma questo non gli porterà molto.
«Io sono mouride, ma non ascolto il marabut per andare a votare, separo la politica dalla religione» dichiara Babacar Sarr. E continua: «Il senegalese medio che è andato a votare è una persona nel bisogno e vede tanti sprechi: soldi che vengono regalati a piacimento, spese fatte secondo priorità diverse da quelle della popolazione. Gente frustrata, stanca, disperata: questo fa dire vogliamo che Wade se ne vada».
È chiaro che Macky dovrà «pagare» politicamente l’appoggio degli altri candidati, in particolare Moustapha Niasse (arrivato terzo al primo tuo con 13,20%) e Ousmane Tanor Dieng (quarto con 11,45%). Importante è stato anche l’appoggio del cantante Youssou Ndour, di fama internazionale.
Ma ora soprattutto gli elettori lo aspettano alla prova del governo. «Macky ha accettato e ha firmato la “Carta di buona gouveance democratica” prodotta dalle Assise Nazionali. È questa la differenza. Inoltre c’è un salto generazionale, che è importante. Le raccomandazioni delle Assise saranno prese in conto dal governo di Macky. Il popolo sarà vigilante ed esigente su questo» insiste Babacar.
Le Assise Nazionali sono state organizzate a giugno 2008 e per circa un anno hanno realizzato un enorme lavoro partecipativo in tutto il paese e con la diaspora, per definire la «Carta di buona governance» che deve «guidare la ricostruzione nazionale e il rinforzo della repubblica». Le raccomandazioni delle Assise prendono in conto tutti i settori (agricoltura, ambiente, territorio, diritti, ecc.) e propongono una «visione», valori e un modello di governance per il Senegal.
Il tutto è poi rimasto nel cassetto senza mai venire utilizzato restando solo un ottimo esercizio di democrazia partecipativa.

Le priorità
Diverse emergenze attendono ora Macky e i suoi.
La crisi alimentare del Sahel di quest’anno toccherà almeno 800 mila senegalesi nell’interno del paese. Poi l’aumento del costo della vita, il prezzo dei carburanti, le inondazioni e i black out che fanno soffrire la popolazione di Dakar.
Un lavoro importante sarà anche il risanamento delle finanze dello stato.
Cosa chiede la diaspora
Anche in Italia la diaspora senegalese vuole un cambiamento. Macky ha vinto nella quasi totalità dei seggi per i senegalesi sul nostro territorio.
«Perché abbiamo qualche speranza che con Macky, siano affrontate alcune problematiche a noi care. Si tratta delle convenzioni sulle pensioni, gli accordi bilaterali sui flussi migratori, l’import di macchine usate, tutte cose sulle quali il governo Wade non ha fatto nulla», ricorda Mouhamadou. «La diaspora è molto stanca di non essere considerata. Vorremmo che si definisse una politica migratoria in Senegal. Speriamo che con Macky ci sia un cambiamento». Mouhamadou Sarr è molto attivo nelle associazioni dei migranti senegalesi in Italia.
Oggi la diaspora senegalese nel nostro paese è ben organizzata: esiste una federazione del Nord Italia e si sta lavorando per una federazione del centro e una del Sud. Il tutto per arrivare a una confederazione italiana. «Abbiamo raggiunto un livello di maturità importante – ricorda Mouhamadou – con un potere di pressione e un ruolo di plaidoyer, presso i governi del Senegal e dell’Italia. Analizziamo le politiche di cooperazione e i rapporti bilaterali e vogliamo presentare un documento di proposte al nuovo presidente. Poi vogliamo essere attenti affinché alcune cose vengano realizzate e le promesse elettorali mantenute».

Marco Bello

Marco Bello




Conoscersi attraverso il cibo

Mangiare in una coppia mista

Le coppie miste sono un laboratorio interculturale, dove le differenze si incontrano, si scontrano e si trasformano. Ruoli di genere, divisione del lavoro, uso del denaro, educazione dei figli, religione, ma anche lingua ed abitudini alimentari. Queste ultime, in apparenza poco rilevanti, possono divenire un proficuo elemento di incontro e condivisione.

Una particolarità dei cosiddetti matrimoni misti (o unioni miste) è la loro natura interculturale che li rende un vero laboratorio di scambio, sperimentazione e soprattutto negoziazione, nelle più varie pratiche della vita quotidiana. Pratiche che spaziano dagli orari di vita (per mangiare, dormire, etc.), ai gusti e alle abitudini culturali, alle credenze e pratiche religiose. Naturalmente queste attività d’interazione non riguardano in via esclusiva le coppie miste. In tutti i rapporti tra due o più persone (ma in modo particolare all’interno di una coppia) si scambiano e si negoziano opinioni, gusti, abitudini, principi e decisioni. Tuttavia, le differenze che si «giocano» all’interno delle coppie miste sono di solito più evidenti (anche se non necessariamente più contrastanti). Questa condizione di particolarità si deve proprio al fatto di coinvolgere due persone nate, cresciute e quindi socializzate in due culture diverse, che hanno deciso di vivere assieme e di costruire un progetto di famiglia condiviso. Questa scelta comporta un’attività di negoziazione quotidiana.

UN ELENCO DI DIFFERENZE
Alcuni ricercatori hanno identificato almeno due categorie di differenze culturali che abitualmente vengono prese in considerazione all’interno delle unioni miste: le differenze (quasi) innocue e le differenze (più) rilevanti, essendo queste ultime quelle che con maggiore probabilità possono diventare un motivo di separazione per la coppia. Nelle prime è possibile far rientrare la lingua e le abitudini alimentari, mentre tra le seconde compaiono la religione, i ruoli di genere e la divisione del lavoro, l’uso del denaro e l’educazione dei figli. Ciò non significa che le prime siano irrilevanti ma che, per le coppie oggetto delle ricerche, tali differenze non hanno rappresentato un motivo di rottura. A questa prima categoria appartiene un elemento che, proprio per la sua quotidianità, è spesso passato inosservato, pur rivestendo una grande importanza in virtù della sua necessarietà per la vita di qualsiasi individuo, indipendentemente della cultura in cui sia nato e cresciuto: il cibo.
Secondo lo scrittore, linguista e semiologo, Roland Barthes «il cibo è in ogni posto e in ogni epoca un atto sociale». Mangiare non è solamente un atto fisiologico e materiale dell’uomo, ma anche un’espressione permeata di significati culturali, sociali e simbolici, che, in più, possono variare da una cultura all’altra. In questo modo, proprio perché il cibo è presente lungo tutto il percorso di vita dell’essere umano, perché le specifiche abitudini alimentari sono le prime a conformarsi e perché, attraverso il cibo e lo sviluppo della cultura gastronomica, si può esprimere la propria identità culturale, nei processi migratori si sono studiati i cambiamenti alimentari e anche psicologici (proprio derivati dei cambiamenti nella dieta alimentare) che di solito sperimenta una persona/gruppo quando emigra in un contesto (gastronomico, ma non solo) diverso.

DAL MESSICO AL SENEGAL
Un interessante studio di Wallendorf & Reilly (1983) del dipartimento di marketing dell’Università dell’Arizona, partendo dall’analisi dei rifiuti alimentari di un campione di famiglie di origine ispano-americana (in maggioranza messicane) nel sud degli Stati Uniti, è riuscito ad identificare una forma specifica di consumo culinario unico ed originale. Tale forma non si sarebbe sviluppata, infatti, da un processo di assimilazione oppure da una semplice mescolanza tra gastronomia statunitense e messicana, ma avrebbe avuto origine direttamente da queste due distinte tradizioni (quella di origine e quella del paese di destinazione) che però hanno dato vita ad una terza «cultura culinaria» specifica, capace di soddisfare sia le necessità fisiologiche che quelle culturali del gruppo migratorio. Inoltre lo sviluppo di questa «terza opzione» alimentare è diventato anche il pretesto per promuovere momenti in cui persone, che si riconoscono (in quanto parte di un gruppo) legate da un’esperienza migratoria condivisa, si ritrovano a mangiare insieme.
Un altro studio, condotto da Gasparetti del Dipartimento di Studi orientali ed africani dell’Università di Londra, si è invece concentrato sui processi di acculturazione alimentare di un gruppo di migranti senegalesi in Italia, rilevando che le pratiche alimentari di questo gruppo africano, possono essere identificate con un processo di emarginazione. I senegalesi, infatti, preferiscono in via esclusiva i piatti tipici della cultura senegalese, che abitualmente consumano ritrovandosi, e quindi socializzando, solo tra di loro (o al limite con altre culture africane affini). Al contempo non hanno mostrato grande interesse per conoscere e provare la cucina del paese di destinazione, in questo caso dell’Italia.
I due esempi citati vogliono fornire un’immagine un po’ più dettagliata del ruolo e della rilevanza del cibo all’interno di un processo migratorio che, come si è visto, implica un incontro culturale anche in termini culinari. Entrando più nel dettaglio, chiediamoci ora cosa accade quando queste differenze in termini di cultura gastronomica, disponibilità di ingredienti, necessità, preferenza e gusto si ritrovano all’interno di una coppia.

