Paradiso «artificiale»

Reportage da Dubai: grattacieli nel deserto

Dalla pesca e coltivazione di perle al boom del petrolio, Dubai è uno specchio della penisola Arabica: un miscuglio di ambizioni e contraddizioni, megalomanie e sfruttamento umano, tradizionalismo islamico e modeità, tolleranza religiosa e umori di rivolta… ma affari e finanza mettono tutto e tutti d’accordo.

Fu il veneziano Gaspero Balbi, nel 1580, il primo a nominare nel suo diario l’industria perlifera che fioriva lungo le coste di Dubai. Nei mercati di Venezia le perle di Dibei erano tra le mercanzie più ambite dalla nobiltà e le piccole sferette di madreperla rimasero l’unica risorsa del porto arabo fino agli anni Trenta del Novecento, quando l’industria delle perle artificiali indusse il governatore del regno, lo sceicco Saeed bin Hasher al Maktoum e in particolare il suo successore Rashid bin Saeed al Maktoum, a cercare altre forme di sviluppo.
Dapprima fu l’ampliamento del porto di Dubai, nel 1963, ad attirare i primi investimenti. Grazie alla favorevole posizione geografica, a pochi chilometri dalle coste iraniane, e alla presenza di numerosi commercianti indiani, la città diventò il principale centro di scambio dell’oro nel Medio Oriente. «Ancora oggi il Gold Souk è una delle attrazioni turistiche e commerciali più visitate di Dubai, ma pochi sanno che proprio da queste stradine si è costruita l’immensa ricchezza della metropoli» spiega Praful Soni, proprietario della Shyam Jewellers, una delle più antiche oreficerie della città.

Risorse diversificate
Ma gli ambiziosi piani della famiglia Maktoum non avrebbero potuto realizzarsi senza lo sfruttamento di quello che è stato il vero propellente dello sviluppo del piccolo regno arabo: il petrolio. La scoperta alla metà degli anni Sessanta dei primi giacimenti, ha permesso lo sviluppo di una fiorente industria, consentendo a Dubai di prevalere sull’eterna rivale Abu Dhabi, capitale politica degli Emirati Arabi Uniti.
Una prosperità che sarebbe effimera, quella di Dubai, visto che gli esperti prevedono che già nel 2025 le viscere dello sceiccato si prosciugheranno. «La ricchezza petrolifera degli Emirati è sempre stata monopolizzata da Abu Dhabi – mi dice Hisham Abdullah Al Shirawi, vice presidente della Camera di commercio di Dubai – ma Dubai ha saputo diversificare in tempo le proprie risorse, mantenendo una supremazia economica e culturale riconosciuta da tutto il mondo».
L’attuale governatore di Dubai, Sheikh Mohammed bin Rashid Al Maktoum, ha saputo anticipare gli eventi sino a ridurre al 6% i ricavi economici derivanti dall’export petrolifero (contro il 25% dell’intera nazione) trasformando la città in una sorta di calamita per gli investimenti stranieri. Chi arriva qui, aspettandosi di trovare pozzi petroliferi, raffinerie e le tipiche fiamme che illuminano la notte delle desolate lande del deserto, rimane deluso. Dubai si è trasformata in un centro finanziario mondiale e la città è il punto nevralgico non solo della nazione, ma dell’intero Medio Oriente. Nel suo immenso aeroporto, il quarto del pianeta, transitano 60 milioni di passeggeri all’anno trasportati da 150 compagnie che collegano 220 destinazioni, mentre nelle 49 banchine del porto di Dubai i 30.000 lavoratori smistano annualmente 12 milioni di Teu (l’unità di misura standard nel trasporto dei container; un container da 6,1 metri corrisponde a 1 Teu, ndr). Il Pil, pari a 50 miliardi di euro, è garantito per il 22,6% dagli investimenti immobiliari, per il 16% dal commercio e per l’11% dai servizi finanziari.

