Il folle dell’Africa centrale

Sulle tracce di Joseph Kony

C’è qualcuno che neppure i satelliti della Cia riescono a scovare. È ricercato dalla Cpi. Ma riesce sempre a farla franca.
Si nasconde in Uganda, Sudan, Congo, Centrafrica. Joseph Kony pare inarrestabile. Da oltre vent’anni imperversa col suo folle esercito nel cuore dell’Africa, senza che nessuno riesca a fermarlo. A dispetto dei video propagandistici di sedicenti Ong Usa.

Lo ricordate? Il «pazzo visionario» fondatore del Lord’s Resistence Army, l’Esercito di Resistenza del Signore (Lra), che nei territori acholi del Nord dell’Uganda per vent’anni ha seminato il panico, soprattutto a causa dei rapimenti di bambini che venivano forzati ad arruolarsi e trasformati in belve sanguinarie. E delle bambine usate come schiave, anche sessuali.
Il proposito iniziale era quello di trasformare l’Uganda in una teocrazia basata sui dieci comandamenti, con uno strano mix di fondamentalismo cristiano vetero-testamentarista, nazionalismo acholi e misticismo tradizionale: da sempre, Kony dice di essere in contatto diretto con Dio, di parlare con gli spiriti, di ricevere istruzioni direttamente dallo Spirito Santo, di aver il dono delle lingue, della telepatia e di chissà quanto altro. Attoo a sé ha creato un’aura di paura e venerazione e ai suoi seguaci / soldati impartisce strette regole rituali, come quella di farsi il segno della croce prima di combattere, per evitare di essere uccisi, o di disegnare una croce sul petto e sul fucile con olio benedetto, segno della potenza dello Spirito Santo.
Per giustificare la follia omicida e la crudeltà delle azioni imposte ai suoi, asseriva che il popolo acholi andava purificato e continuava a fare un distorto riferimento alle Scritture. Di fatto, Joseph Kony è accusato di aver rapito tra i 60 e i 100 mila bambini e di aver causato due milioni di sfollati interni dal 1986.

Gli anni più recenti
Dopo una prima fase in cui le sue azioni erano state sostenute dal Sudan in funzione anti-Museveni (il presidente ugandese era infatti accusato di appoggiare i ribelli sud sudanesi), nel 2002 l’Lra è stato cacciato dalle forze ugandesi e si è spostato oltre confine, prima in Sud Sudan, poi in Repubblica Democratica del Congo, continuando le sue scorribande. Per tutto questo, il 6 ottobre 2005 la Corte Penale Internazionale dell’Aja (Cpi) ha spiccato un mandato di cattura per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in Uganda tra il 2002 e il 2004 nei confronti suoi e di altri quattro leader del movimento: il suo vice Vincent Otti e i comandanti Dominic Ongwen e Okot Odhiambo, oltre a Raska Lukwiya (ucciso dall’esercito ugandese il 12 agosto 2006).
Nel 2008, erano state avviate delle trattative per giungere a un accordo di pace con il governo ugandese, ma all’ultimo momento Kony si è tirato indietro, dopo aver posto come condizione (ovviamente irricevibile) il ritiro di tutte le accuse a suo carico presso la Corte Penale Internazionale. Era stato proprio all’inizio delle trattative che per la prima volta dopo tempo immemorabile Kony aveva rotto il silenzio e rilasciato un’intervista in video, dal suo nascondiglio nelle foreste del Congo nordoccidentale. Circondato da alcuni dei suoi uomini pesantemente armati, aveva ripetuto di non essere il mostro che tutti pensavano: «Mi lasci dire chiaramente cosa accadeva in Uganda – dichiarò nell’intervista –. Museveni andava nei villaggi e tagliava le orecchie alla gente, dicendo loro che era opera dell’Lra. Io non posso tagliare le orecchie di mio fratello, io non posso strappare l’occhio di mio fratello». È stato durante le trattative che è morto Vincent Otti, braccio destro di Kony, che sembrava voler portare a termine il processo di pace: secondo molti, fu ucciso proprio per questo, su ordine di Kony.
Dopo la fine delle trattative, l’Lra ha portato a termine una delle ultime «azioni» su larga scala, il massacro del giorno di Natale del 2008. In quel giorno e nelle tre settimane seguenti, Kony e i suoi hanno colpito a morte oltre 800 persone e rapite altre centinaia nel Congo nordorientale e in Sud Sudan.

L’Lra oggi
Oggi i ribelli continuano a imperversare nella zona al confine tra il Sud-Est della Repubblica Centrafricana (Rca) e il Nord-Est della Rd Congo, nel distretto dell’Haut-Uélé (provincia dell’Ituri), vivendo in luoghi semidisabitati da cui di volta in volta partono per assalire i villaggi, depredando, uccidendo e continuando a rapire civili. Negli ultimi rapporti dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, si parla di due morti e tredici rapiti in attacchi portati avanti tra il 6 e il 25 marzo scorsi nel territorio di Dungu (Rdc), altri a Bondo, alla frontiera con la Rca, nel cui territorio sono state uccise quattro persone e rapite altre 31, nel corso di otto attacchi alle città di Zemio e Mbocki. A Obo, da ottobre sono presenti truppe statunitensi a sostegno di quelle centrafricane e ugandesi.
Una delle ultime denunce viene da Human Rights Watch (Hrw): secondo l’Ong, il Lord’s Resistance Army dall’inizio del 2012 ha intensificato gli attacchi in Repubblica Centrafricana, mettendo in seria pericolo i civili delle aree colpite. Gli attacchi continuano anche nel Congo democratico. Hrw parla di oltre 400 mila sfollati, di cui almeno 2 mila solo in questo inizio del 2012, che vivono tutti nel terrore del prossimo attacco. Tra gennaio e marzo, l’Ong conta almeno 53 nuovi attacchi tra i due paesi, con il sequestro di 90 civili e l’uccisione di nove. Secondo la ricercatrice di Hrw Anneke Van Woudenberg, «l’aumento degli attacchi dell’Lra dimostra che il gruppo ribelle non è una forza esaurita e rimane una seria minaccia per i civili. L’Unione Africana, le Nazioni Unite e i governi della regione dovrebbero intraprendere passi urgenti per implementare le misure di protezione dei civili e metterci la reale volontà di renderle operative».

Voci dal terreno
Hrw ha compiuto una missione sul campo tra marzo e aprile 2012, intervistando 23 tra vittime e testimoni degli attacchi, oltre ai leader locali, alla società civile e ai rappresentanti delle autorità centrafricane. «Era il 27 febbraio – raccontano ad esempio due sorelle di 43 e 62 anni di Agoumar –, eravamo andate a pescare e tre miliziani ci hanno rapite. Ci hanno obbligate a trasportare miele, arachidi e pesanti sacchi di farina appena saccheggiati lì vicino. Abbiamo camminato tre giorni e tre notti senza fermarci. Ci hanno picchiate selvaggiamente e quando mia sorella si è seriamente ammalata, dopo la terza notte, hanno deciso di lasciarci andare. Ma i nostri fratelli e nipoti, rapiti lo stesso giorno, ancora mancano all’appello e temiamo possano esser stati uccisi».
Nell’area attorno a Ngouyo, villaggio a 30 km a sud di Djema, l’Lra ha portato 12 attacchi in due anni, tra cui due nel dicembre 2011 e tre nel marzo 2012. Ma a Ngouyo sono di stanza solo due soldati delle forze armate centrafricane, a cui, dopo gli attacchi di dicembre, l’esercito ugandese ha aggiungo altri suoi militari: gli abitanti temono però che se ne vadano presto, lasciandoli alla mercé di Kony.
«Per noi è molto difficile coltivare i campi e ora la gente soffre la fame – dice un leader locale -. Da quando sono iniziati gli attacchi, andiamo nei campi solo in gruppo e solo a quelli che si trovano a meno di 5 km dal villaggio. Ma dopo gli attacchi di marzo, nessuno si è più azzardato a lasciare il villaggio». A Ngouyo non c’è rete telefonica o comunicazione radio, così la gente non ha modo di avvertire degli attacchi. L’8 marzo, miliziani dell’Lra hanno attaccato un gruppo di sette persone che erano andate a pescare al fiume Ouara, a 15 km dal villaggio. «Hanno detto a mio figlio di 29 anni di sdraiarsi a terra – racconta un’anziana – e gli hanno legato le mani dietro la schiena. Hanno saccheggiato tutti i nostri averi e se ne sono andati portandolo con sé. Quando ho gridato per protestare, mi hanno ferita al braccio con una baionetta».
Un’altra testimonianza interessante e inquietante, raccolta da Irin News, viene invece da Limayi, Rdc: un uomo, rapito e poi rilasciato, ha raccontato che i miliziani di Kony avrebbero ora divise e fucili nuovi. E le divise sono quelle delle Fardc, le forze armate regolari congolesi.

Ma Kony dov’è ?
L’esercito ugandese sospetta che Joseph Kony si nasconda nella regione sudanese del Darfur, con 100 – 150 tra combattenti, membri della famiglia e bimbi e adulti rapiti. Sempre secondo le autorità ugandesi, Dominic Ongwen e Okot Odhiambo si nasconderebbero nelle foreste inaccessibili attorno ai fiumi Vovodo e Chinko in Centrafrica, con un centinaio di ribelli divisi in piccoli gruppi ed un numero imprecisato di sequestrati. Il colonnello Binansio Okumu (noto come Binany) e un altro comandante dell’Lra conosciuto col nome di Obol si pensa possano nascondersi in Congo, nei pressi del Parco Nazionale di Garamba, dove prima era stanziato l’Lra. Questi comandanti sono i responsabili del massacro di Makombo del Natale 2009, che causò 345 civili uccisi e oltre 250 rapiti.
Tuttavia, secondo gli Stati Uniti, Kony si troverebbe in Centrafrica. Sta di fatto che negli ultimi mesi l’Lra ha operato soprattutto in piccoli gruppi. Chi riesce a scappare racconta che Kony e gli altri leader hanno probabilmente dato istruzioni ai ribelli di limitarsi a saccheggiare quando finiscono le provviste, ma di evitare massacri su larga scala per tenere la loro posizione nascosta alle forze armate che danno loro la caccia.
In questa regione del Centrafrica operano altri gruppi armati e banditi, che aumentano l’insicurezza e a volte rendono difficile per i locali identificare chi li sta attaccando. Ad esempio, dall’inizio del 2012, il Front Populaire Pour le Redressement, Fpr, un gruppo ribelle del Ciad guidato da Baba Laddé e precedentemente di stanza nel Nord della Rca, secondo le autorità locali si sarebbe spostato a Sud, verso le zone in cui si muove anche l’Lra.
Poche tuttavia le misure per proteggere i civili: solamente un centinaio di soldati centrafricani sono dispiegati nella vasta regione orientale, in molte città ci sono solo da due a cinque soldati mal equipaggiati e con scarsi mezzi di comunicazione e di trasporto, mentre altri villaggi e città non hanno affatto soldati.
A questi si aggiungono 600 – 800 unità dispiegate in Centrafrica dall’esercito ugandese, come parte delle operazioni congiunte contro l’Lra, ma poche si trovano nelle aree abitate per proteggere i civili e sono piuttosto concentrate sulla cattura dei capi del gruppo ribelle.