I BENEFICI DELLA «CONTAMINAZIONE»
Dagli studi fatti precedentemente, tra cui uno dei più completi è quello di Peruzzi in Toscana (2008), le differenze alimentari non hanno mai rappresentato un grosso problema tra i conviventi misti. Gran parte dei soggetti che decidono di sposarsi con un partner di un’altra cultura hanno, in genere, già avuto contatto con la cultura gastronomica del coniuge anche prima di conoscerlo.
Le persone che sviluppano, sia per tradizione sia per propensione personale, una cultura di apertura e curiosità verso differenti tipi di gusti e sapori, sono quelle che solitamente sperimentano, assaggiando i piatti di altre culture gastronomiche (soprattutto quelle che possono apparire più esotiche), permettendo la «contaminazione» delle proprie abitudini alimentari con nuovi ingredienti, aromi, sapori, etc. Per queste persone non rappresenta un problema negoziare i consumi alimentari all’interno della coppia mista, e anzi i partner trovano che l’atto di cucinare e il loro gusto per il «ben e diverso mangiare» sia un punto d’incontro, scambio, conoscenza e addirittura di comunicazione interpersonale.
Un fattore importante intorno al cibo è anche il processo di divisione del lavoro che si configura attorno alla sua preparazione e al resto delle attività casalinghe. Quest’ultime di solito vengono fatte dal partner che trascorre più tempo in casa e che, per ragioni strutturali del mercato del lavoro italiano, continuano ad essere maggiormente le donne. Nonostante questo svantaggio generico, si osserva che, all’interno delle coppie miste, tanti uomini hanno sviluppato un gusto per l’arte di cucinare che permette loro di riscoprire un luogo d’azione e di apprezzamento gastronomico condiviso.
Il ruolo del cibo, non solo all’interno delle coppie miste, ma anche come elemento d’acculturazione dei gruppi migranti, ha pure avuto una importante conseguenza economica. Lo si nota nella crescita di diversi piccoli e medi negozi che si occupano della produzione, importazione e commercializzazione, dei cosiddetti «cibi etnici». Questi, nel caso dell’Italia, si trovano maggiormente nei centri urbani con un’alta densità di popolazione immigrata come Roma, Milano o Torino. Nel 2008, in conseguenza della sua rilevanza economica e sociale, la Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Torino ha realizzato un’inchiesta sulle iniziative economiche degli immigrati nella filiera alimentare. È emerso che, nel capoluogo piemontese, la maggior parte delle imprese del comparto del cibo sono gestite da titolari provenienti da tre principali paesi: Marocco (30.3%), Cina (22.3%) e Egitto (17.8%). In ogni caso, nel complesso, nel settore della vendita di cibo etnico è possibile trovare rappresentate tutte le aree geografiche continentali. Questa variegata disponibilità di scelta permette alle coppie miste (e soprattutto al partner straniero) di riprodurre, almeno parzialmente, la propria cultura attraverso il cibo, sviluppando la creatività attraverso la mescolanza d’ingredienti e la creazione di nuove ricette. Condividendo la cultura gastronomica non solo con il partner, ma anche con familiari e amici (quelli più disponibili ad assaggiare), si promuoverà un rapporto di conoscenza culturale che va oltre gli aromi e i sapori.

Claudia Zilli Ramirez

Claudia Zilli Ramirez




I dilemmi della famiglia biculturale

L’ora delle scelte

Come si comportano le famiglie miste con i propri figli? Anche in questo caso le possibilità possono essere le più diverse, a seconda che la coppia scelga di valorizzare entrambe le culture, di optare per quella italiana oppure di vivere nell’incertezza. Probabilmente, soltanto quando la cultura sarà vista come elemento dinamico e in evoluzione, potrà nascere una società «diversamente italiana».

Diverse ricerche condotte dagli anni ’90 ad oggi hanno mostrato che esistono tre differenti modalità di gestione delle differenze e delle appartenenze nelle relazioni della famiglia con i figli e con la società. Secondo Graziella Favaro, pedagogista che da anni si occupa di inserimento e successo scolastico di minori stranieri e figli di coppie miste, la famiglia mista può sentirsi: un gruppo cosmopolita; assimilata alla maggioranza; un nucleo instabile e in continua tensione a causa delle differenze esistenti tra le due culture di riferimento familiare.

la FAMIGLIA COSMOPOLITA
Nella prima tipologia familiare i coniugi vivono la propria appartenenza biculturale come un’occasione di arricchimento per sé, per gli altri e tanto più per i figli. In queste unioni le scelte importanti per la vita del figlio vengono rimandate in quell’età in cui il figlio potrà decidere da solo. Questo avviene, ad esempio, in molte coppie in cui la sfera religiosa non è ritenuta fondamentale (i cosiddetti «tiepidi») per cui vengono considerate altre le cose prioritarie da insegnare al proprio figlio. L’atteggiamento dei genitori è orientato alla valorizzazione di entrambe le culture in modo da far conoscere indistintamente tradizioni, valori, usi, al fine di mantenere vive le radici familiari e il sentimento di appartenenza di ogni individuo. Sotteso a questo approccio c’è spesso una conoscenza e un amore per l’altra cultura talvolta anche precedente l’incontro col partner e l’idea che non si sia così distanti, ma sia solo questione di «smussare un po’ gli angoli». Il figlio di queste coppie è quindi portato a vivere una situazione di doppia appartenenza non conflittuale, non considerando minoritaria né l’una né l’altra cultura.

la FAMIGLIA ASSIMILATA
Le famiglie miste che tendono invece all’assimilazione optano per l’accantonamento della cultura e delle origini del coniuge straniero in quanto considerate di intralcio o comunque non funzionali all’inserimento del nucleo familiare, e nello specifico del bambino, nella società in cui esse vivono. L’«invisibilità di un pezzo di storia familiare» sembra essere il prezzo da pagare per proteggere il figlio dalle possibili aggressioni di un ambiente e di un paese che appare discriminante e xenofobo.
È la voce diretta degli interessati che spesso conferma questo aspetto: «Se nel tuo compagno la diversità può essere proprio quell’elemento che attira, che incuriosisce, che stimola l’interesse… quando hai un figlio le cose cambiano perché vorresti solo che tuo figlio fosse il più possibile uguale a te…».

la FAMIGLIA INSTABILE
Le coppie appartenenti al terzo gruppo sono invece coloro che ancora non hanno trovato un’armonia intea e una collocazione nel più ampio ambiente sociale poiché non sono ancora arrivate ad elaborare le differenze alla pari, considerando di eguale valore ed importanza entrambe le culture di riferimento. Queste famiglie vivono in una situazione di continuo conflitto rispetto ad ogni scelta educativa ed identitaria: di conseguenza, le relazioni intee sono stressanti e conflittuali sia per i coniugi sia per i figli i quali vivono la loro appartenenza a due culture in modo problematico e, spesso, scelte orientate ad una piuttosto che all’altra cultura sono vissute come un tradimento nei confronti di uno dei due genitori. Le situazioni di disagio spesso possono evidenziare anche l’esistenza di una disparità nel potere decisionale dei due adulti che li induce a lottare per far prevalere una sola cultura e per trasmettere le tradizioni di un solo paese, il proprio.

LE SCELTE EDUCATIVE
Se nella coppia la differenza, la diversità dell’altro può essere occasione di arricchimento, nella relazione con il bambino far prevalere cultura, abitudini, valori di un genitore, può far emergere sentimenti di perdita e rinuncia. Ecco, dunque, che nelle coppie miste le scelte educative per i figli sono il banco di prova di una negoziazione (o della mancanza della stessa) all’interno della coppia e tra la coppia e l’esterno (famiglie di origine, società di accoglienza). Per tutto questo, per le famiglie miste, l’educazione dei figli è uno degli ambiti più difficili da gestire ed il passaggio famiglia – scuola diventa estremamente delicato.
L’ingresso nella scuola matea, in particolare, segna per i bambini anche il primo confronto con il gruppo, e dunque il confronto con la diversità: il gruppo è il luogo in cui è possibile elaborare la dialettica appartenenza – individuazione, entrambe necessarie allo sviluppo psichico e alla crescita sociale. Il bambino, infatti, nel confronto con gli altri scopre la sua diversità (e le sue somiglianze), mentre gli adulti si trovano a rapportarsi con un’istituzione che ha regole che spesso richiedono un’esplicita dichiarazione della propria scelta sul figlio: l’alimentazione, la lingua, la religione.
Seguendo Favaro, si possono distinguere tre tipologie di scelte dei genitori che ricalcano i gruppi precedentemente individuati: i cosmopoliti; gli assimilati; gli instabili.
I primi sono quei genitori che cercano, attraverso spazi e decisioni quotidiane, di costruire, per i loro figli, legami e appartenenze plurali, senza che vi siano fratture e distanze. Del secondo gruppo fanno parte i genitori che tendono a fare scomparire ogni traccia di memoria e di appartenenza alla cultura altra (quella straniera). Infine, ci sono coloro che oscillano tra scelte ambivalenti e conflittuali che ricadono con effetti talvolta estremamente negativi sul bambino.