Crisi e sorpasso di Abu dhabi
Ma Dubai è ancora febbricitante: il ricordo della crisi che ha colpito la finanza, ma ancora più duramente l’orgoglio di tutti gli Emirati, è una ferita ancora aperta. Già, la «crisi del debito di Dubai». Così è stata chiamata dal mondo finanziario la più grave congiuntura che ha colpito la monarchia islamica in tutta la sua storia, rischiando di far crollare l’impero creato dalla famiglia Al Maktoum.
Il 29 novembre 2009 il colosso Dubai World, il principale conglomerato imprenditoriale dell’Emirato controllato dalla casa regnante, aveva annunciato di non essere in grado di far fronte al pagamento di 26 miliardi di dollari di debiti, di cui 4 miliardi di sukuk, i bond islamici, i più importanti di tutto il mondo musulmano. Senza finanziamenti, il giorniello del Dubai, il Dubai Burj (torre), il più alto grattacielo al mondo, oramai quasi ultimato, avrebbe rischiato di rimanere un immenso cantiere aperto, e la sua guglia incompiuta a 828 metri di altezza si sarebbe trasformata in un chiodo arrugginito piantato nel centro della città a simboleggiare il fallimento della sua economia.
A soccorrere Dubai è intervenuta però l’eterna rivale Abu Dhabi, con un prestito di 10 miliardi di dollari che ha permesso di terminare la costruzione del Dubai Burj, stranamente (ma non troppo) ribattezzato, a pochi giorni dall’inaugurazione (4-1-2010), Burj al-Khalifa (Torre del Califfo), un omaggio, neppure troppo celato, a Khalifa bin Zayed Al Nahayan, presidente degli Emirati Arabi Uniti (Eau) e sceicco di Abu Dhabi. Insomma, uno schiaffo alla famiglia Al Maktoum che molti analisti hanno interpretato come una volontà di ridistribuzione di poteri all’interno dell’Emirato. Abu Dhabi, infatti, pur essendo la capitale politica dello stato, è sempre stata economicamente in secondo piano rispetto a Dubai. Christopher Davidson, professore di politica del Medio Oriente alla Durham University, asserisce che «la crisi del 2009 ha fatto perdere a Dubai l’autonomia che, de facto, aveva da 170 anni. Ora è Abu Dhabi l’emirato emergente ed è chiaro che la capitale degli Eau sta cercando di dare un’impronta più centralizzata e meno autonomista all’intera nazione».
Approfittando della crisi finanziaria, Abu Dhabi ha iniziato la sua ascesa economica in competizione con Dubai. La compagnia di bandiera di Abu Dhabi, la Etihad, sta togliendo importanti fette di mercato alla Emirates Airlines; la capitale si è aggiudicata lo svolgimento del Gran Premio di Formula 1 ed ha costruito il Ferrari World, l’unico parco a tema al mondo dedicato alla scuderia di Maranello. Nei prossimi anni verranno inaugurati musei come il Louvre Abu Dhabi e il Guggenheim, mentre l’aeroporto, che oggi ospita 12 milioni di passeggeri all’anno, sta per essere ampliato in modo da garantie il transito di 40 milioni. Infine, dulcis in fundo, durante la visita della regina Elisabetta d’Inghilterra nel novembre 2010, lo sceicco di Abu Dhabi ha ufficialmente varato il suo programma nucleare che vede accordi con Stati Uniti, Corea del sud, Francia e Gran Bretagna e la costruzione di 4 reattori entro il 2020.

Uno stop alla megalomania
Insomma, viene da chiedersi se la prospettiva proposta nel 2007 da Sheikh Mohammad bin Rashid Al Maktoum, di trasformare Dubai in «una città araba di importanza globale che rivaleggi storicamente con Cordoba e Baghdad» si sia arenata.
«Non è facile rispondere a questa domanda» afferma Stephanie Fisher, consulente dell’American Business Council di Dubai; «governo e ditte private non rilasciano dichiarazioni facilmente ed è quindi obiettivamente difficile capire come stia andando l’economia dell’Emirato».
Comunque è chiaro che la megalomania araba si è alquanto ridimensionata. Basta andare a fare un giro con la sofisticata linea della metropolitana, costata più di 4 miliardi di dollari, per accorgersi che numerosi cantieri sono ancora fermi e che tra una zona e l’altra, vi sono chilometri di «nulla»: aree di sabbia da anni precettate dai conglomerati finanziari e su cui, in attesa di tempi migliori, sorgeranno futuristici parchi, campi da golf, hotel, parchi tematici, grattacieli, centri commerciali. «Sulla carta ci sono progetti per quasi 500 miliardi di dollari, ma molti sono stati sospesi per mancanza di liquidità» mi dice Ahmad Othman, dell’Ufficio Comunicazioni della Hsbc, una delle maggiori agenzie finanziarie e bancarie del mondo.
Delle famose isole artificiali, tutte progettate e costruite dalla Nakheel, appartenente, manco a dirlo, alla famiglia reale, solo una, The Palm Jumeirah, è stata quasi ultimata. Gli altri progetti, compresi i tanto reclamizzati The World Islands, The Universe, Palm Deira e Dubai Waterfront, sono stati interrotti o la data di completamento procrastinata sine die.
Naturalmente i grandi gruppi finanziari e i governanti ostentano fiducia: «Dopo la grande crisi che ci ha colpito nel 2009 e nel 2010, il Pil di Dubai crescerà del 4,6% nel 2011, dimostrando a tutto il mondo la solidità della nostra economia e l’abilità dei nostri governanti» sentenzia Hamad Buamin, direttore della Camera di Commercio e dell’Industria di Dubai.