Il ruolo degli Usa
Dopo l’11 settembre, Washington ha incluso l’Lra tra le organizzazioni terroristiche straniere. Il 28 agosto 2008, Kony è stato incluso nella lista dei terroristi più pericolosi del mondo. Già George W. Bush, nel novembre 2008, aveva personalmente deciso il sostegno finanziario e logistico, con l’invio di diciassette analisti militari per sostenere l’esercito ugandese nella caccia al criminale.
Meno visibile e a ranghi ridotti, l’Lra non ha però smesso di essere pericoloso. E così, nell’ottobre 2011, Barack Obama ha aumentato a 100 le truppe inviate in supporto alle operazioni: stavolta si tratta di forze equipaggiate per combattere, anche se autorizzate a farlo «solo in caso di autodifesa». A ciò va aggiunto l’invio di un Us C-12, un aereo da ricognizione che aiuta nella raccolta dati e nelle operazioni di intelligence.
In Centrafrica, i consiglieri Usa sono di stanza a Djema e Obo: ciò ha aiutato a migliorare le relazioni tra civili e militari, il cornordinamento tra gli eserciti dei vari paesi e la condotta dei soldati ugandesi, che in precedenza erano stati accusati di ubriachezza molesta e di alcuni casi di violenza sessuale. Tuttavia, il Dipartimento di Stato americano ha negato l’autorizzazione ai suoi di muoversi fuori dalle città dove sono distaccati.
Le Nazioni Unite hanno una missione di peacebuilding in Centrafrica, chiamata Binuca, che a dicembre ha ricevuto mandato dal Consiglio di Sicurezza di far rapporto sugli attacchi dell’Lra e di supportare il disarmo dei combattenti. Ma da allora, ancora nessuno del personale della Binuca è stato stanziato nelle zone affette dall’Lra.
In marzo, l’Unione Africana ha annunciato una iniziativa di cooperazione regionale per implementare gli sforzi per combattere Kony, incluso il dispiegamento di 5 mila membri della task force regionale con soldati ugandesi, congolesi, centrafricani e sud sudanesi, la maggior parte dei quali sono già dispiegati nella regione. L’Unione Europea e altri finanziatori si sono detti disposti a sostenere l’iniziativa. Ma non è ancora chiaro se le forze militari che stanno conducendo ora le operazioni contro l’Lra passeranno il testimone a una nuova struttura di comando o se invece hanno la capacità di dispiegare le truppe necessarie per proteggere adeguatamente i civili.
Due operazioni militari – Iron Fist nel 2002 e Lightning Thunder nel 2008 – erano già state condotte congiuntamente tra Congo, Sudan e Uganda, ma senza esito alcuno. Tensioni tra gli eserciti congolese e ugandese avevano ostacolato le operazioni e, alla fine del 2011, prima delle elezioni congolesi, il governo della Rdc aveva ordinato ai soldati ugandesi di lasciare il Congo e non hanno ancora avuto il permesso di tornare.
Il 23 aprile scorso, forse anche sull’onda del grande e discusso successo del video «Kony 2012» che ha imperversato in rete, il presidente Usa Barack Obama ha annunciato che i consiglieri militari americani proseguiranno la loro missione in Africa centrale per aiutare nella caccia a Kony: «I nostri uomini continueranno gli sforzi per trascinare Kony davanti alla giustizia e salvare delle vite» ha dichiarato il presidente in un discorso tenuto al museo del memoriale dell’olocausto a Washington. «Ciò fa parte della nostra strategia regionale per mettere fine al flagello rappresentato dall’Lra e per aiutare a costruire un futuro nel quale nessun bambino africano sarà più sottratto alla sua famiglia, nessuna bambina violentata, nessun ragazzo trasformato in soldato».

Giusy Baioni


Giusy Baioni




L’ombra dei Ton Ton Macoute

Tra corruzione, paramilitari e assenza del governo

«Sono stati fatti dei passi avanti, ma siamo preoccupati perché ci sono molti segni di ante 1986». Suzy Castor, storica, politica e attivista dei diritti umani, ricorda l’anno in cui fu rovesciato Duvalier, ma non sconfitto il duvalierismo.
«La transizione è lunga (dalla dittatura alla democrazia, ndr.), ma le conquiste democratiche, pur essendo solide, non sono irreversibili. Affinché lo siano occorrerebbero istituzioni forti, partiti politici forti e società civile forte». Nulla di questo è una realtà nell’Haiti di oggi, dove si assiste invece a «una de-istituzionalizzazione del paese» ricorda Castor.
Si riferisce, tra l’altro, a un fenomeno allarmante apparso a inizio 2012: la nascita di un sedicente movimento degli ex militari delle Forze Armate d’Haiti (Fadh), smantellate dal presidente Aristide all’inizio del 1995.
Negli ultimi mesi uomini in uniforme, armati e foiti di camionette hanno occupato edifici pubblici e strutture della polizia. A partire dalla loro base principale a Carrefour, comune nei pressi di Port-au-Prince, si sono poi mostrati in diverse località del paese. Il 17 aprile hanno fatto irruzione nel cortile della Camera dei deputati, dove una sessione era in corso, con lo scopo – sostenevano – di presentare le loro rimostranze per la rifondazione dell’esercito. Il presidente della camera, Lévaillant Louis Jeaune, ha subito sospeso i lavori.
Di fatto, molti di questi uomini sono giovani e non possono quindi essere ex militari. Si tratta di una forza paramilitare, di miliziani che non sono per nulla, o quasi, ostacolati dalle istituzioni.
«L’esercito è contemplato dalla Costituzione – ricorda Suzy Castor – e gli ex militari hanno sempre cercato di ricrearlo. Oggi il clima è loro favorevole, in quanto il presidente Martelly ha fatto della rifondazione delle Fadh uno dei suoi punti del programma di governo».
L’intervento in parlamento è stato condannato ufficialmente dal portavoce della presidenza e dal governo, ma di fatto poche azioni sono state intraprese.

Ma dove sono finiti i fondi governativi per la ricostruzione? «Credo che la ricostruzione sia partita male dall’inizio; l’organismo creato a tal fine non era adeguato». Il regista Aold Antonin parla della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti, il cui mandato è cessato il 15 ottobre scorso e non è stato rinnovato. «Occorreva togliere la ricostruzione dall’influenza delle lotte di potere haitiane e dal clientelismo. Doveva essere un organismo nazionale, non straniero. Ma soprattutto fare contratti da 10 milioni di dollari senza gara d’appalto è stata una enorme fonte di corruzione».
Degli 11 miliardi promessi dai donatori ufficiali, ne sono stati versati 3,5. Poi tutto è stato bloccato. Nessun impatto si è visto, nessuna pianificazione generale, «nessun piano di sistemazione del territorio – continua Antonin – o di intervento nelle altre città per decentrare i servizi».
Riassume in modo sintetico padre William Smarth, 81 anni e colonna morale del paese: «Grande delusione: no ricostruzione, no decentramento, no lavoro. Si continua ad attirare gente in capitale».

Intanto la politica haitiana è di nuovo bloccata. Il presidente–cantante Michel Martelly è riuscito a ottenere le dimissioni del suo primo ministro Garry Conille il 27 febbraio scorso. Conille spingeva affinché si risolvesse la questione della nazionalità del presidente (la Costituzione haitiana prevede che non possa avee altre, mentre Martelly è sotto inchiesta per sospetto di avere nazionalità statunitense e italiana). Soprattutto aveva creato una commissione di verifica per i lavori da 300 milioni di dollari per la ricostruzione che sotto l’amministrazione congiunta Bellerive (precedente premier) – Martelly erano «scomparsi» nella Repubblica Dominicana.
Il nuovo primo ministro designato, Laurent Lamothe, uomo d’affari e attuale ministro degli esteri, è (al momento in cui si scrive) nel processo di ratificazione in parlamento.
Il blocco degli aiuti governativi (da notare che si tratta di un canale diverso da quelli raccolti nei vari paesi del mondo e poi utilizzati da missionari ed Ong) è quindi in gran parte dovuta all’incertezza politica che regna nel paese, alla mancanza di un organismo di gestione e controllo e, non ultimo, all’attuale assenza di un governo con pieni poteri.

Marco Bello

Marco Bello




Ricostruire la comunità

Piccola storia di riscatto dal basso

Mentre un piano globale per la ricostruzione non esiste, piccole realtà locali, legate alla solidarietà, riescono a produrre cambiamento. È il caso della fondazione haitiana promossa da un missionario scalabriniano veneto. Siamo andati a trovarlo.

L’arrivo a Port-au-Prince è sempre qualcosa di emozionante e affascinante. Forse già per il nome, ma sicuramente per la storia straordinaria e terribile di questa città. E infine, per gli eventi degli ultimi anni, dal terremoto del 12 gennaio 2010 in poi. Qualcuno la voleva rasa al suolo e i suoi abitanti irrimediabilmente persi, ed è questo che i mass media del mondo intero ci hanno presentato. E invece no. Port-au-Prince, o meglio il suo popolo, resiste, sopravvive, brulica di attività di ogni genere. Dal piccolo commercio al traffico di stupefacenti, dalla costruzione di case, alla composizione di splendide poesie, alla scultura di simboli vudù sulla latta raddrizzata dei bidoni di benzina.
Una vita sempre «border line», come se tutto dovesse crollare da un momento all’altro, come se la tensione sociale dovesse far scoccare la scintilla di disordini incontenibili. Come se la terra dovesse tremare ancora.
La realtà quotidiana è il traffico caotico e incontrollato, contro il quale lottano i suoi abitanti, inventandosi scorciatornie e orari improbabili per andare e tornare dal lavoro.
La città è così ben descritta dalla corrente letteraria del «realismo meraviglioso» fondata dagli haitiani Jaques Romain e Jaques Stephen Alexis: il meraviglioso, il fantastico, qui diventa realistico, vero, cioè accade.
La cronaca di oggi ci riporta un aumento di banditismo cittadino, attacchi e uccisioni a scopo di rapina. In questo periodo è di moda l’assalto a mano armata con la motocicletta. Qualche mese fa andavano di più i rapimenti a scopo di estorsione.