«NON SONO MICA UN’EXTRACOMUNITARIA!»
Dal punto di vista dell’istituzione scolastica, invece, è importante da un lato evitare il rischio di non considerare la doppia origine di questi bambini (dato che non sempre la diversità di origini è accompagnata e annunciata da un’evidenza percepibile a prima vista). Dall’altra, occorre non cadere nell’errore di definire «diverso» chi poi nella realtà non lo è, di valorizzare un’appartenenza culturale non sentita o sentita in modo personale (e spesso più complesso) dall’interessato e che è opinabile sia compito della scuola conservare e tramandare.
In una scuola di Milano, ad esempio, quando una ragazzina, figlia di un’egiziana e di un italiano, si è sentita proporre di seguire un corso di arabo a scuola, ha replicato un po’ stizzita: «Non sono mica un’extracomunitaria!». Diventa sempre più importante, inoltre, dato l’aumento delle seconde generazioni, figli di stranieri nati sul territorio italiano, evitare il rischio di reificazione delle culture e di imposizione al bambino «di origine straniera», ma nato e cresciuto in Italia, di una cultura che spesso sente sua tanto quanto, se non meno, quella italiana. Da questo punto di vista è emblematica la storia che l’antropologo Marco Aime racconta a conclusione del suo libro Eccessi di culture1 (la storia a sua volta gli è stata raccontata da don Piero Gallo, parroco di San Salvario, quartiere di Torino caratterizzato da una forte presenza di immigrati): «In una scuola matea del quartiere, frequentata da molti bambini maghrebini, le maestre hanno deciso di preparare il couscous. Hanno cercato la ricetta “originale” per cucinarlo secondo la tradizione. I bambini erano contenti. Poi una maestra ha chiesto ad un piccolo di origini marocchine: “Ti piace?” “Sì”. “È come quello che fa tua mamma?” e la risposta del bambino è stata: “Quello di mia mamma è più buono perché mette uno strato di couscous e uno di tortellini, uno di couscous…”».
È pertanto fondamentale ricordarsi che la cultura non è qualcosa di statico, ma è un processo creato e ricreato dall’incontro tra individui ed è perciò in continua trasformazione ed evoluzione. Le coppie miste e le istituzioni educative sono chiamate a sperimentare congiuntamente pratiche creative nuove e a beneficiare dei successi degli uni e degli altri, sfidando preconcetti e definizioni per la costruzione di una nuova società «diversamente italiana».

Viviana Premazzi

Viviana Premazzi




Il cammino della società multiculturale

Le famiglie e le seconde generazioni

Rifiuto e disapprovazione oppure accoglienza e accettazione: l’atteggiamento della famiglia verso il partner straniero del figlio/a è fondamentale per la sorte di una coppia mista. Il prevalere di un atteggiamento rispetto all’altro ha evidenti conseguenze sociali. Decostruire stereotipi e pregiudizi serve infatti per favorire la nascita e lo sviluppo di una vera società multiculturale. Che ha nelle seconde generazioni – i figli degli immigrati nati in Italia – un tassello essenziale.

Una delle molteplici conseguenze dell’incremento nel numero di migranti inteazionali in tutto il mondo (192 milioni nel 2010, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, Oim) è stata l’aumento dei cosiddetti «matrimoni misti» («coppie miste»). Essendo un fattore di rottura e messa in discussione delle regole «tradizionali» dello Stato e delle comunità di origine dei partner (ognuna con le proprie caratteristiche culturali e religiose), queste unioni sono state molto spesso disincentivate tramite specifici strumenti di controllo sia giuridici che sociali. Lo Stato ha usato i suoi mezzi coercitivi, ad esempio, durante l’apartheid in Sudafrica e il nazismo in Germania, inserendo leggi ad hoc che proibivano espressamente i matrimoni interrazziali. Nel caso delle famiglie e delle comunità, invece, gli strumenti usati variano (variavano) dalla negazione dell’eredità ai figli all’adozione di comportamenti ostili nei confronti del partner considerato «estraneo» e perciò non gradito.
Queste attitudini e/o comportamenti da parte delle famiglie possono manifestarsi anche nel caso di partner «omogenei», quando la scelta del figlio/figlia non è particolarmente apprezzata. Però sono ancora più presenti nel caso delle coppie miste, a causa della maggiore evidenza delle differenze. Così, nonostante la crescente inteazionalizzazione del mondo, lo sviluppo di questo come «villaggio globale» e i sempre maggiori spostamenti delle persone, abbiano aumentato la possibilità di tali unioni, queste risultano ancora suscitare perplessità e/o disapprovazione presso non poche società. D’altronde, qui entrano in gioco le regole endogamiche ed esogamiche che precisano e classificano tutti i possibili/non possibili partner matrimoniali per i membri di ogni società. La visibilità della mixité inoltre – nella coppia prima e negli eventuali figli poi – e il fatto che l’«appartenenza razziale» sia un costrutto sociale con numerose, ramificate e pervasive conseguenze sull’organizzazione sociale degli spazi, delle risorse, delle aspettative, etc., costringe la coppia e poi la famiglia mista a stare sulla scena pubblica e a dare conto delle proprie scelte in modo molto più sistematico e diffuso rispetto ad ogni altro tipo di coppia.

L’ATTEGGIAMENTO DELLA FAMIGLIA
Secondo la professoressa Gaia Peruzzi dell’Università di Sassari, che ha sviluppato nel 2008 un’interessante e ampia ricerca sulle coppie miste in Toscana, «in questa sfida, in questa prova di coraggio nei confronti della famiglia e dell’ambiente circostante, si legge anche la speranza delle coppie miste, la promessa da parte di due individui di accogliere le proprie diversità, e di rapportarsi con una cultura altra rispetto a quella di origine». Nella ricerca viene inoltre evidenziato che in Italia il ruolo delle famiglie – e particolarmente dei genitori italiani – nella vita delle coppie miste è molto importante, proprio perché dai giudizi delle stesse dipende spesso il grado in cui la coppia viene considerata come mista e perciò diversa. Mentre – al contrario – dalla loro accoglienza e accettazione dipende in buona parte il processo di adattamento del partner straniero in particolare.
L’importanza dell’atteggiamento e soprattutto del supporto delle famiglie italiane verso le coppie miste che vivono in Italia è particolarmente evidente poiché nel nostro Paese molti servizi di cura e di assistenza sociale ricadono direttamente sulle famiglie stesse. Grazie alla diffusione di una cultura che ormai considera la libera scelta del partner un diritto individuale esplicitamente riconosciuto e praticato – almeno tra le generazioni più giovani -, le famiglie degli italiani intervistati nella ricerca, che hanno deciso di sposare o di convivere con un partner straniero, non si sono opposte (per lo meno apertamente) alla scelta dei figli: «Un’opposizione aperta di genitori e familiari di fronte alla decisione di un parente si configura, al giorno d’oggi, abbastanza remota, inattuale perfino come ipotesi». Allo stesso tempo, però, molti individui intervistati hanno sperimentato diverse attitudini e/o comportamenti di rifiuto e disapprovazione più sottili («di gentilezza, ma con distacco») da parte dei genitori e di altri parenti, in particolare rivolti al partner straniero.
Laddove però i partner stranieri vengono più facilmente accettati, questo è dovuto a due caratteristiche comuni delle famiglie: un atteggiamento di curiosità e di apertura alla diversità (spesso percepita come qualcosa di esotico), oppure una percezione del partner straniero come un possibile aiuto nei lavori di casa, nella cura dei parenti anziani, o come compagnia per il figlio, in molti casi divorziato o vedovo.

LE SECONDE GENERAZIONI
Un’attenzione particolare va rivolta alle famiglie dei partner stranieri, soprattutto per quelli appartenenti alle seconde generazioni ossia i «figli di immigrati e non gli immigrati», come si definiscono essi stessi nel blog della Rete G2-seconde generazioni1. Questi giovani spesso non hanno compiuto alcuna migrazione, o, anche se nati all’estero, non sono emigrati volontariamente, ma sono stati portati in Italia da genitori o da altri parenti. Hanno compiuto in Italia tutto o parte del loro processo di socializzazione, ma rimangono talvolta esclusi dalla concessione della cittadinanza e – rischiando di essere considerati stranieri sia nel paese di origine dei genitori sia in quello di destinazione – possono riprodurre forme di downward assimilation2, anche in ambito matrimoniale. Questi individui però, proprio per la discontinuità del proprio percorso di crescita rispetto a quello dei genitori e per la diversa posizione sociale nonché per l’esperienza nella società italiana, possono anche rappresentare un fattore di profondo cambiamento degli assetti sociali.
La società stessa è ormai in buona parte transnazionale e globalizzata e appare sempre più insostenibile per i giovani figli di immigrati doversi integrare o assimilare in un modello culturale precostituito, chiuso nei confini di una nazione o di una comunità. Le seconde generazioni ricercano, al contrario, forme di riconoscimento identitario plurali, stratificate e fluide, che consentano di rendere conto in modo più adeguato di un’esperienza quotidiana caratterizzata da complessità e capacità di adattarsi a contesti mutevoli e in costante trasformazione. Esse sperimentano pratiche di multiculturalismo quotidiano, ossia un insieme di strategie che vengono usate in modo contingente e che articolano ironia, mimetismo, ostentazione, enfasi ed erranza, che permettono a ognuno di costruire la propria individualità e differenza, rivendicata ormai su scala sopranazionale, linguistica, religiosa, etc., e in riferimento a gusti, estetiche, simboli e tradizioni che travalicano i confini di uno Stato.