Gli immigrati
Il suo ottimismo, però, crolla di fronte alle critiche di Saabir, immigrato pakistano che abita nel quartiere di Deira: «È naturale che il Pil di Dubai aumenterà del 4,6% nel 2011, visto che il governo ha aumentato del 15% acqua ed elettricità, del 33% la benzina e del 40% i biglietti dei servizi pubblici! Come sempre, l’emirato si arricchisce a spese degli immigrati!».
Saabir ha il dente avvelenato nei confronti degli arabi. E non a torto. Dei 2,3 milioni di abitanti di Dubai, solo il 17% sono cittadini dell’Emirato, il restante 83% sono immigrati, la maggioranza dei quali svolge lavori di manovalanza. Il 42% sono indiani, il 13% pakistani, l’8% bengalesi, il 2,5% filippini. Gli immigrati «di lusso», europei e nordamericani, sono solo 1,2% della popolazione cittadina, ma, assieme agli arabi, detengono tutti i posti di comando della finanza e dell’economia. Sono loro che vivono nella fantasmagorica Dubai, quella dei grattacieli, alberghi mozzafiato, centri commerciali più grandi al mondo.
Nell’albergo dove alloggio, il Movenpick Jumeirah, il personale si dice soddisfatto del trattamento: «La direzione e il management sono attenti alle nostre esigenze e la paga è estremamente alta, se comparata con quella dei nostri colleghi in Europa» spiega una ragazza della reception. La stessa soddisfazione la riscontro tra le cameriere della sala della colazione.
Ma so che questa è solo una fortunata minoranza: la maggioranza degli altri stranieri vive in condizioni di semischiavitù. Orari di lavoro impossibili, stipendi inadeguati, ammortizzatori sociali inesistenti, case fatiscenti sono facili micce per proteste. Le più eclatanti sono state quelle che hanno interessato la convulsa costruzione del Burj Khalifa quando, nel marzo 2006 e novembre 2007, 2.500 lavoratori protestarono chiedendo condizioni di vita migliori e paghe più adeguate. Il Ministero del Lavoro rispose facendo intervenire la polizia e minacciando i manifestanti di deportazioni in massa nei loro paesi d’origine.
Samer Muscati, ricercatore dell’Human Rights Watch (Hrw), mi descrive una situazione disastrosa: «I lavoratori stranieri impiegati in ditte edili vengono pagati tra i 100 e i 250 euro al mese per lavorare 12 ore al giorno, 6 giorni alla settimana. Molto spesso le compagnie che assoldano gli operai sequestrano loro i passaporti per ricattarli, obbligandoli a lavorare senza alcuna condizione di sicurezza. I sindacati sono inesistenti; chi solo cerca di organizzare un’associazione che tuteli i diritti dei lavoratori viene immediatamente espulso».
Fuori dal Burj Khalifa, incontro Ravi, un lavoratore indiano. È la sua pausa pranzo e ci sediamo all’ombra dei luccicanti vetri che ricoprono la facciata del grattacielo: «L’Arabtec, la ditta che ha costruito il Burj Khalifa, ci alloggiava in una cinquantina di campi lavoro sparsi attorno a Dubai, lontano dagli occhi dei turisti. A loro si deve far vedere il paradiso». Vedere questa povertà assoluta, infatti, rischierebbe di smantellare il mito di Dubai come una sorta di Disneyland araba.
Eppure lo sceiccato di Dubai è stato il primo nella storia a denunciare la tratta degli schiavi nel 1820, quando con il governo di Sua Maestà siglò il «General Maritime Peace Treaty».

il paradiso che non c’è
Con un gruppo della Caritas visito uno di questi quartieri e mi ritrovo in una fogna a cielo aperto: sporcizia ovunque, case fatiscenti dove in pochi metri quadrati alloggiano anche 20 persone in un’atmosfera di promiscuità assoluta. Le latrine sono perennemente intasate e d’estate, con 50 gradi, l’odore è nauseabondo; una sorta di cappa infeale che rende la vita impossibile. L’acqua, bene prezioso per una città come Dubai, viene spesso razionata per permettere il continuo rifoimento negli alberghi e nelle zone commerciali. Il solo sistema di condizionamento del Burj Khalifa equivale allo scioglimento di 12.500 tonnellate di ghiaccio; mantenere il green del campo da golf Tiger Woods richiede 18 milioni di litri di acqua al giorno, nel centro commerciale Mall of the Emirates c’è una pista da sci da 500 metri con impianti di risalita, uno chalet svizzero e una temperatura costantemente mantenuta tra i 4 e i 10 gradi sotto lo zero, mentre il grandioso e lussuoso complesso Atlantis, oltre ad avere un parco acquatico con 40 milioni di litri di acqua, vanta un hotel letteralmente immerso in un acquario, dove gli ospiti hanno l’impressione di dormire, mangiare e farsi la tornilette tra squali, ceie, murene. Il paradiso descritto da Ravi. Ma non c’è posto per tutti in questo paradiso e Ravi, come molti altri suoi colleghi, che questo paradiso lo hanno costruito, sono costretti a vivere nell’inferno.
La condizione delle collaboratrici domestiche è ancora peggiore: segregate nelle lussuose ville dei loro padroni, sono spesso oggetto di abusi sessuali. Un sondaggio condotto dall’Hrw nel gennaio 2010, ha evidenziato il terrore della componente femminile nel denunciare eventuali soprusi commessi a loro danno. Il 55% delle donne, infatti, ha ammesso che non contesterebbe alcun abuso sessuale per paura di ritorsioni delle famiglie ospitanti. Del resto non c’è da stupirsi di tanta omertà, visto che la corte di giustizia è sottomessa alla famiglia reale, tanto da assolvere dall’accusa di tortura Sheikh Issa bin Zayed al Nahyan, figlio del precedente presidente degli Emirati, nonostante un video lo inchiodasse. Il motivo dell’assoluzione? Lo sceicco sarebbe stato vittima di una cospirazione.