Spostare i disperati
A Port-au-Prince si lavora un po’ ovunque per rimuovere le macerie con camion e ruspe e il panorama cittadino è molto cambiato negli ultimi dodici mesi. Chi ha potuto ha iniziato a ricostruire con i propri mezzi la casa crollata. Altri si sono accontentati delle costruzioni «temporanee» distribuite dalle Ong umanitarie. Ma non esiste una pianificazione complessiva.
Negli ultimi tempi le tendopoli (o «campi», come li chiamano qui) che occupavano le principali piazze e aree libere della città, a partire dalla zona dell’aeroporto internazionale per arrivare alle belle Place Saint Pierre e Place Boyer di Pétion-ville, sono state sgomberate, tornando alla quasi «normalità» precedente al terremoto.
Salendo per la strada Canapé Vert per Pétion-ville sulle pendici scoscese delle montagne che sovrastano la città, sono sempre più evidenti nuovi quartieri di semplici casette arroccate una sull’altra. Sembra quasi che aumentino, occupando i pendii verso l’alto, di giorno in giorno, in una zona totalmente esposta agli smottamenti causati dalle delle frequenti alluvioni.
Ma il grande sbocco dei disperati che hanno perso tutto durante il terremoto e che ora sono sloggiati dalle piazze e dai campi di calcio cittadini è la Plaine du cul de sac. È in questa pianura ricca d’acqua, al lato Nord della capitale, nella forbice tra la strada nazionale n. 1 verso Gonaives e la n. 3 verso Hince, che la città si sta espandendo. Nel Sud non è possibile, il comune di Carrefour è già congestionato, a Est ci sono le montagne e a Ovest il mare. A partire dal disegno politico di creare la più grande tendopoli, il Camp Corail (campo Corallo), prevista inizialmente per 9.000 persone, ora in questa vasta zona si sono «accampati» con rifugi di vario tipo e privi quasi di servizi, oltre 47.000 sfollati.
È qui, al limite del comune di Croix-de-Bouquets, che incontriamo un’interessante esperienza di reale ricostruzione dal basso.
In questi luoghi a metà degli anni Novanta padre Giuseppe Durante, della congregazione degli Scalabriniani, era stato inviato per aprire una nuova missione. Padre Giuseppe, originario di Montebelluna (Tv) veniva da esperienze di lavoro negli Usa, in Messico e poi con gli immigrati haitiani in Repubblica Dominicana.
Nella zona chiamata «Santo», padre Giuseppe aveva costruito un primo seminario per gli scalabriniani. Ad esso aveva, negli anni, aggiunto una clinica e una scuola per il quartiere.
«Subito dopo il terremoto – racconta padre Giuseppe – il nostro seminario era diventato il punto di riferimento per la gente dell’area. Con alcune persone sensibili abbiamo creato un comitato di quartiere e iniziato la distribuzione di acqua tramite autocistee. Poi abbiamo distribuito degli aiuti arrivati dagli Usa e dalla Regione Lombardia. Anche il Pam (Programma alimentare mondiale) ci ha dato dei viveri e abbiamo organizzato un magazzino. Gli alimenti in parte erano rubati all’arrivo ed era anche pericoloso distribuire quelli che restavano: si diventava obiettivo di assalti. In questo ci hanno aiutato dei gruppi giovanili, come il Kiro, presente in quasi tutte le parrocchie».
Il missionario inossidabile, con gli occhiali perennemente appannati, sembra non essere cambiato negli ultimi quindici anni.
Le attività di prima emergenza sono durate circa tre mesi, i campi da calcio del centro degli scalabriniani erano diventati delle tendopoli. Poi il parroco di Croix-de-bouquets e due laici sono andati a parlare con padre Giuseppe per proporre un’iniziativa più sul lungo periodo.
«Abbiamo pensato di creare una fondazione di diritto haitiano».
È nata così la Fondation haitienne pour le relèvement et le développement (Fhrd, Fondazione haitiana per il cambiamento e lo sviluppo) la cui missione è lo sviluppo del quartiere. Erano passati quattro mesi dal sisma. Oggi la fondazione ha un comitato di amministrazione di nove persone, tutte haitiane tranne padre Giuseppe, che ne rimane presidente, anche se preferirebbe prendee un po’ le distanze. «Come scalabriniani abbiamo sempre appoggiato la fondazione e, in un certo senso, siamo un po’ garanti dell’uso dei fondi che arrivano per le attività».

Una casa vera
La fondazione si è concentrata subito sul bisogno primario: la casa. «Volevamo aiutare la gente a rifarsi un’abitazione decente», non le baracche in compensato o plastica distribuite dalle Ong inteazionali e pagate quanto le case permanenti, che sono ormai parte dell’habitat haitiano delle zone terremotate. Un business questo che, con i soldi degli aiuti, ha favorito fabbricanti statunitensi, importatori dominicani e costruttori troppo spesso stranieri ad Haiti.
«Abbiamo realizzato dei prototipi di casette in blocchi di cemento e cemento armato, antisismiche, coperte di lamiera». Visitiamo le costruzioni non lontano dalla missione: una sala con angolo cucina, due camere decenti, un bagno: quanto basta per un’abitazione dignitosa per una famiglia. Con un primo aiuto di Caritas Italiana, Croce rossa e alcuni volontari italiani esperti in costruzioni, la fondazione ha realizzato il primo «villaggio» di 18 casette recintate da un muro di protezione: il «villaggio Colombe», inaugurato il 29 novembre 2011.
«È stato il primo quartiere permanente costruito a Port-au-Prince e ha suscitato molto interesse». Continua padre Giuseppe. «Inizialmente è stato difficile avere dei fondi, ma quando i finanziatori hanno constatato che siamo in grado di realizzare quanto promesso, si sono presentati in molti».

Cooperativa di inquilini
La novità, oltre alla costruzione semplice ma funzionale e accogliente, è il concetto di «comunità integrale» che la Fondazione vuole realizzare. «La Fondazione è responsabile della costruzione e della gestione del villaggio. Le famiglie beneficiarie, scelte su una lista di coloro che, nella zona, hanno perso tutto e sono più bisognose, si costituiscono in cornoperativa di residenti. La cornoperativa elegge tra i membri un responsabile di villaggio. Per Colombe è una signorina molto in gamba. La Fondazione nomina una persona che si occupa di quel villaggio. Le due figure collaborano per dirimere i conflitti e rispondere alle necessità che possono sorgere. Sono responsabili di quello che succede. Abbiamo sperimentato che con questo sistema c’è molta partecipazione».
Le case poi, se tutto funziona, sono riscattate dagli inquilini: «Un’abitazione ci costa circa 10.000 dollari (7.700 euro, ndr.) escluso il costo della terra: ottimo prezzo per Haiti». La Fondazione produce i propri blocchi di cemento (è questo il mattone di base usato sull’isola) e può contare, in parte, su lavoro volontario. «Ogni famiglia paga un “affitto” di 400 dollari all’anno e in 10 anni la casa diventa di sua proprietà». Un contratto è stipulato tra gli inquilini e la Fondazione, con il quale i primi accettano anche le regole per abitare nel villaggio, una sorta di regolamento condominiale. «La terra, invece resta della Fondazione, perché vogliamo avere sempre la possibilità di un certo controllo su quanto succede nel villaggio. Altrimenti il rischio è che costruiscano altre strutture in modo disordinato o vendano la casa. Se vogliono uscire dal progetto la Fondazione rifonde quanto hanno pagato fino a quel momento. È una garanzia della durata, ovvero che le case non siano vendute, saccheggiate, danneggiate». Il villaggio ha acqua corrente potabile (il che è un lusso a Port-au-Prince) ed elettricità. Gli inquilini devono essere in grado di pagare i consumi. 
«Abbiamo una lista con centinaia di domande» ricorda il missionario. E i finanziatori, visto il successo del villaggio Colombe, si sono fatti avanti.
Un secondo villaggio di 28 case è in costruzione, mentre sono previsti altri due villaggi di 70 e 80 abitazioni. «Anche la Croce rossa italiana ha chiesto alla Fondazione di costruire il proprio villaggio di 200 case!». E qui si pone un problema: perché si rischia di superare le forze della Fhrd per soddisfare tutte le richieste. E questo ha aperto una riflessione intea. 

Dalla casa alla comunità
«La Caritas italiana all’inizio ci ha dato il costo di 10 case, e volevamo farle dove la gente ha perso la propria per causa del terremoto. Ma c’era il problema della proprietà della terra, che qui non è mai certa. Inoltre c’erano i dubbi legati al trasporto del materiale da costruzione in diversi quartieri, con il rischio elevato che venisse rubato. Allora io ho proposto di fare le case raggruppate, in un cantiere unico, recintato, protetto. Su una terra acquistata con documenti sicuri. È stata una scelta indovinata: abbiamo comprato la terra qui, e la gente che era nelle tende è venuta ad abitarci».
E intorno si sviluppa il concetto di comunità: «Dare la casa, e poi? È nata l’idea che i bambini potessero usufruire della scuola e della clinica. Abbiamo anche chiesto alla Croce Rossa che potesse fare un centro giochi, biblioteca, sala computer, campo sportivo. È nato un “villaggio urbano”. Inoltre un gruppo di suore brasiliane stanno impostando con la gente un progetto di “economia solidale”: hanno iniziato diversi corsi e vogliono puntare su orti e allevamento di piccoli animali.
L’idea è dunque passata dalla costruzione della casa alla costruzione della comunità, con assistente sociale, servizi, protezione. Un’idea che ha avuto molto successo: c’è sicurezza, continuità». Il padre è umile e dalle sue parole non traspare neppure un filo di vanità per queste realizzazioni, che localmente, stanno dando ottimi risultati.

Lavoro e dignità
Un altro aspetto fondamentale sta contribuendo a migliorare le condizioni di vita a Santo: «Si è creato lavoro: abbiamo 130 operai, nella costruzione, nella fabbricazione dei mattoni, e cucine. È diventata fonte reddito. La relazione con la comunità è molto buona».
Questi ultimi sono i «progetti produttivi» che padre Giuseppe elenca con orgoglio, pur non nascondendo le difficoltà: «La Fondazione ha realizzato anche un panificio che oltre a impiegare personale, contribuisce al reddito delle famiglie attraverso le madri che vendono in giro i sacchetti di pane. E qui famiglia vuol soprattutto dire mamma con figli, perché gli uomini sono latitanti. Talvolta, in una giornata, una madre riesce a guadagnare anche più di un operaio. Per il futuro stiamo realizzando una fabbrica di pasta e una cucina industriale».
L’Agenzia scalabriniana per la cooperazione allo sviluppo onlus (www.ascs.it) di Milano, appoggia il progetto con volontari e cooperanti di lungo periodo, come Mirco Camilletti, che da oltre un anno è impegnato sul terreno. «Ci hanno anche messi in contatto con industriali milanesi, i quali ci mandano queste macchine che utilizziamo per il panificio».
Un importante aiuto per la costruzione dei villaggi e la formazione lo stanno dando i volontari «storici». Sono amici di padre Giuseppe e professionisti di Montebelluna che da 16 anni vengono a passare alcuni mesi a Santo, mettendo a disposizione le loro competenze e formando giovani haitiani: Martino, Bruno, Tarcisio, Antonio, Florio, Diego, Giuseppe.
Lasciato il villaggio Colombe, a poca distanza siamo in un cantiere dove file di casette sono in costruzione. Sarà il villaggio «Montebelluna – Bassano». Qui diverse squadre sono al lavoro e l’attività è frenetica: chi prepara il cemento, chi intonaca, chi monta le strutture.
«La gente ci differenzia dalle Ong. Qui la persona religiosa, nell’immaginario popolare, è molto importante. Per questo godiamo di un certo prestigio, ci fanno le confidenze, soprattutto come missionari. Anche perché sanno che non facciamo i nostri interessi». E conclude: «Questa relazione con la gente mi ha dato delle soddisfazioni personali, inoltre stiamo rispondendo ai bisogni reali. Per questo io mi sento bene».

Marco Bello


Marco Bello




Feudale, islamico, atomico

Un paese complesso e diseguale

Militari, servizi segreti e oligarchia economica dominano su una popolazione impoverita. L’islam, la religione della Costituzione, è usato come arma per combattere i nemici e opprimere le minoranze. Su tutto ciò s’inserisce una deriva integralista di matrice qaedista e talebana.

L’uccisione di Osama bin Laden il 2 maggio 2011 da parte di uomini dei reparti speciali statunitensi nella città-guaigione di Rawalpindi aveva le potenzialità di chiudere un periodo in sé difficile e controverso nei rapporti tra Usa (e Occidente) e Pakistan. Invece, sia quell’episodio, sia la successiva evoluzione della situazione internazionale e intea dovevano mostrare che la fine di Bin Laden apriva un capitolo contrastato e sanguinoso, rischiando di allargare ancora di più il fossato ideologico, strategico e di interessi tra Pakistan e Occidente, identificato soprattutto con la sua mano armata: la missione Nato in Afghanistan denominata Isaf (Inteational Security Assistance).