TRA LA CULTURA EREDITATA E QUELLA ACQUISITA
I giovani, soprattutto quelli nati in Italia, infatti, pur riconoscendosi per certi aspetti sostanziali (soprattutto nello stile di vita, nelle abitudini, nella libertà e nelle opportunità a disposizione) come italiani non sono facilmente disposti a negare o occultare altre forme di riconoscimento (soprattutto per ciò che concee i valori, le tradizioni e i legami familiari). Le seconde generazioni incarnano, dunque, spesso non senza fatica e conflitti, le due culture, quella ereditata dai genitori e quella acquisita in Italia. E spesso il confronto/scontro con la propria famiglia e la loro comunità di appartenenza avviene rispetto ad alcune scelte fondamentali come quella del partner.
Il formarsi di coppie miste, infatti, può essere percepito come un indicatore di indebolimento delle comunità di appartenenza e un motivo di vergogna per la famiglia in cui questo avviene, segno del «fallimento» nell’educazione dei figli (ma soprattutto delle figlie).
Un esempio interessante viene descritto da una ragazza musulmana nel blog delle seconde generazioni Yalla Italia3: «Dover affrontare i propri genitori e presentare il “prescelto”, è di per sé imbarazzante, figuriamoci poi se quest’ultimo non ha tutti i requisiti necessari al posto giusto, gli manca un “pezzo”, insomma, un lieve difettuccio che “cozza” con i canoni del bravo ragazzo, preferibilmente arabo e assolutamente musulmano. Un diversamente musulmano? No! Apriti cielo. Sacrilegio, tragedie greche e anche telenovelas venezuelane, tutte insieme. Si inizia con un: “Ma con tutti quelli che ci sono al mondo proprio uno non mussulmano?”, per poi infierire su quel poco di sicurezza rimasta: “Sei proprio scesa in basso”, e ancora infliggerti un: “Perché ci hai fatto questo? Sparleranno tutti di noi”».
Nel racconto della ragazza questo sembra emergere come l’aspetto peggiore, quello che conta di più o, meglio «che conta di più per loro – i genitori e la comunità – che per noi», poiché provoca il giudizio su se stessi e la propria famiglia: «Ed ecco che gli amici, la società, i compagni di preghiera, i tuoi parenti o serpenti, insomma tutti sono lì pronti a giudicare sia te, facendoti sentire “sbagliata”, sia la tua famiglia che non è riuscita a compiere il miracolo di crescerti “come si deve”».
E così le seconde generazioni sono chiamate, per l’ennesima volta nella loro vita, a mediare, negoziare e definire pratiche e spazi di riconoscimento, modelli di comunicazione e forme di identificazione che tengano conto non solo dell’identità nazionale, ma che includano anche le lealtà ai legami familiari, alla religione, e ad una presunta e continuamente rielaborata appartenenza etnica e culturale.

DECOSTRUIRE PER COSTRUIRE
Se da un lato le attitudini e i comportamenti dei genitori (italiani e non italiani) verso le coppie miste hanno spesso un forte carattere strumentale e/o stereotipato, dall’altra l’esperienza di moltissime coppie miste mostra che i successi sono possibili e che gran parte dell’accettazione, della condivisione e del sostegno alla scelta del figlio si costruisce attraverso la conoscenza del partner e della sua cultura. Quando abbiamo chiesto a Marta e Manuel, coppia italo-dominicana in attesa di un bambino, di immaginare loro figlio tra 20 anni in una relazione «mista», hanno inizialmente mostrato di avere le stesse perplessità dei loro genitori. Poi si sono guardati, sono scoppiati a ridere e si sono corretti: «Prima di giudicare cercheremo di conoscere la persona di cui nostro figlio si è innamorato. Non vogliamo che sia vittima degli stessi stereotipi o pregiudizi di cui siamo stati vittime noi».
Se davvero così sarà, è allora possibile sostenere che davvero i matrimoni misti sono segnali di integrazione. Essi aiutano a sviluppare idee e comportamenti che potranno «decostruire» stereotipi e pregiudizi che troppo spesso non permettono di costruire relazioni umane e di coppia su cui fondare una società realmente inclusiva e rispettosa delle differenze.

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi




Giulietta parla rumeno

Un’anasili del fenomeno

I matrimoni misti – intesi come unione tra una persona italiana e una straniera – sono ormai oltre il 15% del totale. Il fenomeno è dunque rilevante. Si tratta di un indebolimento del «controllo sociale» o di una conseguenza dell’integrazione e stabilizzazione della componente immigrata della società italiana? In ogni caso, diventare una coppia mista significa confrontarsi con mondi, tradizioni e modelli di comportamento diversi. Oltre che con pregiudizi, stereotipi e pressioni provenienti dalle famiglie d’origine e dalla società. Per tutto questo, rispetto ad un’unione «tra nativi», una coppia mista può risultare più fragile. Quando però essa ha successo, il beneficio ricade sull’intera collettività.

Secondo la professoressa Tognetti Bordogna dell’Università di Milano-Bicocca, pioniera del tema in Italia, «matrimoni o coppie miste» (di solito utilizzati in modo indifferenziato, nonostante le implicazioni legali evidentemente diverse) sono due termini che si riferiscono all’istituzione sociale per la quale due persone, tradizionalmente un uomo e una donna, di paesi diversi, background culturali diversi, religioni diverse o classi socio-economiche diverse, si uniscono in un legame sentimentale (anche se in tanti casi non necessariamente) che viene socialmente riconosciuto e che implica, d’accordo con le condizioni stesse dell’unione, effetti legali.
Queste unioni, sia formali che informali, non sono un fenomeno sociale nuovo. Quando ancora non esisteva il sistema degli Stati-nazione, quando i viaggi erano più difficili da realizzarsi per difficoltà nei sistemi di trasporto e quando la conoscenza e la comunicazione con altre regioni geografiche erano scarse, poteva essere considerato matrimonio misto anche quello tra due persone di diversa provenienza familiare (matrimonio fuori dal circolo dei cugini e altri parenti), di un’altra città (anche se vicina e con un background culturale non molto diverso), di diverse correnti all’interno di una stessa religione o di età particolarmente diverse (quando il matrimonio non era stato anticipatamente approvato dai genitori). Nella storia, casi illustri di unioni miste sono state, per esempio, quelle tra Cleopatra e Giulio Cesare, tra La Malinche e Hean Cortes (dalla cui unione nacque Martin Cortes, uno dei primi meticci nel Nuovo Mondo), e tra Luigi XVI di Francia e Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena. Studi archeologici e storici hanno evidenziato anche l’incidenza di unioni miste a livello popolare (dunque non solo tra i membri delle classi più alte delle società). Alcuni esempi sono quelli citati da Franco Marzatico1, tra membri di comunità etrusche e celtiche negli Appennini bolognesi, oppure quelli citati da Massimo Guidetti2 tra barbari e romani. In ambito letterario è anche possibile nominare per esempio due delle più famose opere di William Shakespeare, Otello e Romeo e Giulietta, nelle quali le coppie protagoniste sono caratterizzate da differenze razziali e familiari nelle società rispettivamente veneziana e veronese del Cinquecento.