Islam differente
Passeggiando lungo la Jumeirah Beach, la spiaggia pubblica all’ombra del Burj Al Arab, davanti all’hotel più lussuoso del mondo, dove il costo di una stanza va da mille a 28 mila dollari a notte, vedo giovani arabi d’ambo i sessi bagnarsi nelle stesse acque e prendere il sole in bikini. «Ciò accade solo a Dubai – mi avverte mons. Paul Hinder, vicario apostolico del Sud Arabia -. Ad Abu Dhabi, ad esempio, le spiagge sono ancora separate secondo l’usanza islamica».
A Dubai incontro un islam completamente differente da quello conosciuto in altri paesi. «Questo è il vero islam» mi dice Nasif Kayed, direttore del Centro per la comprensione culturale (Sheikh Mohammed Centre for Cultural Understanding, Smccu), rinnegando quanti si arrogano il diritto di affermare nel mondo altre componenti musulmane: dai taleban agli ayatollah, dagli hezbollah ai fratelli musulmani.
Qui tradizione e modeità hanno saputo armonizzarsi tra loro sino a convivere e a trasformarsi a vicenda, per cui l’islam che si respira è assai diverso da quello di altre culture musulmane. Non potrebbe essere altrimenti, in una città che ha fatto della globalizzazione spinta, la sua bandiera. Una islamizzazione radicale avrebbe potuto allontanare imprenditori e finanziatori. Tutti sanno che Dubai è sempre stata la lavanderia dei soldi destinati alla jihad. La famiglia Bin Laden ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la famiglia regnante e lo stesso Osama bin Laden, negli anni passati è stato ricoverato negli attrezzatissimi ospedali dell’Emirato. Il governo degli Eau, del resto, è stato l’unico al mondo, assieme a quelli del Pakistan e Arabia Saudita, a riconoscere l’Afghanistan dei taleban, ma è anche uno dei paesi arabi che mantiene strette relazioni politiche e militari con gli Stati Uniti, sino a garantire alle forze statunitensi due basi militari sul suo territorio.
Anche se la costituzione garantisce all’islam il ruolo di religione di stato, a Dubai esistono chiese cristiane, templi hinduisti e sikh, gli hotel inteazionali possono servire alcolici e carne suina.
Ma se l’islam «di stato» può essere tollerante, molti immigrati non accettano questo «inquinamento» di valori: «Dubai si è venduto all’Occidente e ha perso la via indicata dal profeta – mi spiega Khurram, un pakistano di Quetta da cinque mesi arrivato a Dubai -. Noi musulmani non possiamo neppure andare in spiaggia senza vedere donne nude o uomini che bevono birra o alcolici. Dubai non è l’islam e non è un luogo dove vorrei vivere».
Gli fa eco Shamil, anche lui pakistano: «L’islam predica l’unità dei fedeli per combattere gli infedeli, ma qui a Dubai sembra che i nostri fratelli si siano alleati con gli infedeli per combattere i fedeli. Una jihad al contrario».
A Khurram e Shamil risponde senza mezzi termini Nasif Kayed: «Se la pensano così, allora perché vanno in spiaggia? Se non vuoi vedere questa “promiscuità” o gente bere alcolici, non andare in spiaggia né ai bar: sai benissimo che se vai in questi luoghi, troverai queste situazioni».
La sfida religiosa di Dubai è proprio quella di restare in equilibrio su un filo sospeso nel baratro della rivolta religiosa. Da una parte il governo di Al Maktoum deve soddisfare le aperture richieste dall’Occidente, dall’altro non può negare a chi mantiene il «paradiso» la propria religiosità. E allora ecco che una richiesta per una scuola cattolica, rimane ferma da quattro anni sulla scrivania di un ministero.
Il motto del Smccu è «Open doors. Open minds», aprire le porte, aprire le menti, ma è obiettivamente difficile applicare questa massima a una città che fa della finanza e della crescita economica l’unico senso della sua esistenza.
Ma, forse, è proprio questa sfida che Sheikh Mohammed bin Rashid al Maktoum, principe di Dubai, vuole vincere, come ha scritto in una sua poesia:
«Le notti buie e i difficili giorni;
li accogliamo come ci vengono dati
e non abbiamo timore del futuro.
Camminiamo lungo un sentirnero non ancora battuto
e se la via è difficile, mi diverto maggiormente».

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




La chiesa cresce nella culla dell’islam

Discepoli di Cristo nella terra di Maometto

Mentre in Medio Oriente si assiste all’esodo dei cristiani, nella Penisola Arabica il numero dei fedeli di Gesù cresce senza sosta, formando una chiesa giovane, vivace, ma «pellegrina», povera di strutture e soprattutto a libertà vigilata.

«Quando nel 2003 fui nominato vicario apostolico d’Arabia, che allora copriva 6 paesi (Emirati Arabi, Oman, Yemen, Arabia Saudita, Bahrein e Qatar), il vescovo di Münster in Germania, mio amico, mi scrisse una lettera di congratulazioni, aggiungendo: “Ma non so cosa vai a fare in Arabia, perché non ci sono cristiani”. Gli risposi subito che avevo forse più cattolici di lui». Inizia così, sorridendo, mons. Paul Hinder, alla richiesta di tracciare un quadro generale della chiesa cattolica nella Penisola arabica. «Non esistono cifre ufficiali, ma dalle stime fatte sulla base delle indicazioni delle ambasciate in loco, si calcola che nei due vicariati ci sono oltre 4 milioni di cristiani, tre quarti dei quali cattolici».