OSAMA E TALEBANI, FANTASMI ONNIPRESENTI
Il funerale di Osama, tenutosi poche ore dopo la sua fine in un’area del Mare d’Oman, al largo delle coste pachistane, ha tolto ogni possibilità ai suoi estimatori di fare della sua morte un rischioso «cult», ma non ha chiuso del tutto sospetti, macchinazioni e teorie attorno alle ultime fasi della sua vicenda terrena, incluso il suo ruolo reale in Al Qaeda e nella galassia jihadista sparsa dal Marocco all’Indonesia. Non sarebbe servito, altrimenti, radere al suolo, nel febbraio 2012, la casa dove aveva vissuto per anni prima dell’uccisione, in un’area fortemente controllata dai servizi di sicurezza del paese. Memoria quindi scomoda anche per intelligence locale, generali e politici… da cancellare come premessa al riavvicinamento agli Usa, nonostante le morti di civili e militari colpiti dai droni a stelle e strisce.
Difficile non ricordare che l’ascesa di Bin Laden era stata in tempi non sospetti – quelli dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e della sua successiva liberazione – «necessaria» agli Usa e ai servizi segreti pachistani, come in seguito lo è stata l’aberrazione talibana, coltivata in Pakistan per essere rilasciata oltreconfine. Fino a quando le due aberrazioni non si sono intrecciate con la crisi morale e di legittimità di buona parte dei regimi mediorientali e con i rinnovati interessi dell’Occidente, diventando un pericoloso boomerang.
Difficile ignorare che la deriva integralista in Pakistan è stata accesa dalla scelta del generale-dittatore Zia Ul Haq di creare – alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso – una legislazione gradita ai religiosi radicali (sheikh e mullah), utile a sostenee il potere mettendo però l’una contro l’altra le anime sociali, etniche e religiose del grande paese asiatico (esteso quasi tre volte l’Italia, 180 milioni di abitanti, il secondo al mondo come popolazione musulmana). Difficile infine ignorare che in tempi più recenti il generale-presidente Musharraf abbia promosso le forze armate ad arbitri della vita del paese che – dalla nascita nel 1947 – ha vissuto più anni sotto il potere dei fucili che non sotto quello del Parlamento.
Tutto ovviamente sotto lo sguardo attento e mai disinteressato dell’Occidente, opportunamente distratto per quanto riguardava gli effetti su sviluppo, diritti umani e civili, democrazia di una tale situazione. Che oltretutto coincideva con la necessità di disporre di un partner che bilanciasse la potenza indiana in stretto accordo con il gigante cinese emergente. Fino a quando la situazione intea è sembrata sfuggire di mano e il riavvicinamento tra Usa e India (e di entrambi con la Cina) ha accelerato la deriva islamista del paese. Dotato, anche questo va ricordato, di decine di testate atomiche e di vettori in grado di lanciarle, con il rischio più volte espresso dalle diplomazie, che l’arsenale possa finire in mano all’islamismo radicale oppure a gruppi terroristici. Oggi è troppo tardi, forse affinché gli anticorpi presenti nel paese possano insieme attivare una democrazia compiuta, l’indipendenza strategica e soffocare l’aggressione integralista.

PARLAMENTO FRAMMENTATO E SENZA POTERE                                
Il Pakistan resta feudale nell’intimo, con una parte non indifferente della popolazione costretta in stato di schiavitù da tradizioni o debiti, e milioni di altri cacciati – come conseguenza di conflitti locali e regionali, per catastrofe naturali e per discutibili e velleitarie scelte di sviluppo – in una vita di stenti in campi profughi. Dipendenti insieme dalla «benevolenza» delle autorità locali e dagli insufficienti aiuti inteazionali.
Nessuna delle forze parlamentari è in grado di contrastare i «poteri forti» del paese: militari, servizi segreti, establishment economico, antica aristocrazia tribale, autorità religiose.
Il «Partito del popolo pachistano», guidato dopo la morte di Benazir Bhutto dal figlio e (più concretamente) dal vedovo Asif Ali Zardari, laicista senza rinnegare l’identità islamica scolpita nella Costituzione, è oggi maggioritario in Parlamento, ma non può da solo gestire il paese. Il suo principale antagonista è la Lega musulmana (fazione Nawaz), con leader e Nawaz Sharif, islamista pragmatico senza inclinazioni all’ideale jihadista. In mezzo, come presenza parlamentare, la Lega musulmana (fazione Qaid-e-Azam) il partito dell’ex generale ed ex presidente Parvez Musharraf, ora di fatto in esilio a Londra inseguito da un mandato di arresto.
Il «Movimento di tutti i partiti democratici», di chiara ispirazione islamista, ha al centro il piccolo Pakistan Tehrik-e-Insaf, guidato dall’ex campione di cricket Imran Khan. Un partito che per la sua carica giustizialista prima ancora che religiosa, ha tra i suoi uomini di punta Iftikhar Ahmad Chaudhry, ex presidente della Corte suprema, dimissionato da Musharraf insieme ad altri 40 giudici e incarcerato. Nel suo complesso il «Movimento di tutti i partiti democratici» è fautore di un’islamizzazione moderata ma concreta. Insomma, il confronto tra musulmani radicali e liberali resta aperto.
Attoo, una galassia di partiti e di movimenti, espressione di una società civile frammentata. Verdi e comunisti sono delle presenze pressoché simboliche, ma insieme a una molteplicità di formazioni a base etnica e territoriale, come il Muttahida Qaumi Movement, che raccoglie i voti dei mohajir, danno consistenza formale all’incerta democrazia pakistana.  

L’ISLAM, LE MINORANZE, LA BLASFEMIA
La politica, nel complesso, sembra avere un ruolo oggi secondario rispetto ad antichi e nuovi potentati, al controllo dei militari, al crescente ruolo del fondamentalismo religioso. Certamente non è in grado di gestire la situazione nemmeno secondo le regole della Costituzione che segnala uguaglianza e benessere comuni per le minoranze come per la maggioranza musulmana.
Nato per dare una patria ai musulmani dell’India al tempo della separazione di quella che fino al 15 agosto 1947 era stata un’unica entità politica sotto la Corona britannica, il Pakistan ha da sempre nella fede un forte elemento identitario, sottolineato dalla sua Costituzione. Indubbiamente, però, la condizione di sottosviluppo e, in tempi più recenti, il contagio islamista di matrice qaedista e talebana dal confinante Afghanistan ha fatto del Pakistan un paese incerto tra laicità dello Stato e islamismo ma, soprattutto, un paese ostile alle sue minoranze. Cristiani perseguitati nella provincia del Punjab e nelle loro enclave assediate nel Nord e nell’Ovest del paese; induisti nel Balochistan, sikh nella provincia del Nord-Ovest e nel Punjab, ancora cristiani e indù nella megalopoli portuale di Karachi, all’estremo Sud.
Nel mirino degli integralisti sono anche movimenti e sette musulmani considerate eterodosse (se non addirittura eretiche) da islamisti che non ammettono deviazioni da una dottrina di importazione araba (da molti considerata straniera in quanto lontana dalle tradizioni islamiche locali) e insieme promuovono intolleranza e terrorismo. Oggetto di questa attenzione sono i Sufi, fautori di una mistica islamica, e gli Ahmadiya, deviazione pacifica e laboriosa dall’ortodossia che la persecuzione sembra averla nel Dna, qui come in Iran e in Indonesia.
A sua volta, lo stato pachistano continua a tollerare nel suo ordinamento giuridico la serie di provvedimenti indicati comunemente come «legge anti-blasfemia». Strumenti posti in opera dal dittatore militare Zia ul-Haq nel 1986, che la rinnovata ma fragile democrazia pachistana continua a tollerare consentendo così a un islam (che pochi sembrano volere) di dominare con la violenza prima ancora che i non-musulmani, gli stessi fratelli e sorelle nella fede.
Un esempio di come la situazione abbia influito sul Paese, la rende con chiarezza il suo cuore demografico, culturale ed economico, il Punjab.

L’ARRETRAMENTO DEL PUNJAB
Fino a pochi anni fa, il Punjab (82 milioni di abitanti sparsi su 205.344 chilometri quadrati di territorio alluvionale attraversato da imponenti corsi d’acqua e grandi vie di comunicazione), la provincia più popolosa e ricca delle quattro che compongono il Pakistan e che per un lungo tratto affianca il confine con il vicino-rivale India, è stata la vetrina di una paese possibile. Distante dal tribalismo associato a un crescente radicalismo di impronta talebana che identificava la Provincia della Frontiera del Nord-Ovest, lontana dall’arretratezza congenita del desertico Balochistan; ignorata dai problemi interetnici associati alle congregazione malavitose e a vasti potentati rurali che governano il meridionale Sindh e il suo capoluogo Karachi, la provincia sta ora esprimendo in pieno il travaglio dell’intero paese. Non a caso qui riemergono prepotenti fenomeni come il latifondismo sostenuto dal potere delle milizie private, il fondamentalismo religioso che ha fatto vittime illustri nella provincia con la maggiore popolazione cristiana (quasi due milioni i battezzati), le discriminazioni che la cultura indo-islamica (con il cuore nel capoluogo Lahore), aveva superato nel nome di una grande tradizione culturale e di una fede tollerante e dialogica.

Stefano Vecchia

BOX
Le minoranze non islamiche
NON È UN PAESE PER CRISTIANI

La vicenda di Asia Bibi è soltanto un esempio e neppure il più drammatico. In Pakistan, molti cristiani hanno perso la vita. Alcuni erano personaggi conosciuti (come il ministro cattolico Bhatti), altri semplici cittadini la cui unica colpa era di non essere fedeli islamici.

Sono tempi duri e pericolosi per i cristiani del Pakistan. Segnati non soltanto dall’emarginazione quotidiana ma anche da molte forme di violenza e sopraffazione che hanno trovato un’eco internazionale. Senza che però la pressione delle diplomazie e della Chiesa universale in stretto contatto con i movimenti della società civile e la Chiesa locale abbiano ottenuto di cambiare la situazione in senso positivo.
Il potere politico ha mostrato come non mai la sua sudditanza all’azione degli estremisti, in parte guardati con simpatia proprio da settori della maggioranza di governo. Sequele di atti violenti hanno accentuato tensioni e diffidenza.
Il fatto che la minaccia integralista sia ora arrivata a ogni livello è dimostrato dall’assassinio il 4 gennaio 2011 di Salman Taseer, politico progressista, tra i principali esponenti del Partito del popolo pachistano e governatore della provincia del Punjab. Il 2 marzo dello stesso anno il ministro per le Minoranze, il cattolico Shahbaz Bhatti veniva ucciso all’uscita di casa. Nei due casi, gli assassini sono stati esaltati come «eroi» dagli islamisti.
Sulla stessa linea dei due uccisi, ovvero di contrarietà a un uso arbitrario e opportunista della «legge antiblasfemia» e per il predominio dello stato di diritto sulle faziosità e sugli estremismi, sempre nel 2011 l’attuale ambasciatrice di Islamabad a Washington, Sherry Rehman è stata costretta alle dimissioni dal governo e il figlio di Taseer, Shahbaz Ali, è scomparso dopo essere stato rapito il 26 agosto.
Non unico come dinamica, ma assurto a simbolo, il caso di Asia Bibi ha fatto da sfondo e da pretesto a omicidi «eccellenti» come anche alle continue pressioni degli integralisti. Asia, madre di famiglia, cattolica, condannata a morte in prima istanza nel novembre 2010 è in attesa da allora di un giudizio d’appello bloccato dalle pressioni degli integralisti e dal timore della politica e dei giudici che una sentenza di assoluzione  – probabile come hanno dimostrato analoghi casi nel passato – possa diventare il pretesto per una spallata al fragile governo di Islamabad.
Resta valida invece la visione espressa qualche tempo fa dal domenicano padre James Channan, direttore del Centro per la pace dell’arcidiocesi di Lahore: «Purtroppo, il fondamentalismo sembra oggi incontrollabile. Sembra non esserci più spazio per opinioni diverse, una situazione che va oltre ogni immaginazione e che va contro gli stessi principi essenziali della fede islamica. Gli assassinii di Salman Taseer e di Sahbaz Bhatti hanno lasciato i cristiani in uno stato di shock. Hanno reso ancora più evidente come siano poveri, oppressi e vulnerabili. Come, alla fine, siano l’immagine del Cristo sofferente».