L’elemento comune di queste unioni è che esse rappresentano una rottura evidente dei confini imposti dalle convivenze «tradizionali» e dei limiti – impliciti o espliciti – esistenti tra le classi sociali. L’elemento in continua trasformazione è invece costituito dalle categorie sociali che vengono prese in considerazione quando un rapporto di coppia viene definito come «misto». Oggi, ad esempio, il senso comune, i mass media e la società considerano matrimoni misti, quelli in cui un coniuge ha la cittadinanza italiana e l’altro è straniero (oppure con cittadinanza italiana, ma nato e/o cresciuto in un altro paese e quindi con un background culturale diverso). Queste unioni, passando dal 5,1% nel 1998 al 15% nel 2008, appaiono di estremo interesse poiché si pongono come elemento di «interazione» tra le diverse componenti della popolazione e come testimonianza del melting pot culturale che sta progressivamente contraddistinguendo anche l’Italia, paese di «nuova» immigrazione.
Il formarsi di coppie «miste», inoltre, è considerato generalmente un indicatore sia di indebolimento del controllo sociale delle comunità di appartenenza sui propri membri sia di integrazione nella società «di destinazione». La nuzialità dei cittadini stranieri, infatti, rappresenta uno degli indicatori più significativi del processo di stabilizzazione delle comunità immigrate nel nostro Paese. In questo modo, il matrimonio misto si presenta sia come un interessante laboratorio per l’approfondimento delle dinamiche che caratterizzano la relazione coniugale tout court sia come un luogo di sperimentazione e negoziazione di pratiche e significati culturali, sociali, religiosi, alimentari, etc. La mixitè3, infatti, comporta allo stesso tempo rottura e incontro rispetto a quelle che sono le differenze messe in gioco tra i partner; queste rotture e incontri (riferiti da diversi studiosi del tema come i processi ambigui che continuano a riprodursi non solo all’interno della vita ordinaria della coppia, ma lungo il percorso di vita dei loro discendenti) comportano a loro volta cambiamenti che possono toccare anche le famiglie dei partner e i gruppi sociali a cui questi appartengono. Da queste unioni derivano così importanti implicazioni sociali, psicologiche, giuridiche, religiose e anche economiche a livello collettivo.

Da una prospettiva sociologica è interessante considerare la distanza che può esistere tra i paesi d’origine dei due coniugi (distanza culturale, economica, politica, demografica, etc.), che si traduce, all’interno dei nuclei familiari, in un’unione tra individui che sono stati socializzati a differenti modelli di comportamento (su divisione dei ruoli tra i sessi, educazione dei figli, rapporti con le famiglie d’origine), e spinge a riconoscere che ci sono, in alcuni casi, differenze «più diverse» di altre.

Gli studi già effettuati su queste nuove forme familiari hanno evidenziato la possibilità di una suddivisione in tre livelli dei problemi specifici che le coppie miste debbono affrontare: il livello interindividuale, il livello intercomunitario e quello interstatale.
Certamente, per ogni individuo, il diventare coppia richiede di «fare i conti» col proprio passato, ed è pur vero che ogni nuova coppia -indipendentemente dal proprio background -, si trova a compiere un lavoro di «rinegoziazione» di situazioni in precedenza regolate per ognuno dei due partner da principi e tradizioni legate alla propria famiglia e alla propria origine. Nella coppia mista si confrontano due individui che, nella loro socializzazione, hanno interiorizzato due mondi diversi, probabilmente due concezioni diverse del matrimonio, ognuno con una propria definizione della realtà. È evidente però che lo sforzo richiesto ai partner sarà direttamente proporzionale alla distanza dei loro mondi rispettivi. In questi ambienti familiari sarà quindi particolarmente rilevante la capacità di gestione della doppia appartenenza e il grado di conoscenza, per entrambi i coniugi, della cultura e del mondo dell’altro. È però importante tenere presente che i comportamenti nella coppia mista non sono ascrivibili né a modelli culturali del paese d’origine né a modelli presenti in Italia, ma sono molto spesso oggetto di un processo di reinterpretazione.
Diversi studiosi parlano della coppia mista come di un «corpo a corpo interculturale», proprio perché un matrimonio di questo tipo richiede la rinegoziazione di una quantità impressionante di situazioni, prima regolate diversamente. L’esperienza di alcuni consultori interetnici ha evidenziato come la vera comprensione tra i coniugi sia frutto di una capacità comunicativa che conduca entrambi alla conoscenza della lingua e della cultura dell’altro. Conoscere il mondo del partner è infatti fondamentale perché aiuta a non perdere la propria identità, a sviluppare una maggiore competenza nel prendere insieme le decisioni e nel risolvere i conflitti, a sviluppare relazioni soddisfacenti con la famiglia d’origine del proprio coniuge. L’esigenza di arrivare a una nuova «definizione della realtà», ad una mediazione fra modelli culturali, è quindi da ritenersi fondamentale per la riuscita e la stabilità del rapporto coniugale. Per questo le coppie miste vengono definite «laboratori interculturali» in quanto il confronto con «l’altro» non è teorico, ma reale e quotidiano.
Il secondo livello di interazione è quello delle relazioni tra le comunità. Tanto più i due sposi appartengono a comunità tra loro lontane, per tradizione, lingua, cultura, religione, tanto più sarà difficile per tali gruppi accettare o per lo meno condividere la decisione di un proprio membro di sposarsi al di fuori del gruppo. La scelta di un partner straniero, infatti, viene spesso letta come provocazione nei confronti dell’educazione ricevuta e del proprio gruppo di appartenenza, come gesto di negazione del legame familiare e sociale in quanto ci si pone fuori dai confini del «territorio simbolico» della comunità d’origine. Di frequente il matrimonio misto è quindi elemento di isolamento dal contesto e dal sistema relazionale d’origine dei membri della coppia: le coppie cambiano amici, allentano i legami con le rispettive famiglie. È a partire dalle famiglie di appartenenza degli sposi e dagli amici che si manifestano infatti pregiudizi, stereotipi, pressioni.
Al terzo livello di «problematicità» troviamo i rapporti tra i due Stati di cui i partner sono cittadini, e in particolare i legami esistenti o mancanti tra i rispettivi sistemi giuridici. Questo livello è importante quale tutela non solo dell’istituzione famiglia, ma dei singoli componenti della stessa. A volte la chiarezza giuridica manca sin dal momento della ufficializzazione dell’unione. La mancanza di accordi a livello giuridico si rileva particolarmente importante in caso di custodia dei figli, eredità, divorzio.

Anche a causa dei problemi evidenziati, le coppie miste possono risultare più fragili rispetto a quelle «tra nativi» e dunque più a rischio di rottura e fallimento. Tuttavia, esse si configurano anche come importantissimi luoghi di incontro, dialogo e sviluppo di pratiche interculturali che possono coinvolgere non soltanto la rete familiare dei coniugi, ma l’intera comunità.

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi

Claudia Zilli Ramirez e Viviana Premazzi




Cana (31): La gioia è la vera purificazione cristiana

Gv 2,6 (c): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra],
contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Abbiamo già detto che Gv 2,6 è il cuore della narrazione (cf MC 9 -2009); riproponiamo per comodità lo schema dell’intero racconto di Cana per ricordare la sua struttura circolare: partendo dall’inizio e dalla fine tutto converge verso un centro, qui verso le giare di pietra, finalizzate alla purificazione, come l’arrivo al monte Sinai è finalizzato al dono della Toràh scritta su tavole di pietre, momento supremo di rivelazione che deve essere preparato degnamente attraverso la purificazione del popolo.