Puramente pellegrina
Facciamo i calcoli, anche se rimangono approssimativi. Con circa 1 milione e 400 mila immigrati filippini, per l’85% cattolici, e altrettanti indiani, è plausibile che in Arabia Saudita il numero dei soli cattolici si avvicini a due milioni. Negli Emirati Arabi, secondo gli ultimi dati, ci sono circa 6 milioni di abitanti, di cui 5 costituiti da lavoratori stranieri. La stragrande maggioranza di tali immigrati professa l’islam (circa 3,2 milioni), ma i cristiani sarebbero oltre un milione e mezzo, di cui 580 mila cattolici. Un buon numero di cristiani è di lingua araba (oltre 100 mila, 12 mila solo ad Abu Dhabi) e proviene da Libano, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. Analoga situazione si riscontra in Kuwait, la cui popolazione è formata da un milione di cittadini e due milioni di stranieri; di questi immigrati circa 500 mila sono i cristiani, tra i quali i cattolici sono 350 mila (320 mila di rito latino e 30 mila di rito orientale).
«Prima di tutto la nostra è una chiesa puramente pellegrina – continua mons. Hinder -. Siamo tutti stranieri; non ci sono cittadini cristiani, salvo qualche sparuta eccezione in Yemen e Kuwait. Siamo tutti a tempo: anche noi, vescovi, preti e suore, tutti dobbiamo rinnovare il permesso di soggiorno, che non sarà mai un permesso permanente».
Si può dire che la prosperità dei paesi del Golfo è resa possibile dagli stranieri, gente molto attiva, ma a volte molto povera: moltissime donne e moltissimi uomini vivono con il minimo, spesso trattati come schiavi. Le condizioni per la loro presenza in questi paesi sono molto chiare: devono avere un visto debitamente ottenuto, che sarà sempre temporaneo; nessuno straniero può accedere alla cittadinanza araba, né possedere terre o immobili; nessuno sciopero è permesso né reclamare in pubblico; non esiste alcuna sicurezza sociale né tutte le facilitazioni per salute, studio, abitazione… godute dai cittadini arabi. Ogni infrazione legale causa l’espulsione immediata. Gli immigrati sono utilizzati secondo le necessità del paese. «I nostri fedeli – spiega mons. Camillo Ballin, vescovo del Kuwait e ora vicario apostolico dell’Arabia settentrionale – sanno che nessun paese del Golfo sarà la loro nuova patria; vi possono restare finché́ hanno un visto di lavoro; quando il lavoro verrà a mancare o arriverà l’età della pensione, dovranno tornare al proprio paese o cercarsi un’altra nazione, di solito gli Stati Uniti». 

Evviva… la babele
Quella d’Arabia è una Chiesa molto viva, formata a volte da realtà piccolissime e in situazioni d’insicurezza, come quelle presenti nello Yemen, altre volte da parrocchie mastodontiche, come quella di Saint Mary a Dubai, con 200 mila fedeli, dove ogni settimana si distribuiscono più di 50 mila comunioni. Ad Abu Dabi dal venerdì alla domenica si susseguono decine di migliaia di fedeli in una dozzina di messe.
La pratica per molti cattolici rimane difficile, prima di tutto a causa delle distanze; ma anche dove ci sono luoghi di culto, essa si riduce spesso a Natale e Pasqua, perché in molti casi i padroni musulmani non danno il permesso di recarsi in chiesa in modo regolare, specialmente se si tratta di domestiche.
«Se tutti venissero in chiesa non sapremmo come accoglierli  – spiega mons. Ballin -. Il problema dello spazio è enorme in tutti gli stati del Golfo. In Kuwait abbiamo solo due chiese e due cappelle per oltre 300 mila fedeli. La cattedrale è stata costruita 50 anni fa per 700 persone, ma ad ogni messa ne abbiamo almeno mille. Una situazione che molti parroci europei, le cui chiese sono spesso semi vuote, invidierebbero; ci vorrebbe il miracolo di Loreto: un volo di qualche cattedrale europea dalle parti del Golfo» conclude il vescovo sorridendo.
«Siamo una realtà piccola, ma molto variegata, che, nonostante la sua piccolezza, riflette tutta la ricchezza spirituale della Chiesa cattolica» continua mons. Ballin. I fedeli sono diversi per nazionalità e cultura: indiani, filippini, bengalesi, singalesi, pakistani, coreani, egiziani, etiopi, arabi mediorientali, europei, americani… Alle differenze nazionali si aggiunge la diversità dei riti e delle lingue: rito latino,̀ celebrato in inglese, konkani, tagallog, tamil, singalese, bengali, oltre a francese, italiano, polacco e arabo; riti siro-malabarico e siro-malankara, officiati in lingua malayalam; riti maronita e copto celebrati in arabo, con parti rispettivamente in siriaco e in copto.
Si possono immaginare le difficoltà provocate da una babele del genere, soprattutto quando si tratta di programmare le varie cerimonie e fissare spazi e tempi in cui le differenti comunità possono riunirsi. Ne è un esempio la veglia pasquale in Kuwait: alle 19 comincia la celebrazione in lingua konkani; alle 21 inizia la veglia in inglese presieduta dal vescovo, che deve finire entro le 23, per dare spazio alla veglia in arabo, che a sua volta deve terminare entro le 24.30, quando comincia quella di rito maronita. E sono tutte affollatissime con migliaia di persone.
«Dal punto di vista logistico il problema di far quadrare il cerchio si presenta anche durante l’anno – continua mons. Ballin -. Ma i miei preti sono abilissimi al riguardo». Per accontentare tutti, per quanto è possibile, le celebrazioni domenicali si fanno in contemporanea: cioè,̀ mentre un sacerdote celebra in cattedrale, altri preti celebrano in altre lingue o riti nei grandi saloni al pianterreno, nel sotterraneo e al primo piano. In certi periodi, come Natale, Settimana Santa, Pasqua, primo e ultimo giorno dell’anno e alcune feste della Madonna, è del tutto normale celebrare una ventina di messe al giorno. Un altro esempio è la veglia nottua tenuta ogni terzo giovedì del mese, dalle 10 di sera alle 6 del mattino seguente: vi partecipano sempre oltre mille persone, dall’inizio alla fine.
«Abbiamo fedeli ferventi e molto praticanti, che sono una grande consolazione per noi pastori – conclude il vescovo Ballin -. Non hanno altri appoggi se non nel Signore. Molti di loro sono soli: per portare la famiglia devono avere un salario mensile di almeno mille dollari. Tale solitudine è̀ molto sentita soprattutto nelle grandi feste».