Asia Bibi, Salman Taseer, Shabaz Bhatti: la semplice madre di famiglia cattolica, il raffinato politico musulmano e il coraggioso esponente cristiano hanno cercato a modo loro di far prevalere la ragione e il diritto in una situazione di intolleranza e fanatismo. Molti altri sono finiti sotto processo con l’accusa di oltraggio al profeta Muhammad, al Corano o alla religione islamica, alcuni hanno pagato con la vita la loro appartenenza religiosa. Associata spesso a povertà ed emarginazione che ne mettono maggiormente a rischio incolumità e onore, come nel caso delle giovani cristiane che lavorano in stato di servitù nelle case di agiati musulmani. Per non dire delle giovani rapite e stuprate o di quelle costrette alla conversione all’Islam e al matrimonio.
Alla fine anche contrasti di vicinato, antichi rancori, incomprensioni possono diventare, pur in pochi casi – se valutati sul metro delle dimensioni territoriali e demografiche del paese – ma comunque significativi e dolorosi, pretesti per accuse infamanti, detenzione ma anche azioni extragiudiziali spesso violente e letali.
A consentirlo è una visione opportunista dell’Islam che permette a un’accusa senza prove oppure palesemente falsificata diventi – se attuata da un musulmano – denuncia legale per inquirenti e magistrati sovente intimoriti, a volte conniventi, mettendo a rischio la vita degli accusati, dei loro familiari e di chi ne prende le difese.
Come sottolinea tuttavia Nadir Hassan, giornalista pachistano, «il vero avversario non è il sistema giudiziario. È necessario che la maggioranza della popolazione venga istruita, convinta che le leggi contro la blasfemia sono crudeli e anacronistiche». «Quando una società comprende che mettere a morte qualcuno per le sue opinioni e credenze religiose è fondamentalmente illiberale – prosegue Hassan -, la battaglia è già vinta. In Pakistan purtroppo, non abbiamo nemmeno iniziato ad avanzare verso questa convinzione, ma è anche vero che finora nessuna pena capitale comminata per reati di blasfemia è stata eseguita perché le più alte istanze giudiziarie, inclusa la Corte islamica federale, hanno sempre annullato i verdetti iniziali. La minaccia maggiore per la vita di quanti sono accusati di tale reato arriva da fanatici, mentre il disinteresse della polizia verso i violenti, come pure i giudizi dei tribunali di grado inferiore, alimentano il rischio di esecuzioni extragiudiziarie».

Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




Cari missionari

Ai lettori

Specie in via di estinzione
[…] Non sono missionario e, men che meno, un praticante modello (frequento assiduamente solo nei miei soggiorni in terre di missione perché sento una partecipazione attiva pressoché dimenticata da noi). Lungi quindi da me voler sputare sentenze. Posso solo esprimere un pensiero basato su ciò che vedo quando mi capita di accompagnare missionari in determinate zone. La mia convinzione è che la figura del missionario sia un poco cambiata. Spesso, nelle priorità del missionario viene l’Uomo e le difficoltà che quest’Uomo si trova quotidianamente a fronteggiare nonostante siamo entrati nel terzo millennio e il consumismo abbia quasi ovunque raggiunto livelli assurdi. In molti dei soggiorni fatti ho tuttavia notato la presenza sempre più numerosa di laici (giovani e medici soprattutto) che sentono la necessità di dare un contributo costruttivo. Questa è già, a mio avviso, una risposta. Gente che sente il richiamo della missione ce n’è ancora tanta (anzi, forse in aumento), ma nella maggior parte è gente che preferisce dare un aiuto concreto senza essere legato a ordini religiosi, alle loro regole e gerarchie.
Ovvio che questi volontari siano ospitati in realtà create negli anni da missionari. Non si può disconoscere la grandezza di alcuni di loro (noti o totalmente sconosciuti) vista la straordinarietà delle loro opere, realizzate in condizioni incredibili. Persone umili ma grandi che hanno lasciato, e continuano a lasciare, eredità importanti convertendo più con l’esempio, che con le parole.
Le comunità che hanno seguito l’esempio di questi straordinari personaggi, non si disperderanno così facilmente, anche se mancherà un… direttore di colorito e lingua diversa. I protagonisti che per motivi anagrafici o di salute hanno dovuto forzatamente abbandonare, possono a mio avviso stare tranquilli. Ciò che hanno seminato continuerà a germogliare e, quasi sicuramente, a moltiplicarsi.
La mia conclusione è tuttavia un po’ provocatoria. In questo momento, alla luce di quanto sta succedendo in molti paesi, più che di conversione c’è bisogno di collaborazione. Più che di muro contro muro fra religioni diverse, c’è bisogno di un maggior spirito ecumenico. I giovani, questo, lo cominciano ad avvertire.
Cordiali saluti

Mario Beltrami
Via email, 30/03/2012

Grazie di averci scritto. Mi permetta solo pochi commenti. «Muro contro muro»: nel mondo missionario oggi si dice che il nuovo nome della missione è «dialogo» oltre che ecumenismo. L’ecumenismo è un «affare» interno tra cristiani (anche se divisi). Il dialogo avviene tra religioni diverse, meglio tra persone di religioni diverse. Le assicuro che oggi i missionari e la Chiesa tutta stanno investendo molto sul dialogo.
I laici: la missione non è un monopolio di preti e religiosi. Ogni cristiano, in quanto tale, è missionario. Ben vengano quindi i laici che, tra l’altro, possono essere testimoni del Vangelo in ambienti irraggiungibili dai preti. Ovviamente i laici non sono una alternativa ai missionari, e questo lo dice anche lei, perché i missionari hanno tre assi nella manica rispetto ai laici: la continuità, la Parola e l’Eucarestia. L’annuncio della Parola fa nascere la comunità cristiana, l’Eucarestia la nutre. La continuità – garantita non dal singolo missionario, ma dalla sua comunità, istituto o ordine – è essenziale per un’azione incisiva e profonda sia nell’annuncio che nel dialogo.
Grazie comunque dell’affetto che ha per i missionari. Continui ad essere missionario con noi, diventando magari un animatore di partecipazione e di vita cristiana più giorniosa anche a casa sua.

Dossier: l’Arca secondo Anna
In qualità di Sessantottina pentita, non condivido la risoluzione di Anna. Uscire dal Sessantotto per infilarsi da qualche altra parte potrebbe significare «cadere dalla padella alla brace». Del Sessantotto ci si libera facendo un lungo, lunghissimo cammino interiore, anche da soli, vivendo una vita normale, osservandone tutti i risvolti e comparandoli con le ideologie del Sessantotto. Sempre ovviamente con l’aiuto del «Dominus» che tutto sa e tutto conosce.
Quanto a Gandhi, ci sarebbe tanto da dire. L’India non mi pare cambiata di molto, la condizione delle bambine, delle vedove indiane e delle donne in particolare non mi sembra migliorata grazie all’opera di Gandhi, come neppure le enormi disparità fra cittadini. Gandhi ha solo cacciato gli inglesi, ma non ha fatto nulla per impedire che le vedove venissero bruciate sul rogo insieme alle salme dei mariti.
Io, su Missioni Consolata, vedrei bene anche un dossier su ciò che sta facendo in India la nostra Sonia Maino. Si è deitalianizzata e sta lasciando cadere l’acqua dove cade. Bel modo di «lavarsene le mani», non c’è che dire.
Giovanna Elies
Via email, 05/04/2012

Probabilmente nel dossier non emerge abbastanza, ma quello che ha fatto uscire Anna dal Sessantotto non è stato né Lanza del Vasto né Gandhi, ma l’incontro con Gesù Cristo favorito dalla semplicità, essenzialità e spirito ecumenico e dialogico della comunità dell’Arca. I limiti di Gandhi ci sono, ma neppure Gesù è riuscito a togliere certi mali tutto in un colpo. Pensi solo a quanti anni hanno impiegato i cristiani a capire che la schiavitù non è secondo la volontà di Dio… La saggezza di una persona si riconosce anche dalla sua capacità di prendere il bene là dove è, perché il bene è sempre opera di Dio. Da quello che ho capito io, Lanza del Vasto è uno che prima di tutto ha incontrato Gesù, e poi anche Gandhi da cui ha preso stimoli per una scelta di vita più sobria e nonviolenta. Quanto a Sonia, penso sia meglio lasciare ad altre riviste non missionarie il lavoro di dossieraggio. La situazione a cui indirettamente lei si riferisce è molto delicata e dolorosa per tutti, sia per i nostri connazionali che per le famiglie dei pescatori. Speriamo solo che prevalga la giustizia e non la strumentalizzazione politica sia in India che in Italia.




Cavalli, cammelli e uomini

Qualche tempo fa una notizia ha occupato gran parte di un telegiornale delle 20: alcuni cavalli
stavano morendo di fame perché il loro padrone era sull’orlo del fallimento e non ce
la faceva più a nutrirli. Il lungo servizio informava sulla salute dei cavalli, la mobilitazione
delle istituzioni, le proteste degli animalisti e la gara di generosità dei volontari per salvare
i nobili quadrupedi. Mi aspettavo due parole sulla condizione del povero contadino indebitato
e disperato… niente. Che forse valga meno dei suoi cavalli?
Come figlio di contadini e missionario tra i pastori nomadi, so bene che normalmente un pastore
(ricordate il «buon pastore» del Vangelo?) fa di tutto per evitare che le sue bestie soffrano. Piuttosto
patisce la fame lui, ma le bestie no. Ho davanti agli occhi le immagini di cammelli scheletriti
e cani pelle e ossa nelle zone aride del nord del Kenya. Quando si incontrano animali in quello
stato, bisogna aspettarsi i loro padroni in condizioni ancora peggiori!
Il primo maggio mi è arrivata dal Kenya una documentazione drammatica su Camp Garba. Ricordate
che sul numero di marzo scorso avevo scritto di quella missione e concluso che «questo
2012 sarà un anno difficilissimo con un crescendo di violenza» (MC 3/2012, p. 13)? Purtroppo ci
ho azzeccato! Agli inizi di maggio – mentre scrivo – ci sono oltre 3.000 persone rese «profughe a
casa loro» e accampate nella missione, vicino a scuole-cappelle o fuggite nella foresta. Il tutto
perché i «soliti» pastori sono arrivati con migliaia di cammelli che affamati, hanno esercitato il
loro diritto costituzionale a sfamarsi pascolando nei campicelli piantati da chi viveva sul posto
mentre i loro padroni hanno devastato scuole, vandalizzato chiesette, bruciato case, ammazzato
persone che aveano il torto di occupare quelli che sono i «pascoli ancestrali»… il tutto nell’indifferenza
delle autorità. D’altra parte – sostengono le autorità locali – la costituzione del paese garantisce
ad ogni cittadino libertà di movimento in tutta la nazione. Che la stessa costituzione garantisca
anche il diritto di residenza e proprietà a chi già vive e coltiva in un certo luogo, è un corollario
secondario. Se poi si considera che a proposito di quelle aree si parla di petrolio e di
enormi investimenti turistici, si capisce facilmente perchè i poveracci non facciano notizia, anzi,
prima si tolgono dai piedi meglio è per tutti.
Scusate il tono un po’ sarcastico, ma cosa resta da fare ai missionari che in loco vedono il loro
«gregge» disperso, ucciso, affamato e spaventato? Sono talmente presi dal dramma, dal darsi
da fare per aiutare, curare, consolare, asciugare lacrime, seppellire i morti e nutrire i vivi da
non avere neanche il tempo e la voglia di gridare e denunciare. Purtroppo i nostri tempi di
pubblicazione non ci permettono una tempestività di informazione e denuncia, ma abbiamo
cercato di supplire attraverso altri media (vedi suwww.missioniconsolataonlus.it/mco/,
www.consolata.org e sul nostro sito). Ma queste cose non è che interessino più di tanto e poi,
con tutti i problemi che ci sono …