  2,1Cana di Galilea, nozze, madre, 2Gesù, i suoi discepoli.
  3Manca il vino; intervento della madre.
  (4)5I servitori/diaconi invitati a ubbidire.
  6Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei, collocate
  [per terra], contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri).
  (7)8I diaconi attingono (= ubbidiscono) e «conoscono».
  10Il vino buono [bello] conservato; intervento dell’architriclino.
  11Cana di Galilea, la gloria manifestata e la fede dei discepoli.
Se Gv 2,6 è il centro del racconto, dobbiamo prendere atto che il matrimonio è solo un’occasione esteriore e non l’obiettivo dell’evangelista; che la madre ha una doppia funzione: di rappresentanza del passato e di passaggio al nuovo; che i discepoli svolgono il ruolo che fu del popolo d’Israele ai piedi del Sinai e che le giare/tavole di pietra, svolta la loro funzione di purificazione, devono cedere il passo alla Toràh dello Spirito che proviene dall’umanità del Signore.
Le giare di pietra nella tradizione rituale    
Siamo di fronte a una rilettura di tutta la storia della salvezza, riproposta in chiave nuova, di fronte a una situazione completamente nuova. La novità per eccellenza è data dalla presenza del Figlio, chiave di volta sia dei segni sia del contenuto. «Il Messia entra nelle antiche nozze, nel popolo che vive sotto l’antica alleanza, ma come invitato. Non appartiene ad essa, è soltanto ospite, e così pure i suoi discepoli, che fanno gruppo con lui. La madre vive all’interno dell’alleanza antica; Gesù e i suoi no. La presenza di Gesù sta per mettere in moto la scena» (J. Mateos-J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 138). Ecco la novità che non riguarda più la purificazione esteriore, ma l’ordine e il confine della coscienza e responsabilità morale.
Le giare sono di pietra e non di coccio; sono quindi molto preziose perché esigono una lavorazione laboriosa e lunga che le rende anche care da un punto di vista economico. Le giare sono «di pietra» e il termine greco «lìthinai» è unico in Gv (tecnicamente si dice è un hàpax legòmenon, detto una sola volta). Esse rispondono alle esigenze per la purità prescritte nel libro del Levitico, capitolo 11, dove però non si parla di materiale «di pietra», ma di «utensili di legno o di «vaso di terra» (cf Lv 11,32-33). È la tradizione giudaica che dichiara espressamente: «I vasi di pietra (kelè ‘abanìm) non ricevono impurità» (Ghemaràh del Talmud di Babilonia, Shabbàt 96a; cf anche Mishnàh, Teharòt – Cose pure, Iadaìm – Mani, I,2; Kelìm – Oggetti, X,1). Su questo punto tra i rabbini sorprendentemente non sorgono discussioni per cui si deve ritenere che fosse una tradizione abituale e pacificamente accettata da tutti fino alla distruzione del tempio nel 70 d.C.
Gli scavi archeologici dell’ultimo secolo e mezzo (1870-1970), hanno portato alla luce molti e grossi recipienti di pietra, la cui tecnica di lavorazione deve essere andata perduta per mancanza di trasmissione, dovuta alla diaspora dopo la distruzione del tempio e all’impossibilità di usare recipienti così ingombranti per la loro pesantezza (cf J. Gonzalez Echegaray, Arqueología y evangelios, Navarra 1994, 199-201).
Oggi possiamo recuperae l’uso, nonostante siano trascorsi oltre due mila anni di silenzio. Se si vuole, possiamo dire che l’archeologia dà una testimonianza indiretta della veridicità del Vangelo, quanto meno che il racconto di Cana è verosimile con gli usi e le leggi di purità in uso presso gli ebrei al tempo di Gesù.
Dalla penitenza alla gioia
L’acqua che contenevano era quella «per la purificazione dei Giudei» (katà ton katharismòn tôn Iydàiōn). In greco si usa la preposizione propria katà che esprime una relazione tra due soggetti/oggetti. Dal punto di vista delle giare si sottolinea il fine: giare per/destinate alla purificazione; se invece si vuole mettere in rilievo il secondo termine, che è «purificazione», allora si sottolinea la necessità, l’obbligo della loro presenza: giare di pietra necessarie per la purificazione. Sia l’uno che l’altro versante esprimono la funzione delle giare, sottolineata ancora di più dal fatto che erano «collocate/giacenti [per terra]». Le giare sono sei e non sette, cioè sono in numero imperfetto (= 7-1), perché indicano che l’obiettivo per cui esistono, cioè la purificazione, è per sua natura imperfetta (cf J. Mateos-J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 141).
San Paolo esprime questo stesso pensiero dicendo che la Toràh non ha in se stessa la forza di realizzare la comunione con Dio perché il suo compito era pedagogico, di accompagnamento a Cristo: «Ma prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi e rinchiusi sotto la Legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo» (Gal 3,23-25; cf 1Cor 4,15; Rm 4,14-15; 7,7-25).
Gesù non dà eccessiva importanza alle norme di purità; anzi, le contesta spesso e volentieri in tutta la sua vita (cf Mt 23,25-28; Mc 7,1-15; Lc 11.39), perché esse sono «di pietra»: impongono pesi che schiacciano, mentre la proposta di Gesù è un «giogo dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,30).
Quando la legge, qualsiasi legge, specialmente quella morale è astratta e non tiene conto delle condizioni oggettive delle persone, è un impedimento enorme che ostacola la vita piuttosto che sostenerla. Il bisogno costante di purificazione, l’ansia, anzi l’ossessione della colpa, che oggi potremmo chiamare il senso di colpevolezza, non porta da nessuna parte, toglie solo la gioia della vita che non viene vissuta più come dono, ma come condanna. Sono le giare di pietra che stanno lì piene di acqua, pronte per la purificazione, ma inefficaci, inutili, immobili: «giacenti». Come la confessione per molti cattolici: ci si confessa sempre per ricominciare d’accapo. Questa loro inutilità è trasformata dalla presenza del Signore che le riempie di vino giornioso, perché con l’avvento del Signore Gesù è la gioia la sorgente della purificazione e dell’incontro (cf M. Morgen, Le festin des noces de Cana, 142).
Ascesi o esultanza di vita?    
Secoli di ascesi ci hanno allontanato dal cuore del Vangelo e ci hanno scaraventato nell’abisso della desolazione: la persona votata a Dio doveva entrare nell’inferno della mortificazione, della rinuncia, del sacrificio; tutto era tetro e contro Dio, tutto era peccato, e quindi bisognava confessarsi sempre, spesso: si passava la vita tra esami di coscienza e fustigazioni, tra penitenze e mortificazioni che umiliavano l’uomo «fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore… coronato» (Sal 8,6). Essere cristiani significava quasi essere ossessionati, rinunciatari, mortificati.
Gesù sostituisce l’acqua della purificazione con il vino dell’esultanza, perché il «Vangelo» è, anche etimologicamente, «una notizia che porta gioia» e allegrezza. Il «Vangelo» è la Persona stessa di Gesù che viene a sedersi alla mensa della nostra vita per celebrare con noi le nozze dell’alleanza.
In questo contesto si capisce ciò che intende l’autore della prima lettera di Giovanni: «In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,19-20), perché «Dio è Agàpē» (1Gv 4,8.16) e giudica meglio del nostro cuore, cioè della nostra coscienza (cf Rm 2,15; Ef 1,18).
La staticità immobile delle giare distese per terra emerge nitida e forte, quasi ad imprimere bene nella mente del lettore che la Toràh «di pietra» è diventata così pesante e inamovibile da schiacciare sotto il proprio peso chiunque se ne fosse fatto carico.
Il profeta Ezechiele lo aveva previsto e descritto:

«25Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, 26vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. 27Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36,25-27).
Per il profeta la pietra è simbolo di un cuore senza amore, ossessionato dall’osservanza religiosa, ma incapace di amare e di respirare la libertà dei figli di Dio. È necessario un trapianto cardiaco per estirpare l’immobilità pietrificata della Toràh che si riduce a un’osservanza esteriore e sostituirla con un afflato di sentimenti (spirito) che incontra la Toràh come motivo di affetto e relazione che esigono due cuori innamorati in movimento reciproco dell’uno verso l’altro.
I rabbini del dopo esilio avevano codificato la Toràh in una serie di 613 precetti da osservare per essere un buon giudeo. È l’estensione a dismisura non tanto della legge morale, ma della ossessione per la casistica che non lascia nulla al caso o alla determinazione della libertà personale, ma tutto è previsto, stabilito e codificato.
Dalla religione dell’obbligo
alla fede dell’amore
Al tempo di Gesù l’osservanza di tutti i precetti della Torah (Sir 51,26; Ger 2,20; 5,5; Gal 5,1) erano considerati un giogo pesante da portare. Il Talmud babilonese (trattato Makkoth 23b, tradizione di Rav. Simlai, amoraita del III sec. d.C.) insegna che la Toràh contiene 613 mitzvòt – precetti (ebr.: Tariàg mitzvòt) dei quali 248 sono mitzvòt asèh (comandamenti positivi, prescrizioni) e sono in numero uguale ai pezzi che compongono il corpo umano (ossa, nervi, ecc.); 365 sono mitzvòt taasèh (comandamenti negativi, divieti) e corrispondono ai giorni dell’anno solare. Il senso è semplice: la Toràh deve essere osservata con tutta la persona (248 ossa, nervi, ecc.) con un impegno che deve durare tutto l’anno (365 giorni; Cf Rav. Simlai, amoraita del III sec. d.C. in Makkot 23b.).
Le donne erano dispensate dall’osservare i precetti negativi per lasciare loro una certa flessibilità nel loro impegno familiare, mentre erano obbligate a quelli positivi. Tuttavia esse potevano, se volevano, osservare anche i precetti negativi.
Il numero 613 si ricava dalla ghematrìa: la parola Toràh in ebraico (T_W_R_H) ha un valore numerico di 611 (400+6+200+5), a cui devono aggiungersi i due pronomi personali con i quali Dio si presenta nel consegnare l’intera Toràh a Mosè sul Sinai (Es 20,2-3; Dt 5,6-7). La somma di 611+2 dà il risultato di 613.
I farisei pensavano che il popolo non potesse salvarsi perché incapace di osservare tutti i precetti prescritti. Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh per scoraggiarlo (Talmud, Berakot 30b).
Il giogo però indicava anche la fatica quotidiana dello studio della Toràh che equivale all’osservanza di tutti i comandamenti presi nella loro totalità (Cf Mishnàh, Pèah/Angolo, 1,1; Talmud, Shabàt 127a).
Giovanni nel prologo parla di «Lògos» al singolare, che è una magnifica contrapposizione all’inflazione delle «parole» che dominava il suo tempo. La «pienezza del tempo» si caratterizza per il fatto che la Parola per eccellenza, la Toràh, la creazione e i comandamenti non sono altro che anticipi, prolessi dell’unica Parola che è il Figlio di Dio, il quale non ha più bisogno di molte parole per manifestare il volto di Dio; ma ora è lui stesso, il Figlio prediletto, che diventa Parola. Per questo sul monte Tabor, la voce celeste ordinerà di ascoltarlo (cf Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35).
In questo contesto si situa la necessità di una purificazione costante, a motivo della quale le case dovevano essere attrezzate con recipienti di acqua, come attesta anche l’evangelista Marco:

«1Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. 2Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate, – 3i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi 4e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie, oggetti di rame -, 5quei farisei e scribi lo interrogarono: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”» (Mc 7,1-5).
Anche l’autore della celeberrima Lettera dello pseudo-Aristea (sec. II a.C.) che narra la leggenda della traduzione in greco della Bibbia ebraica, osserva che i settanta sapienti mandati da Gerusalemme in Egitto, quotidianamente «secondo poi la consuetudine dei Giudei… dopo essersi lavate le mani nel mare» (Lettre d’Aristée …232), compivano la purificazione prescritta. Lo stesso facevano gli Esseni di Qumran: prima di pranzo «immergono/bagnano il corpo in acqua fredda e dopo questa purificazione» prendono posto alla comune «mensa considerata come un luogo santo» (Flavio Giuseppe, GG II,8,5).
Le giare di pietra
profezia dell’umanità di Dio
La purificazione è essenziale nell’ebraismo perché ogni azione e luogo può contaminare e rendere inabili al culto liturgico, a celebrare lo Shabbàt e la preghiera. In Marco, che abbiamo appena citato, i farisei rimproverano Gesù perché «alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate» (Mc 7,2). Gli stessi Giudei, prima della festa di Pasqua salgono a Gerusalemme per purificarsi e potere essere adatti alla celebrazione: «Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi» (Gv 11,55) e quando chiedono la condanna di Gesù da parte di Pilato «non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (Gv 18,28).
Gesù porta un’altra logica perché non è più la purità legale o rituale che conta, ma la purezza del cuore, cioè la trasparenza della coscienza che si nutre della Parola di Dio, cioè del Lògos, cioè di Dio stesso: «Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato» (Gv 15,3).
La purificazione avviene attraverso l’acqua, tema centrale in tutto il quarto vangelo: il capitolo quarto descrive l’incontro di Gesù con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe; tra i due si instaura un duetto sull’acqua che dà sete e sull’acqua che disseta per la vita eterna attraverso la parola di Gesù Messia (cf Gv 4,10.26); il cieco alla piscina di Betzatà deve immergersi nell’acqua agitata dall’angelo (cf Gv 5,1-7); il cieco nato deve lavarsi alle acque di Sìloe (cf Gv 9,7) e l’umanità nuova nata sotto la croce, rappresentata dalla madre e dal discepolo, sono lavati dall’acqua e dal sangue sgorgati dal costato di Cristo (Gv 19,26.34). Le giare di pietra, inutili alla purificazione che si apprestano a contenere il vino giornioso dell’alleanza, ora sono profezia dell’umanità di Dio.

Paolo Farinella

(31 continua).

Paolo Farinella




Il silenzio e la parola

20 maggio: giornata mondiale delle comunicazioni sociali

Animo e mente hanno bisogno di silenzi e riflessioni individuali e comunitarie.
Il silenzio è parte integrante della comunicazione. E favorisce il discernimento.
Le nuove forme di comunicazione, aiutano la chiesa a dialogare con l’uomo moderno.
Scopriamo il messaggio del papa per la 46a giornata delle comunicazioni sociali.