Libertà… vigilata
La maggior parte dei fedeli che compongono la chiesa d’Arabia sono giovani, animati quindi di entusiasmo e voglia di impegnarsi tipica della loro età; ma deve fare i conti con una libertà religiosa molto limitata. La libertà di coscienza non esiste affatto o è a senso unico, cioè, un cristiano può farsi musulmano, ma un musulmano non può farsi cristiano.
Sulla libertà di culto bisogna fare notevoli distinzioni, a cominciare dai luoghi di culto. Re e sceicchi dei paesi del Golfo (Arabia Saudita esclusa) si sono dimostrati comprensivi nel permettere edifici per il culto, almeno uno in ogni loro stato; ma non più di una per città, come avviene negli Emirati Arabi. Non esiste alcun contratto stabile sulla proprietà e sull’uso degli edifici, scuole e chiese: tutto funziona finché persiste il benvolere del monarca. Poiché lo straniero non può possedere niente in questi paesi, anche il suolo dove si trovano le chiese è dato in affitto dal governo, che può richiederlo indietro in qualsiasi momento per costruirvi una strada, una piazza o altra struttura di comune vantaggio.
Generalmente non è permesso alcun segno esterno che possa far notare la presenza cristiana, come croci e campanili, suono di campane o altoparlanti; ogni chiesa è spesso affiancata da una o più moschee dalle dimensioni imponenti e con vistosi e altisonanti mezzi di presenza, anche quando i praticanti sono scarsi.
All’interno dei luoghi concessi alla chiesa c’è totale libertà di culto; si possono svolgere tutti i riti e cerimonie che si vogliono; ma tutto deve rimanere dentro le mura di cinta del complesso parrocchiale; nulla deve apparire all’esterno. La polizia vigila; ma lascia fare. Generalmente non si ha l’impressione di essere controllati. «Anche nelle mie prediche sono libero – afferma mons. Hinder -. Sono più libero del mio vicino imam, che il venerdì deve usare il testo ufficiale fornito dal ministero degli affari religiosi o un suo testo sottoposto all’approvazione dello stesso ministero. A me e ai nostri preti ciò non è richiesto. Abbiamo quindi una certa libertà negli Emirati, sultanato di Oman, Qatar e Bahrein».
«Forse il nostro lavoro sembra ristretto al ruolo liturgico – continua mons. Ballin -. Non ci è possibile avere alcun ruolo sociale, tanto meno prendere posizioni o fare dichiarazioni in difesa dei diritti negati a qualsiasi cattolico. Ma non ci accontentiamo delle grandi folle; pensiamo anche a quelli che per vari motivi e condizioni non possono venire a celebrare con gli altri o credono di non avee bisogno e cerchiamo di aiutarli a essere veramente cristiani nel mare magnum musulmano».
E questa è un’altra sfida della Chiesa in terra arabica: molti cattolici confessano di sentirsi più cristiani di quanto non lo fossero in patria; vivere immersi nel mondo islamico li rende autenticamente testimoni di Cristo e responsabili nel dimostrare che il cristianesimo non si identifica con lo stile di vita che va per la maggiore in Occidente.

Nella culla di Maometto
L’Arabia Saudita «in fatto di libertà è molto in ritardo a causa del sistema politico-religioso dello stato – spiega benignamente mons. Hinder -. Il re attuale, il quasi novantenne Abdallah Ibn Abd el Aziz, è impegnato a introdurre lentamente certe riforme, ma non sappiamo se continuerà su questa strada, sia per le enormi resistenze della società saudita, sia per l’incertezza della sua successione. Ma non entro nei dettagli, poiché si tratta di un argomento delicato e non voglio mettere a rischio quel poco che possiamo fare. Spero che passo passo, con discrezione, possiamo migliorare la situazione».
Non è un mistero per alcuno che nel regno saudita i diritti umani sono calpestati, quello della libertà religiosa e di coscienza non esiste affatto. L’unica religione ammessa è l’islam, nella sua versione giuridico-teologica del fondamentalismo wahhabita. In base a una rigorosa prescrizione coranica, la patria di Maometto è suolo sacro e non può esservi tollerato alcun altro culto all’infuori dell’islam. Agli inizi tale sacralità era ristretta alla Mecca e Medina; ma il secondo califfo (634-644) la estese a tutta la penisola.
In base a tale principio è proibito qualsiasi esercizio e segno religioso, chiesa o luogo di culto anche per le cosiddette religioni del libro, ebraismo e cristianesimo, tollerate nel resto del mondo musulmano. È vietato a tutti, anche a visitatori, avere con sé libri religiosi e bibbie, indossare o esporre simboli religiosi, come crocifissi e rosari. Non parliamo di conversione dall’islam al cristianesimo, considerata apostasia, punita con la morte, anche se da tempo non si hanno notizie di esecuzioni per tale reato.
In barba a tale proibizione, nella culla dell’islam, il numero dei cristiani, e quindi dei cattolici, è più alto che in tutto il Medio Oriente. Sono gruppi diversi per riti, lingua e nazione, provenienti dall’Asia, ma anche dall’Africa, Etiopia ed Eritrea soprattutto, che si organizzano anche clandestinamente.
Il governo tollera la loro presenza, finché rimane discreta e occulta. Una tolleranza ufficiosa che permette ai cristiani stranieri di praticare la propria fede «in privato», ma «senza disturbare gli altri». Ma poiché non è ben definito cosa significhi «in privato»,  negli anni più recenti si sono avuti non pochi soprusi da parte della muttawa, la polizia religiosa, che ha potere di perquisire le abitazioni dei cristiani, requisire crocifissi, bibbie, icone, rosari o altri oggetti e simboli religiosi, fino ad arrestare i cristiani sorpresi a pregare.
È pur vero che da quando sul trono saudita siede Abdallah Ibn Abd el Aziz (2005), è diminuito il numero di arresti di cristiani: il sovrano ha limitato i poteri della muttawa. Anzi, il monarca sembra diventato un campione di dialogo interreligioso, promuovendo incontri interconfessionali e interreligiosi. Il 7 novembre 2007 ha fatto visita al papa Benedetto XVI: l’incontro tra il monarca saudita, «custode delle due sante moschee» (Mecca e Medina), e il capo dei cattolici di tutto il mondo è stato definito «storico» dalla stampa araba e ha acceso la speranza di qualche spiraglio di libertà religiosa nel regno saudita, ma per ora ogni speranza rimane nel cassetto. 