Cavalli, cammelli e uomini. Scusate, pur con tutto l’affetto per gli animali, noi tifiamo ancora
per gli uomini. È un fatto: dove gli uomini stanno bene (inteso come pace – dentro e attorno
-, cibo, lavoro, sicurezza…), anche gli animali stanno bene. In più, come missionari
(e della Consolata), abbiamo il vizio di fare il tifo per i più disgraziati del mondo: che siano
i rifugiati di Camp Garba, gli indios di Roraima, i pigmei del Congo RD, i bambini delle Ande ecuadoriane,
i malati di … Questo è il mese della nostra fondatrice, la Madonna Consolata e Consolatrice,
che certo sapeva quel che faceva quando ha forzato la mano ai superiori e ci ha mandato a
Camp Garba. «Dio non ha mani, ha solo le tue mani. Dio non ha piedi, ha solo i tuoi piedi», dice un
canto religioso scritto con parole ispirate da Raul Foullereau. La Madonna continua a consolare
attraverso i suoi missionari, i quali alimentano la loro carità con la solidariatà fattiva di tanti che
sono capaci di aver compassione pur vivendo – forse proprio perché si vivono – tempi difficili.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




S.S.S.

AI LETTORI

Molti anni fa, prima di entrare in seminario, mi diedero un libro da leggere. S’intitolava
«I fioretti di p. Cencio». Era la biografia di p. Vincenzo Dolza, pioniere del Meru in
Kenya. Lessi e rilessi quel libro con tanta allegria e partecipazione, fin quasi a saperlo a
memoria. Ogni tanto, oggi, un ricordo riemerge. Due sono tornati con insistenza in una
notte insonne d’aprile – insonne perché ai primi di maggio riprendono le scuole in Kenya e le
scuole vogliono contanti, non promesse -: la storia dei «Canada» e dei «Canapia» e le sue
famose lettere agli amici con scritto un solo e grande «S.S.S.» e firmate «Cencio».
Avendo ricevuto una volta la visita di un cacciatore canadese di passaggio, divennero subito
amici. Questi, vedendo l’estrema povertà del padre, si offrì di aiutarlo. P. Cencio gli spiegò che
erano fatti l’uno per l’altro, perché uno proveniva dal «Can-a-dà» (colui che da, in piemontese)
e, l’altro era cittadino di «Can-a-pia» (colui che prende). Invece l’«S.S.S.» significava semplicemente
«Sono Senza Soldi»; plastica espressione per indicare il suo stato di perenne indebitato a
causa della generosità con cui si dedicava ai poveri (vedi foto p. 65, MC 12/2011). P. Cencio aveva
imparato bene dall’Allamano che il missionario deve essere un canale per quel che riguarda i
soldi e una conca nel suo rapporto con Dio. Quel vecchio libro dovrebbe far parte dei testi di
formazione nei seminari missionari e probabilmente farebbe del bene anche a molti politici
nostrani.
Non sono sicuro di aver imitato p. Cencio nell’essere una conca di santità, ma quanto all’altro
aspetto, un po’ ci ho provato. Quando sono partito per il Kenya nel 1988, non ho cercato soldi,
perché non li consideravo una priorità. Sognavo l’evangelizzazione pura: catechesi, formazione,
testimonianza, camminare con la gente, imparare da loro ed essere «povero con i poveri».
È andato tutto bene fino a quando non mi sono scontrato faccia a faccia con la povertà, anzi no,
con i poveri, quelli veri, di carne e ossa, con nome e cognome, una faccia, una storia, un odore.
Incontri fatti spesso solo di un semplice sguardo, un gesto, pochissime parole, o scontri fatti
anche di storie lunghissime che puzzavano pure d’imbroglio, forse goffo tentativo di coprire con
un po’ di orgoglio una dignità umiliata dalla miseria. Da allora sono diventato anch’io un
«canapia», non per me, non ne ho bisogno, ma per quelli che, volente o nolente, mi accompagnano
sempre – «i tuoi poveri, i tuoi bambini» -, anche quando vado a mangiare una pizza con gli amici.
Perché vi scrivo questo? Il binomio «missione=soldi per i poveri» è talmente solido nella
mente di tanti buoni cattolici da indurre gruppi missionari a definirsi tali più per quanto
raccolgono in favore del loro progetto che per come vivono la missione. Ci sono poi molti
missionari che sono diventati quasi «prigionieri» dell’aiuto ai poveri, a causa della crisi
economica, ormai mondiale, che ha impoverito i donatori, riducendone le risorse, e peggiorato
la situazione dei poveri con l’aumento dei prezzi e del costo della vita, e sta rendendo impossibile
sostenere programmi e progetti come scuole, orfanotrofi, ospedali e adozioni che esigono
continuità. L’equilibrio di un tempo è saltato e la crisi è pagata soprattutto da chi è già povero.
E il missionario si sente tra l’incudine e il martello.
La crisi di cui tutti parliamo e soffriamo evidenzia un sistema che non ha più l’uomo al centro,
ma il profitto per il profitto; un sistema che premia la speculazione (a vantaggio di pochi) e
penalizza il lavoro di chi, in fondo, è trattato peggio di uno schiavo; una monetizzazione del
tutto (anche dell’uomo), dove l’azzardo finanziario (ormai democratizzato dal «gratta e vinci»)
conta più del sudore della fronte e gli algoritmi di banche e fondi d’investimento mandano a
K.O. nazioni intere.
Che senso ha in questa situazione un missionario che scriva agli amici un «S.S.S.»? Forse è
uno che, nonostante tutto, ha ancora fiducia nell’uomo perché ha fede in Dio, il Dio fatto uomo
in Gesù Cristo. Crede ancora che nel cuore di ogni persona, anche quella in difficoltà, ci sia
una capacità di compassione e di solidarietà inesplorata e inestinguibile, una capacità d’amore
che nessuna crisi economica può uccidere, perché imparata dal Figlio di Dio, un Dio dalla
parte dei poveri.
                                                                                                                              Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




1. L’apostolo Paolo

4 chiacchiere con…

Iniziamo con questo numero una nuova rubrica dove idealmente cercheremo di dialogare con dei testimoni del passato che hanno lasciato tracce indelebili sui sentirneri dell’evangelizzazione. Un dialogo tra persone vissute in tempi diversi può avvenire solo con una finzione letteraria. Seguiremo pertanto questa pista, cercando di far emergere i punti di riflessione che possano servire per una migliore e incisiva animazione missionaria per i nostri giorni.

Di fronte a un gigante del Vangelo come Lei mi sento un po’ a disagio e abbastanza in difficoltà nell’affrontare certi temi.
Intanto cominciamo col darci del tu; ai miei tempi si dava del tu anche all’imperatore, mentre voi in chiesa date del tu a Dio e poi sul sagrato al primo omuncolo con qualche carica pubblica che incontrate, gli date del Lei.
Ok ricevuto, prova a raccontare – sintetizzando ovviamente – la tua vita per i nostri lettori.
Allora vediamo… Sono nato a Tarso in Cilicia (attuale Turchia centro-meridionale) nei primi anni dell’era cristiana; appartengo a una nobile famiglia ebraica che si era conquistata la mitica cittadinanza romana. Per capirci, è come se oggi un extracomunitario (come eravamo noi ebrei che vivevamo fuori d’Israele) che arriva da paesi sperduti e lontani, riuscisse ad avere non solo il permesso di soggiorno, ma anche la carta d’identità italiana! Sono stato educato secondo la ferrea disciplina dei farisei, nella rigorosa osservanza della legge mosaica e nell’assiduo studio delle scritture sotto il grande Gamaliele, fino a ottenere il prestigioso titolo di dottore della legge. Tutto in me era impregnato dall’Antica Alleanza, per questo non riuscivo a capire cosa si nascondesse dietro la nascente comunità dei discepoli di Gesù di Nazareth, che ritenevo scismatici, eretici nonché pericolosi sovversivi; per questo ero diventato uno dei loro più accaniti persecutori.
Già, ma sulla via di Damasco successe qualcosa d’imprevedibile, non è vero?
Non me ne parlare! Quell’esperienza ha cambiato radicalmente la mia vita e forse anche la tua. Perché incontrarsi con Dio è sempre un avvenimento che ti sconvolge e ti segna non solo spiritualmente ma anche fisicamente: vedi Giacobbe che uscì zoppicante e con le ossa rotte dopo un incontro ravvicinato con Lui, e anch’io rimasi cieco per un po’ di tempo.
Il nostro Dante nella sua Divina Commedia, ti definisce «gran vasello/de lo Spirito Santo» (Pd. XXI, 128) facendo riferimento alla dichiarazione che si trova negli Atti degli Apostoli a seguito della tua straordinaria conversione: «Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli» (Atti 9, 15).
Già, proprio questo è stato il copyright che mi ha riservato il Maestro; gli altri apostoli erano ebrei come me, ma erano sempre vissuti in un’ottica molto provinciale, praticamente quei pochi viaggi fuori dalla terra di Israele li avevano fatti seguendo Gesù. In più avevano la fissa che bisognasse, prima di tutto, annunciare il Vangelo al popolo di Israele; una volta convertiti gli ebrei (il che avrebbe significato farli cadere tutti da cavallo) passare poi alla seconda fase, ovvero portare la Buona Notizia a tutte le genti.
La tua strategia missionaria però non era di questo genere.
Assolutamente no! Pur essendo io più impegnato di loro nell’osservanza alla legge mosaica, ritenevo che per portare al mondo pagano, greco o romano che fosse, la meravigliosa novità di vita che Cristo ci aveva lasciato, bisognasse far saltare tutti i paletti, lacci e lacciuoli legati alla legge antica.
Ti riferisci al problema della circoncisione?
Certo, anche perché con il battesimo, sacramento iniziatico che fa di te una persona nuova e si dà a tutti, uomini e donne, liberi e schiavi, ebrei e pagani, sei trasformato radicalmente, senza nessun bisogno di altri segni che ti legano al passato.
Già, ma Pietro, Giacomo e altri non erano poi tanto d’accordo.
Difatti glielo dissi a viso aperto (oggi diremmo a muso duro), anche perché Pietro, pur avendo ricevuto il mandato di presiedere la comunità, subiva l’influsso di Giacomo, il quale, col carattere che si ritrovava (sia lui che suo fratello Giovanni furono definiti da Gesù figli del tuono, tanto erano irruenti) cercava in ogni modo di imporre una linea di evangelizzazione che non condividevo affatto.
Già, ma in quanto al carattere anche tu non scherzavi.
Quello che dovevo dire l’ho sempre detto e se chi mi stava attorno cercava di farmi dire cose diverse o intraprendere strade che non ritenevo praticabili, non stavo tanto a perdere tempo, quello che andava detto glielo dicevo in faccia e amen, atteggiamento che purtroppo avete dimenticato, tant’è vero che da voi per definire un linguaggio di chiesa si dice «curiale». Come cambia il mondo!
Sei definito l’Apostolo delle genti proprio perché da autentico missionario, sfruttando la rete delle strade imperiali di allora e del traffico via mare, tutto sommato abbastanza sicuro per l’epoca, hai percorso migliaia di chilometri per portare il Vangelo nel tessuto sociale delle pulsanti città dell’Impero. Qual era la tua strategia missionaria?
Se devo rispondere con una battuta, la mia strategia missionaria la chiamerei: implantatio ecclesiae (piantare la Chiesa); quando arrivavo in una città, facevo la visita alla sinagoga per incontrare i fratelli dell’antica alleanza e parlare loro del Vangelo di Gesù, della sua morte in croce e risurrezione e se questi mi respingevano, passavo ad annunciare la Buona Notizia alle altre genti, più aperte e disponibili. Una volta avviata e formata una piccola comunità in grado di camminare con le proprie gambe, proseguivo per un’altra destinazione.
Già, ma ad Atene, in quella città di grandi accademie culturali, non hai poi ottenuto gran che.
È vero, anche se io credo che quella frase di Luca scritta negli Atti degli Apostoli: «Ti sentiremo su questo un’altra volta» (Atti 17, 32) non necessariamente va intesa come un rifiuto, può darsi che gli ateniesi avessero bisogno di una «pausa di riflessione» per afferrare il senso più autentico del messaggio di Cristo.
Per quanto riguarda l’attività missionaria dei giorni nostri, che suggerimenti daresti.
Credo che le cose da fare siano le stesse di allora: occorrono discepoli innamorati del messaggio da comunicare, pronti ad andare fino agli estremi confini della terra (e non a rinchiudersi in recinti dorati sempre più angusti, con piccoli gruppi che se la contano tra di loro), che siano disponibili ad affrontare le nuove sfide del terzo millennio e creare autentiche comunità di vita cristiana (invece di ricercare sicurezze dal potente di tuo) che sappiano diluirsi come lievito nella massa e alla fine trasformare la società; ci siamo riusciti noi che avevamo di fronte nientemeno che l’impero romano, figuriamoci se non ce la potete fare voi.
Grazie Paolo, faremo tesoro di tutto questo.
Buon lavoro ragazzi e ricordatevi sempre che Cristo il mondo l’ha già vinto.