La frase del pastore e teologo Dietrich Bonhoeffer «Facciamo silenzio solo per amore della Parola», sintetizza più di ogni altra considerazione il messaggio di Benedetto XVI, inviato a gennaio per la giornata delle comunicazioni sociali del 20 maggio, alla chiesa universale e a tutti coloro che desiderano confrontarsi, con serietà, responsabilità e libertà sul tema dell’informazione. La parola non sempre ci fa pensare a ciò che diciamo o fingiamo di ascoltare. La relazione tra persone, la ricerca di una sintesi nella complessa babele di parole che ci travolgono a tutti i livelli è necessaria per vivere e non sopravvivere all’urto dell’immanente flusso presente di fatti e vicende.
L’anima e la mente hanno bisogno di silenzi e riflessioni, individuali e comunitarie, anche nell’ambito di ciò che di più prezioso abbiamo ricevuto in dono. A causa delle attuali dinamiche della comunicazione siamo sommersi da un flusso continuo di domande e risposte, spesso anzi di risposte non richieste, che vorrebbero anticipare e indurre questioni di nessuna utilità.
In questo contesto, ricorda Benedetto XVI, «il silenzio è prezioso per favorire il necessario discernimento tra i tanti stimoli e le tante risposte che riceviamo, proprio per riconoscere e focalizzare le domande veramente importanti».
Le grandi domande della filosofia, sul senso della vita, del sapere e della speranza, non si sono estinte nel cuore dell’uomo e continuano a manifestare «l’inquietudine dell’essere umano sempre alla ricerca di verità, piccole o grandi».
Fare silenzio
Nel giorno della festa di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti e comunicatori – il messaggio del Papa parte dall’affascinante titolo «Silenzio e parola: cammino di evangelizzazione». Silenzio e parola, scrive Benedetto XVI, sono due aspetti essenziali di ogni comunicazione, senza l’uno, l’altro è privato di senso: «Il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto». Per Benedetto XVI, il silenzio «apre… uno spazio di ascolto reciproco» che rende «possibile una relazione umana più piena». È nel silenzio, infatti, che «ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi», che il pensiero si «approfondisce» e che «comprendiamo con maggiore chiarezza ciò che desideriamo dire o ciò che ci attendiamo dall’altro». Allo stesso modo, «tacendo, si permette all’altra persona di parlare, di esprimere se stessa, e a noi di non rimanere legati, senza un opportuno confronto, soltanto alle nostre parole o alle nostre idee».
Non a caso, prosegue il pontefice, «nelle diverse tradizioni religiose», la solitudine e il silenzio sono «spazi privilegiati per aiutare le persone a ritrovare se stesse e quella verità che dà significato a tutte le cose». Anche nel mondo contemporaneo, in cui l’uomo «è bombardato da risposte a quesiti che egli non si è mai posto e a bisogni che non avverte». «Là dove i messaggi e l’informazione sono abbondanti – aggiunge papa Ratzinger -, il silenzio diventa essenziale per disceere ciò che è importante da ciò che è inutile o accessorio».
Social network
E i social network, Facebook e Twitter? Non proprio una «benedizione» ma un segno, secondo Benedetto XVI, di considerazione verso le nuove forme di comunicazione online che essi rappresentano, dai micro messaggi di 140 caratteri o agli sms «non più lunghi di un versetto biblico», come afferma anche il cardinale Gianfranco Ravasi che accetta la sfida della comunicazione globale come una diretta conseguenza della sua missione: «Aiutare la chiesa a dialogare con l’uomo contemporaneo, cercandolo dove è, anche nel mondo del web, come un esploratore in perlustrazione in territori sconosciuti, distanti e spesso ostili, conduce la sua ricerca libero da preconcetti, con l’apertura al confronto caratteristica dell’uomo di cultura».
Le nuove tecnologie non sono guardate con sospetto dal papa ma con curiosità e apertura, nella consapevolezza che, per la Chiesa, ogni «mezzo» è «buono» se valido è il messaggio. Benedetto XVI non dimentica che viviamo in un’epoca in cui «le varie forme di siti, applicazioni e reti sociali» possono aiutare l’uomo «a vivere momenti di riflessione e di autentica domanda» e anche «a trovare spazi di silenzio, occasioni di preghiera, meditazione o condivisione della Parola di Dio». «Nella essenzialità di brevi messaggi – aggiunge – si possono esprimere pensieri profondi se ciascuno non trascura di coltivare la propria interiorità». Scrive papa Ratzinger: «Gran parte della dinamica attuale della comunicazione è orientata da domande alla ricerca di risposte. I motori di ricerca e le reti sociali sono il punto di partenza della comunicazione per molte persone che cercano consigli, suggerimenti, informazioni, risposte. Ai nostri giorni, la rete sta diventando sempre di più il luogo delle domande e delle risposte».
Complessità del mondo globale
Il direttore di «Civiltà Cattolica», padre Antonio Spadaro, grande esperto di nuovi media, scrive: «Parola e silenzio si integrano e non si oppongono. Il messaggio del papa scardina l’opposizione tra silenzio e parola, che ha la sua verità, ma solamente in casi estremi. Si deve sperare che da oggi in poi non si debba più assistere ad elogi del silenzio in sé e per sé, al di fuori di un tessuto comunicativo.
Chi prega sta in silenzio, ma in realtà non è di per sé vero. Chi prega elabora un linguaggio di comunicazione con Dio ed è proprio per elaborare questa parola, questo discorso, che tace esteriormente».
E oggi, nella realtà delle mille voci dissonanti e polifoniche, che sono una ricchezza, ma anche un indicatore della complessità del mondo globale, è necessario fare sintesi, pensiero, approfondimento.
Dare strumenti per comprendere e utilizzare la comunicazione, interpretarla e condurre le coscienze mature a un processo di dialogo e confronto, nel rispetto delle differenze delle fedi, delle culture e delle tradizioni che fanno dell’umanità un tesoro da salvare, per costruire un futuro sulle vie della pace e della frateità.
Parlare dell’evangelizzazione come luogo di comunicazione, è dire della relazione tra fede e comunicazione. Questo tocca tre aspetti dell’evangelizzazione: l’azione missionaria, la catechesi e la pastorale. La comunicazione ha un compito preciso in tutti gli aspetti della missione della chiesa, deve essere parte integrante di ogni piano pastorale e per questa ragione è necessaria la formazione di responsabili pastorali. Inoltre è fondamentale che i cristiani siano educati a selezionare l’informazione e a sviluppare lo spirito critico.
Nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975 di Paolo VI, evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della chiesa, la sua identità più profonda. Quest’ultima esiste per evangelizzare, cioè per predicare e insegnare, essere canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio, perpetuare il sacrificio di Cristo. In un primo tempo l’evangelizzazione si caratterizza nell’azione missionaria, cioè la missione «Ad gentes». La chiesa considera che la ricchezza della «buona notizia», ricevuta dalla bontà divina, è accolta per essere comunicata a tutti gli uomini. Perciò, nella pre-evangelizzazione, si tratta di stabilire degli obiettivi capaci di essere assimilati e condivisi da tutti gli uomini di buona volontà: il valore assoluto della persona umana, la difesa della vita, il valore della famiglia, il primato della verità, la possibilità di dare un senso alla vita.
la buona novella
Il linguaggio usato per l’annuncio della Buona Novella, deve essere comprensibile a chi riceve il messaggio di salvezza. Ciò richiede un processo di inculturazione inerente alla radicalità della fede, applicato soprattutto alla realtà linguistica e culturale del popolo. Nell’Ecclesia in Africa, vi è menzionato che le forme tradizionali di comunicazione sociale non debbano mai essere trascurate, perché sono ancora molto utili ed efficaci in molti centri africani. Come veicolo di saggezza e di espressione popolare, costituiscono una sorgente speciale di temi e ispirazioni per i tempi modei. La chiesa contemporanea può dunque disporre di diversi mezzi di comunicazione sociale, tanto tradizionali che modei. È suo dovere fae il miglior uso per diffondere il messaggio della salvezza.
Parlare della «comunicazione evangelizzatrice», è pure parlare dell’azione catechetica. La catechesi costituisce un momento efficace all’interno di un procedimento globale dell’evangelizzazione. Segue l’azione missionaria e precede l’azione pastorale. È l’azione «per la quale un gruppo umano interpreta la sua situazione, la vive e l’esprime alla luce del Vangelo».
Naturalmente la catechesi è comunicazione educativa e annuncio di fede, ed è, in questo senso, informazione, sulle dottrine, sulle riflessioni, sulle convinzioni. La fede rimane un «dono» di Dio e una libera adesione dell’uomo. Il documento del magistero Catechesi tradendae pone l’accento sull’importanza della comunicazione sociale e del linguaggio contemporaneo nella catechesi, nella quale devono essere orientati al dialogo, alla condivisione, alla conoscenza e all’accettazione reciproca delle diversità.
Parlare dell’azione evangelizzatrice come luogo di comunicazione è parlare della stessa azione pastorale. L’azione pastorale si riferisce a coloro che hanno l’incarico di guidare il gregge di Dio; ha per scopo l’incarnazione del Vangelo nelle condizioni di vita delle persone e si basa sul servizio della parola, la celebrazione liturgica dei sacramenti, sull’azione di carità e l’impegno sociale.
Nell’azione pastorale, la comunicazione invade tutti i settori dell’attività umana. La pastorale si occupa di un’insieme di azioni che necessitano una cornordinazione e una complementarietà, che sono possibili solamente grazie al dinamismo di comunicazione all’interno stesso della chiesa.
Tracce del Vaticano II
È a questo punto che, nell’anno del cinquantesimo anniversario dell’inizio del Vaticano II, è doveroso dare voce nella chiesa a quell’afflato di profezia che sembra smarrito. Che fine ha fatto la chiesa coraggiosa e aperta, di cui il Concilio aveva tracciato il profilo? Si è chiesto padre Bartolomeo Sorge, sulla rivista «Aggioamenti Sociali». E anche noi, oggi, dobbiamo porci lo stesso interrogativo. Le risposte manifestano più delusione e preoccupazione che fiducia e speranza. La chiesa – si dice – oggi non guarda più al futuro, ma al passato. E si citano l’involuzione in atto nei confronti della riforma liturgica; l’impasse del movimento ecumenico; l’insistenza sui «valori non negoziabili» che ostacola il dialogo; gli interventi della gerarchia che condizionano l’autonomia dei laici in politica. In realtà, non ci si può fermare a questi (e altri) casi, per quanto significativi. Un’indicazione di riflessione la fornisce Carlo Maria Martini in «Conversazioni nottue a Gerusalemme. Sul rischio della fede». Con la «parresia» evangelica che lo contraddistingue, il cardinale inizia rilevando che oggi «vi è un’indubbia tendenza a prendere le distanze dal Concilio. Il coraggio e le forze non sono più grandi come a quell’epoca e subito dopo». Come mai? «È indubbio – riconosce – che nel primo periodo di apertura alcuni valori sono stati buttati a mare. La chiesa si è dunque indebolita»; pertanto non devono sorprendere le paure e le resistenze di molti: «Posso ben comprendere le loro preoccupazioni se solo penso a quanti in questo periodo hanno abbandonato il sacerdozio, a come la chiesa sia frequentata da un numero sempre minore di fedeli e a come nella società e anche nella chiesa sia emersa una sconsiderata libertà». Tuttavia, i limiti del post Concilio non tolgono nulla alla grandezza dell’evento conciliare. «Nonostante tutto – conclude Martini – dobbiamo guardare avanti. […] credo nella prospettiva lungimirante e nell’efficacia del Concilio». La comunicazione della fede va riassunta in tre prospettive: 1. la necessità per i cristiani di «pensare in modo aperto»; 2. il bisogno che la chiesa ha di riscoprire il ruolo dei giovani; 3. l’urgenza di costruire una nuova «cultura della relazione».

Luca Rolandi

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Le comunicazioni e la chiesa
DAL CINEMA A FACEBOOK

Il 30 gennaio 1948 viene istituita da Pio XII la «Pontificia commissione di consulenza e di revisione ecclesiastica dei film a soggetto religioso o morale» e il 17 settembre dello stesso anno sono approvati il nuovo statuto e il nome di «Pontificia commissione per la cinematografia didattica e religiosa». Per essere più adatta alle esigenze dei nuovi mezzi di comunicazione, allora emergenti nel 1952, è di nuovo modificato lo statuto e la denominazione in «Pontificia commissione per la cinematografia» e vengono nominati numerosi esperti.
Lo sviluppo e il miglioramento di questo organismo continuò e nel 1954 il nome della commissione venne nuovamente mutato in «Pontificia commissione per la cinematografia, la radio e la televisione». L’8 settembre 1957 Pio XII promulga l’enciclica Miranda Prorsus sulle comunicazioni mentre il 17 febbraio 1958 dichiara santa Chiara d’Assisi «celeste patrona» della televisione e delle telecomunicazioni.
Nel 1959 Giovanni XXIII erige la Filmoteca Vaticana che viene affidata alla commissione. Soprattutto con il Concilio Vaticano II, che apre le porte e le finestre della chiesa al mondo, la comunicazione diventa elemento essenziale nella testimonianza e nell’evangelizzazione dei popoli. Per la prima volta in duemila anni, osservatori estei professionisti chiamati «giornalisti» sono ammessi a documentare e raccontare lo svolgimento dei lavori di un’assise così importante e influente sui destini dell’intera comunità cattolica mondiale. Del Vaticano II abbiamo riprese televisive, registrazioni audio, migliaia di fotografie e un numero sterminato di articoli che, spesso con dettagliata precisione, danno conto di dibattiti e polemiche intee che in passato sarebbero rimaste completamente segrete o, tutt’al più, sarebbero state oggetto di ricerca e analisi per gli storici, anni dopo la conclusione dell’evento. Per fare un paragone: del Concilio immediatamente precedente, il Vaticano I, abbiamo soltanto qualche dipinto e alcuni, spesso reticenti, resoconti. E nel Vaticano II viene soprattutto promulgato un documento, il decreto sui mezzi di comunicazione sociale il 4 dicembre 1963, la Inter Mirifica.
Durante il Concilio Vaticano II, Paolo VI con il motu proprio «In fructibus Multis» del 2 aprile 1964 cambia la denominazione del dicastero in «Pontificia commissione per le comunicazioni sociali» e affida a essa tutto quello che concee la comunicazione. A partire dal 1967 viene istituita da Paolo VI la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che da quella data si ripete a cadenza annuale. Con la costituzione apostolica Pastor Bonus del 1988 il dicastero viene elevato al grado di pontificio consiglio da Giovanni Paolo II. Il 20 maggio 2012 si celebra la 46esima giornata mondiale delle comunicazioni sociali sul tema «Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione».

Luca Rolandi

Luca Rolandi