Una protesta non fa primavera
La cosiddetta «primavera araba», l’ondata di proteste scoppiata nel Nord Africa, ha portato lo Yemen sull’orlo di una guerra civile, sconvolto il Bahrein e lambito altri paesi del Golfo, come Arabia Saudita e Oman, che si sono affrettati a promettere qualche riforma politica, economica e sociale; il resto della penisola è rimasta molto calma. Tuttavia il vento della rivolta araba ha provocato tra i cristiani del Golfo «grande preoccupazione per il loro futuro – afferma mons. Ballin -. Temono di perdere il lavoro e di essere rimpatriati nei paesi di provenienza. L’instabilità politica li spaventa e in nessun modo hanno preso parte alle proteste».
«Non sono profeta – sorride mons. Hinder – ma credo che anche nel mondo arabo-musulmano del Vicino Oriente si stiano facendo passi avanti. Tuttavia dobbiamo sempre tenere presente che in ambito di libertà e diritti umani lo sviluppo non sarà lineare, si possono avere due passi avanti e uno indietro; a volte uno avanti e due indietro».
Nulla di nuovo in vista per quanto riguarda la libertà religiosa. I rapporti tra gerarchia cattolica e governanti, a parte l’Arabia Saudita, sono sempre cordiali. Il problema sorge nel passaggio ai fatti: quando si chiede un nuovo spazio o permessi per costruire, per aprire una nuova scuola o rinnovae una già esistente… ai livelli superiori di governo dicono di sì, ma a quelli più bassi gli ostacoli si moltiplicano e sono insuperabili, sia perché le amministrazioni sono spesso in mano a fondamentalisti, sia perché di fronte a qualsiasi evento, anche piccolo, sorgono subito sospetti di proselitismo, anche se nessuno dei preti cattolici si sogna di convertire un musulmano, col rischio di espulsione o chiusura delle loro opere. Al contrario, quando qualcuno, cristiano o di altra religione, si converte all’islam la notizia viene sbandierata con tutti i mezzi di comunicazione.
E tutto questo in barba alla reciprocità invocata in Occidente, quando, concedendo permessi di costruire moschee si chiede che anche nelle regioni a maggioranza islamica sia possibile costruire chiese o comunque sia garantita la libertà di cambiare religione. «È bene che ne parlino i capi di stato quando vengono in visita nei paesi cristiani – afferma mons. Hinder -; ma più che parlare di reciprocità, è importante insistere sul rispetto della libertà di culto e di religione. Inoltre è importante il modo con cui si dicono le cose, si pongono i problemi, senza umiliare i paesi arabi, i nostri interlocutori. E questo vale per tutti gli ambiti: ci troviamo di fronte a persone che sono orgogliose, che non vogliono essere accusate, che non ammettono di essere umiliate».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Ben tornata, Arabia felix