Mario Bandera

Mario Bandera




Star male da mangiare

Cause e conseguenze dell’obesità

Al problema della fame nel mondo si aggiunge l’obesità, che tocca un miliardo di persone.
Nei paesi ricchi ma anche in quelli poveri.
L’Italia è al primo posto in Europa per persone in sovrappeso. Le cause sono quello che mangiamo e il nostro modo di vivere. E l’obesità scatena una lunga serie di malanni.

Da sempre la fame nel mondo assilla l’umanità e tuttora muoiono di fame complessivamente più di 7,6 milioni di bambini in età prescolare ogni anno. Eppure a questo problema, ben lontano dall’essere risolto, se ne è aggiunto un altro, insospettatamente presente ovunque, anche nei paesi in via di sviluppo: l’obesità.
Secondo i dati dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), il numero di persone in sovrappeso nel mondo è di oltre un miliardo (di cui 300 milioni francamente obese), decisamente superiore a quelle che soffrono la fame, cioè 925 milioni (rapporto Fao del 2010). Una vera e propria epidemia.
Oltretutto l’Oms stima una crescita dell’obesità del 50% nei prossimi 10 anni. In alcuni paesi occidentali, come gli Stati Uniti, si calcola che solo una persona su tre sia normopeso, ma troviamo dati preoccupanti anche in Messico, Egitto e Sudafrica con più della metà degli adulti in sovrappeso, cioè con indice di massa corporea (Imc) pari o superiore a 25. L’Imc è il rapporto tra il peso espresso in chili e  il quadrato dell’altezza espressa in metri. Negli stessi paesi un quarto della popolazione è obesa (Imc pari o superiore a 30). In quasi tutti i paesi dell’America Latina, in buona parte del Medio Oriente e del Nord Africa almeno un quarto degli adulti è sovrappeso. Ormai iniziano a fare i conti con questo problema anche paesi molto poveri come l’Uganda e la Nigeria.

Situazione Italia
Secondo i dati del ministero della Salute, l’Italia è al primo posto in Europa, con il 36% delle persone in sovrappeso. Un altro dato allarmante dell’Oms riguarda il tasso d’incremento dell’obesità infantile, che è in continua crescita. Complessivamente i bambini rappresentano la metà degli individui stimati in sovrappeso ed in particolare 40 milioni di loro sono clinicamente obesi nel mondo. Nel nostro paese, secondo un’indagine promossa dal ministero della Salute e condotta tra i bambini di 9 anni, in alcune città campione di Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, Campania, Puglia e Calabria, il 23,9% è in sovrappeso ed il 13,6% è obeso. Questa indagine inoltre ha evidenziato una maggiore prevalenza dell’obesità nelle città del Sud (16% a Napoli), rispetto a quelle del Nord (6,9% a Lodi).
Il problema dell’obesità si è ovunque acuito negli ultimi 20 anni, complici la sempre maggiore disponibilità di cibo e le innovazioni tecnologiche, che ci evitano una buona parte dei lavori faticosi.
Ma se questa situazione è più facilmente comprensibile nei paesi ricchi, viene da chiedersi cosa stia succedendo in quelli più poveri. In questo caso possiamo parlare di «transizione alimentare», cioè il passaggio dalla denutrizione all’iperalimentazione avvenuto in meno di una generazione. Chi si reca attualmente in paesi come Messico, Cina, India, Filippine può osservare situazioni molto diverse rispetto ad una ventina di anni fa: è aumentato enormemente il consumo di bibite, i ragazzini passano molte ore davanti alla tv, gli adulti si spostano sempre più in motorino anziché a piedi e il cibo viene comperato al supermercato, dove abbondano dolcificanti, oli di semi e cai a basso costo, conseguenza del business agroalimentare.
Inoltre è aumentata l’urbanizzazione. Peraltro si riscontra un aumento dell’obesità anche nelle aree rurali. Il Messico è forse il paese in via di sviluppo più colpito dall’epidemia di obesità: nel 1989 le persone in sovrappeso erano meno del 10% della popolazione, mentre l’obesità conclamata era praticamente inesistente. In un’indagine nazionale del 2006, il 71% degli uomini ed il 66% delle donne sono risultati in sovrappeso o obesi, una situazione molto simile a quella riscontrata negli Stati Uniti.
Sicuramente, tanto nei paesi meno sviluppati che in quelli ricchi, l’obesità prevale tra le persone povere e con un basso livello di istruzione.
Parallelamente alla crescita del numero degli obesi, in Messico è cresciuto quello degli individui ammalati di diabete di tipo 2 (o dell’adulto), che fino a 15 anni fa era pressoché inesistente, mentre ora ne soffre quasi un sesto della popolazione.

Tutti i mali dell’obesità
La situazione messicana rispecchia quella a livello mondiale: agli inizi del 2000 c’erano circa 170 milioni di individui affetti da diabete di tipo 2, mentre si prevedono 366 milioni di malati nel 2030, secondo l’andamento attuale. L’obesità, oltre che al diabete di tipo 2, risulta associata a una pletora di ulteriori problemi sanitari (che si riscontrano sempre più spesso anche tra gli obesi in età giovanile) come il rischio di sviluppare  aterosclerosi, disordini neurodegenerativi, patologie dell’apparato respiratorio, alcune forme di cancro, sindrome metabolica (intesa come un complesso di condizioni legate all’obesità).
La sindrome metabolica è direttamente correlata a un aumentato rischio cardiovascolare, la principale causa di morte tra gli obesi. Certamente per l’insorgenza del diabete di tipo 2 è importante la predisposizione genetica, tuttavia vi sono parecchie evidenze che lo stile di vita e in particolare l’obesità svolgono un ruolo cruciale.
È emblematica, in tal senso, la storia degli indiani Pima, originari del Messico e migrati circa 2000 anni fa in Arizona, dove riuscirono a rendere fertile una zona desertica. Questa popolazione è geneticamente predisposta al diabete di tipo 2, tuttavia vivendo per secoli con una dieta ricca di fibre e di carboidrati complessi e povera di grassi, è riuscita a vivere a lungo priva della malattia. Agli inizi del ´900 gli americani colonizzarono quella zona, deviarono il corso di un fiume e resero nuovamente desertica l’area occupata dai Pima, che vennero risarciti dal governo americano con foiture di zucchero, farina e lardo. Le abitudini alimentari di questa popolazione variarono bruscamente, con il risultato che essi si ritrovarono con la più elevata prevalenza mondiale di diabete di tipo 2, in associazione all’obesità, cioè l’85% della popolazione. Analizzando gli indiani Pima rimasti in Messico, con le antiche abitudini alimentari, la prevalenza del diabete è risultata di poco inferiore al 10%.
Del resto, l’obesità favorisce un’alterazione del normale funzionamento del segnale dell’insulina, a livello cellulare, che si traduce nell’insulino-resistenza caratteristica del diabete di tipo 2. L’insulina è un ormone ipoglicemizzante prodotto dalla porzione endocrina del pancreas. Tale ormone stimola le cellule ad assumere il glucosio dal sangue (da cui la riduzione della glicemia) e a utilizzarlo per la produzione dell’energia utilizzata nelle molteplici funzioni cellulari.
È stato rilevato che l’80% dei pazienti diabetici è obeso e che la correlazione tra le due patologie è ancora più forte quando l’obesità è di tipo addominale. Entrambe le patologie risultano associate ad un incremento della disponibilità alimentare e ad una riduzione dell’attività fisica.

Problemi di comunicazione
L’organismo umano è programmato per fare fronte alle scarsità alimentari, per cui non è capace di rispondere adeguatamente a disponibilità praticamente illimitate di fonti caloriche, né all’enorme risparmio energetico derivante dall’utilizzo di macchinari, che ci evitano i lavori più faticosi. Il nostro corpo immagazzina l’energia in eccesso nel tessuto adiposo, che sarebbe meglio considerare come «organo adiposo» poiché capace di produrre ormoni propri, in particolare la leptina, una molecola che informa il cervello sul contenuto in grasso delle cellule adipose. L’informazione giunge all’ipotalamo, una parte del cervello che presenta il «centro della sazietà» e il «centro della fame». Altre informazioni importanti per la regolazione del livello energetico giungono al cervello da stomaco, fegato ed intestino.
È probabile che nelle persone obese esista un difetto di comunicazione tra gli organi suddetti e il cervello, con conseguente attivazione del «centro della fame».
Certamente l’enorme diffusione dei supermercati tanto nei paesi ricchi, quanto in quelli poveri ha reso facilmente disponibili in grande quantità e a costi relativamente bassi bevande dolcificate, cibi industriali, cibi di origine animale e oli di semi, cioè sostanzialmente alimenti ad alta densità energetica. Poiché il corpo umano regola l’appetito in base al volume di cibo introdotto, piuttosto che in base alle corrispondenti calorie, è evidente che la grande disponibilità di cibi altamente calorici è già di per sé un primo passo verso la diffusione dell’obesità.
Quest’ultima, secondo il rapporto Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) Obesity and the economics of prevention: fit not fat (2010) comporta una riduzione della  vita di 8-10 anni per una persona gravemente obesa, e il rischio di morte prematura aumenta del 30% ogni 15 chilogrammi di peso in eccesso.
L’obesità comporta degli elevati costi sociali. Sempre secondo il rapporto citato, nei paesi dell’Ocse (a cui appartiene anche l’Italia), l’eccesso di peso è responsabile dell’1-3% della spesa sanitaria (5-10% negli Stati Uniti), ma questa spesa è destinata a salire con l’aumento delle patologie correlate all’obesità.
Spesso quest’ultima è caratterizzata dalla presenza di fame compulsiva, una sorta di dipendenza dal cibo del tutto simile a una tossicodipendenza.
Sia in un caso che nell’altro è stato infatti osservato un aumento dei livelli serici di dopamina dopo avere assunto il cibo o la droga. La dopamina è un neurotrasmettitore che conferisce una sensazione di benessere ed è coinvolta nei meccanismi di ricompensa e di motivazione comportamentale. Quindi il cibo, in particolari circostanze, può rappresentare una droga e, per giunta, non solo legalizzata, ma necessaria per la sopravvivenza, per cui diventa molto più difficile stae alla larga.
Fortemente responsabile dell’impennata dell’obesità mondiale è il cosiddetto «cibo-spazzatura» (i vari fast food, snack, preparazioni alimentari industriali, che ci fanno risparmiare tempo in cucina), particolarmente ricco di zuccheri semplici e di grassi saturi, e povero di frutta, di verdura e di cereali integrali. L’industria alimentare fa affari d’oro, grazie alla pubblicità martellante e al basso costo di questo tipo di cibo, il cui valore nutrizionale, inteso non soltanto come apporto calorico, bensì di vitamine, di oligoelementi, di grassi polinsaturi (utili per contrastare l’aterosclerosi) come gli omega-3, è decisamente molto basso.
Tra l’altro va detto che un target molto importante della pubblicità di prodotti alimentari sono i bambini al di sotto degli 8 anni, nei quali viene creata una vera e propria dipendenza psicologica dai cibi ad alto contenuto di grassi e di zuccheri, in modo da indirizzae le scelte future.
Secondo uno studio apparso su Nature, gli alimenti ricchi di grassi e di zuccheri creano la stessa dipendenza del fumo. Si intuisce, in tutto questo, l’enorme giro d’affari dell’industria alimentare prima e di quella farmaceutica dopo. E naturalmente di quella pubblicitaria.
Per contrastare l’obesità, in attesa di conoscere meglio i meccanismi biochimici, che ne sono alla base, valgono i vecchi buoni consigli del medico: alzarsi da tavola con ancora un po’ di appetito e fare gioalmente un po’ di attività fisica (lasciamo a riposo l’auto e l’ascensore, per esempio). E poi diamo la preferenza a frutta, verdura, cereali e grassi polinsaturi vegetali o presenti nel pesce grasso, piuttosto che a carne, grassi saturi di origine animale, zuccheri raffinati e pane bianco.

Rosanna Novara Topino

Rosanna Novara Topino




«Albese» prete e missionario

A tre anni dalla morte pubblicata biograifa di padre Paolo Tablino

È uscito lo scorso marzo 2012 presso le Edizioni S. Paolo il libro intitolato Paolo Tablino – un missionario immerso nel Vangelo, ne è autore don Giovanni Ciravegna, già rettore del Seminario Diocesano di Alba.

È opportuna una premessa: esattamente tre anni or sono, padre Paolo Tablino moriva a Nairobi, in Kenya, all’età di 81 anni, dei quali circa cinquanta vissuti nelle aride terre del Nord del Kenya, ai confini con l’Etiopia, e, per sua volontà, veniva sepolto a Marsabit. In questa regione, d’intatta se pur selvaggia bellezza, caratterizzata da clima ostico e comunicazioni malagevoli, insieme ad altri sacerdoti, religiosi e laici, inizialmente italiani e albesi, aveva annunciato il Vangelo, realizzato scuole, chiese e strutture per la promozione umana, stabilendo contatti con popolazioni di cui, fino agli anni ‘60, poco si conosceva quanto a modo di vivere, lingua e struttura sociale.
Ben noto, pur così lontano, in Alba città e diocesi, aveva sempre mantenuto contatti epistolari e personali con un vasto numero di amici, che, nei tre anni trascorsi dalla morte, hanno mantenuto per lui quanto mai vivo il ricordo, l’affetto e, direi, la venerazione: questo libro soddisfa l’attesa di molti, sia degli amici di lungo corso e quelli più recenti. La prova più evidente della costanza dei legami che tutti costoro mantengono con lui è il gruppo di uomini e donne di ogni età che il giorno quattro di ogni mese – anniversario del suo passaggio al cielo -, si riunisce nel duomo di Alba alla messa delle ore diciotto, preceduta da un’ora di adorazione eucaristica.
Il libro è strutturato linearmente in forma biografica: dopo un flash iniziale sulle impressioni e reazioni seguite alla notizia del decesso, l’autore segue le vicende della vita di Paolo Tablino, dalla giovinezza alla formazione, all’ordinazione sacerdotale, all’impegno missionario, che assume rispondendo all’invito dell’amico don Bartolomeo Venturino, anch’egli albese, primo sacerdote fidei donum in Italia nel 1958, e di mons. Carlo Cavallera, vescovo di Nyeri fino al 1964, poi di Marsabit (vedi MC 2011/03, pag. 16). La narrazione abbina le circostanze individuali ai luoghi in cui ha operato: Alba, Kenya, Roma, rammentando le persone da lui conosciute, ricordando momenti, fatiche, scritti, decisioni importanti di un’esistenza spesa senza risparmio al servizio del Vangelo e degli uomini e delle donne che la vita gli aveva fatto incontrare.
Questa è la struttura di un testo in cui, intercalate nella trama della sua vita s’inseriscono testimonianze, concise talvolta, altre volte approfondite, di persone che l’hanno frequentato, ne hanno condiviso tempi di vita e momenti decisivi, hanno dialogato con lui di argomenti e di scelte di grande rilevanza.
Assai spesso l’autore fa parlare padre Paolo stesso, riportandone scritti da lui inviati e gelosamente conservati dai destinatari: la costanza e la cura nello scrivere a tantissime persone sono state certamente una delle caratteristiche più note e importanti della sua personalità. Queste lettere, che colpiscono per la spontaneità e la capacità di rapportarsi con l’interlocutore, toccano tutti i casi della vita: avvenimenti lieti e tristi, scelte impegnative, drammi e miracoli che solo il cuore conosce. Un complesso di migliaia di fogli, scritti a mano con calligrafia precisa, i più su carta leggera per posta aerea dove i francobolli e le diciture portano immagini esotiche di animali africani o di paesaggi di bellezza primordiale. Sovente si tratta di lettere dense di contenuti dottrinali, pastorali, teologici: queste sono per lo più dirette ai maestri e agli amici del seminario di Alba, del gruppo missionario, dell’Azione Cattolica.
Il libro di don Giovanni Ciravegna attinge in modo esauriente a questa raccolta di documenti, che spazia dai primi appunti giovanili, già rigorosi nella loro semplicità, alle lettere serene della maturità, scritte con il pensiero ormai oltre la morte.
Nel testo parlano anche, con voci riportate in diretta, molti amici, nei quali la richiesta fatta loro dall’autore di fornire una testimonianza personale ha dato avvio a un flusso inarrestabile di ricordi e di memorie comuni, in cui emergono momenti di comunione o di percorsi umani condivisi.
Questa è, in sintesi, la sostanza del libro che vede ora la luce. Il ritratto umano e sacerdotale di padre Paolo Tablino mi pare più che riuscito. Poiché questa è la prima biografia che si presenta al pubblico, senza dubbio è auspicabile un prossimo accurato studio che approfondisca tutti gli aspetti della ricchissima personalità del missionario.
Quello che si può affermare, senza che possa suonare come giudizio riduttivo, è che il protagonista del volume è considerato da un punto di vista quasi esclusivamente «albese»: è albese l’autore, albesi per lo più sono gli amici che ne hanno parlato e Alba è stata ben presente nella vita di p. Tablino, costantemente ricordata nelle savane desertiche del Nord Kenya (la Gazzetta d’Alba vi è sempre arrivata, ben attesa, per anni, coi tempi permessi dalle poste).
Don Giovanni Ciravegna ne esamina accuratamente il periodo giovanile di formazione scolastica e sacerdotale: è questo il momento fondamentale per la comprensione del futuro missionario. Sullo sfondo della Alba degli anni ‘40 e ‘50, l’autore cita i maestri che lo hanno formato, sia sacerdoti che laici, analizza i primi anni di apostolato come prete accanto a uomini di grande livello, impegnati insieme in una molteplice varietà di iniziative. È un periodo di fecondità straordinaria nella fede e nelle opere che segnerà la vita di tanti, di p. Paolo per primo e di tanti amici.
Ma l’uomo e il missionario sono stati molto di più: l’Africa e insieme la missione, a un certo punto della sua vita, sono state le sole cose importanti. I cinquant’anni dedicati alla gente del Nord Kenya dovranno essere oggetto di studio approfondito, magari da parte di uno dei giovani, ora uomini, da lui formati ed avviati a culture e studi per loro del tutto nuovi e neppure immaginati fino a prima di incontrarlo. Gli argomenti su cui lavorare sono ancora molti e tutti di grande interesse: possediamo documenti, in parte pubblicati, in italiano ed in inglese. Mi riferisco agli studi linguistici, etnografici e religiosi sui popoli dell’area Nord Kenya/Etiopia, condivisi con don Bartolomeo Venturino, che gli hanno valso la conoscenza e l’amicizia di studiosi di tutto il mondo. Accenno ancora agli scritti sulla storia dell’evangelizzazione di quella che in epoca coloniale era l’inaccessibile Northe Frontier (frontiera settentrionale). In questo campo, la sua testimonianza, vissuta direttamente e condivisa con persone ormai quasi tutte scomparse, è preziosa e insostituibile. I due volumi, pubblicati in inglese dalle Paulines Publications Africa delle Figlie di S. Paolo di Nairobi, costituiscono una miniera fondamentale per la storiografia dell’evoluzione umana e cristiana del Nord del Kenya, presentata nel contesto dello sviluppo della Chiesa nell’Est Africa ed in Etiopia, a cui sono dedicati alcuni accurati capitoli.
Esiste poi una larga quantità di studi biografici di persone da lui conosciute, intrapresi per fae memoria e per manifestare gratitudine: i suoi maestri e amici Alberto Abrate, Giuseppe Pieroni, Sandro Toppino, don Mario Mignone, mons. Pietro Rossano, don Natale Bussi, don Agostino Vigolungo ed altri ancora.
Mi piacerebbe che questa ulteriore ricerca biografica potesse illuminare altri aspetti – appena accennati nel libro di don Ciravegna – di una personalità di grande rilievo. Sarà una volta di più confermata la statura di un uomo che, fino all’ultimo, ha tenuto fede all’intuizione ricevuta a sedici anni: quella di un mandato che, nel termine latino che lo definisce, missio, suona come sinonimo di quella che è stata la sua ragione di vita: la missione.
Cito per conclusione le parole dello stesso p. Tablino in chiusura del libro I Gabbra del Kenya:
«Se Gesù Cristo ci ha detto di andare a tutte le genti, egli sapeva che tra queste c’erano anche i Gabbra. Tutte le nostre incertezze e le nostre opinioni non possono cancellare il valore di quel mandato».

Silvio Veglio
(architetto, discepolo-amico di don Tablino e volontario per alcuni anni nella diocesi di Marsabit)

Silvio Veglio