Premessa

Fino a 40 anni fa la costa araba che si affacciava sul Golfo Persico era divisa da sette minuscoli regni abitati da 44 diverse tribù il cui unico comune denominatore era la lingua e il senso d’appartenenza alla umma, la comunità islamica. Piccoli stati, divisi, poverissimi, senza alcuna risorsa se non la sabbia; 83.600 kmq di deserto che per 1.318 km si tuffavano nelle acque del Golfo Persico. Lungo la sabkha, la fascia costiera prospiciente il mare, sorgevano piccoli porticcioli, abitati per lo più da pescatori e commercianti che, con i loro piccoli dhows, veleggiavano verso i paesi limitrofi trasportando merci di poco valore.
Poi, nel 1971, uno sceicco più intraprendente e lungimirante di tutti, Zayed bin Sultan Al Nahyan, propose ad altri stati di formare una federazione con il suo regno, Abu Dhabi; così, oltre a garantirsi l’indipendenza dall’impero britannico, avrebbero ottenuto forza politica ed economica sufficiente per ritagliarsi uno spazio tra i giganti arabi. Cosa potevano fare, infatti, quelle minuscole monarchie sottopopolate, povere, senza una storia e prive di una cultura specifica, di fronte a nazioni come Arabia Saudita, Iran, Iraq, Yemen? Da sole sarebbero state sottomesse all’uno o all’altro stato; insieme, forse, sarebbero potute sopravvivere. E così il 2 dicembre 1971, nel Guesthouse Palace di Dubai, Abu Dhabi, Dubai, al-Fujairah, Sharjah, Umm al-Quawain e Ajman siglarono la Costituzione che sanciva la nascita degli Emirati Arabi Uniti; Ras al-Khaymah decise di unirsi al progetto l’anno seguente. Qatar e Bahrein, anche loro invitati ad unirsi alla neonata nazione dopo aver condiviso il periodo coloniale britannico, preferirono seguire una loro strada.
Da allora, l’ascesa economica dei sette nani, trascinata dall’estrazione del petrolio, divenne inarrestabile, soprattutto dopo il conflitto dello Yom Kippur, quando gli stati arabi decisero di utilizzare il petrolio come arma contro i paesi occidentali considerati alleati di Israele: il 16 ottobre 1973 l’Opec (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) decise di aumentare il prezzo del petrolio del 70%. In pochi mesi, grazie a quello che venne soprannominato «l’oro nero», i vari sceicchi del mondo arabo si trovarono le casse ricolme di dollari.
Identico fenomeno è avvenuto nel resto della penisola arabica. In grandissima parte desertica, con una popolazione composta in maggioranza da tribù beduine nomadi o semi-nomadi e con una struttura sociale di tipo tribale e feudale, questa regione era rimasta per secoli ai margini della scena mondiale, fino a una cinquantina di anni fa, quando in seguito alla scoperta e allo sfruttamento del petrolio è ritornata ad essere l’Arabia Felix di cui favoleggiavano gli antichi romani. Da sola, l’Arabia Saudita possiede il 24% delle riserve petrolifere mondiali; estrae ogni giorno 35 milioni di barili di petrolio, esporta greggio per migliaia di miliardi di dollari, con un surplus finanziario di centinaia di miliardi da investire in patria e all’estero.
In un paio di generazioni, la Penisola è passata dalla tenda al grattacielo: oggi, più del 95% della popolazione è sedentarizzato; ma sotto l’aspetto sociale mantiene un piede nel Medio Evo e con l’altro cerca uno stabile appoggio nel XXI secolo.
Il boom petrolifero sta cambiando la vita di queste popolazioni sia sotto l’aspetto economico che sociale, promuovendo fermenti di democratizzazione, riforme del sistema scolastico e perfino la ricerca di riforme costituzionali. Per spingere nell’era modea il piede rimasto indietro, re, emiri, sultani dei paesi che costituiscono il Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein, Emirati, Qatar e Oman) moltiplicano le infrastrutture in settori economici e sociali: raffinerie, oleodotti, centrali elettriche, strade, telecomunicazioni, scuole, università, edilizia, turismo, finanza… a volte con progetti avveniristici e spettacolari nelle città capitali. Perfino il deserto sta fiorendo, almeno nelle città.
Tali progetti, insieme a quelli specifici dell’industria petrolifera, hanno obbligato questi paesi a importare cervelli e manodopera dall’estero: sono migliaia di contractor stranieri e milioni di lavoratori provenienti dall’Asia, da altri paesi arabi, alcuni dall’Africa.
Si calcola che tra questi immigrati ci siano oltre 4 milioni di cristiani, 3 dei quali cattolici. «È curioso che, mentre in Europa arrivano immigrati musulmani, nella penisola arabica, culla dell’islam, dopo secoli di assenza sono tornati tanti cristiani, più numerosi che nel resto del Medio Oriente» afferma mons. Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale.

Il cristianesimo arrivò nella penisola arabica cinque secoli prima dell’islam, quando i missionari persiani cominciarono a spargere il seme del vangelo lungo la costa del Golfo Persico, fondando le prime comunità cristiane nel Kuwait; in seguito l’evangelizzazione avanzò sempre più verso sud, come testimoniano resti di chiese in vari luoghi delle coste del Golfo. Già nel III secolo esisteva un’eparchia (diocesi) nelle isole Barhein; a partire dal IV secolo tutta l’area appariva come centro principale della Chiesa orientale, la cui influenza si estendeva fino alle coste più meridionali e alle numerose isole del Golfo.
Con la nascita, l’espansione e la dominazione dell’islam, il cristianesimo fu praticamente spazzato via da tutta la penisola, per ritornare timidamente 12 secoli dopo Maometto, nel 1841, quando i Servi di Maria aprirono una missione ad Aden e, superate molte difficoltà iniziali, estesero la loro azione nello Yemen e nel Somaliland. Nel 1888 la missione fu staccata dal vicariato apostolico dei Galla (Etiopia) per ricavae il vicariato apostolico di Aden, ribattezzato l’anno seguente come vicariato apostolico d’Arabia, che fu poi affidato ai cappuccini di Firenze (1916). Nel 1973 la sede del vicariato fu trasferita dallo Yemen ad Abu Dabi negli Emirati Arabi. Nel 1953 una porzione dell’immenso territorio fu staccato per creare la prefettura apostolica del Kuwait, elevata l’anno seguente a vicariato.
Per equilibrare l’estensione tra i due vicariati, un decreto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, in vigore dal 31 maggio 2011, ha stabilito una nuova organizzazione territoriale e la modifica dei titoli: la giurisdizione su Bahrein, Qatar e Arabia Saudita è passata al vicariato del Kuwait, che ha preso il nome di «Vicariato apostolico dell’Arabia settentrionale», sotto la guida del vescovo comboniano mons. Camillo Ballin; Emirati Arabi, Oman e Yemen sono diventati «Vicariato apostolico dell’Arabia meridionale», sotto la giurisdizione del cappuccino svizzero mons. Paul Hinder. Entrambi i vicariati sono stati affidati all’ordine dei frati minori cappuccini.

    Piergiorgio Pescali e  Benedetto Bellesi     

Piergiorgio Pescali e Benedetto Bellesi




Cana (28): Gesù il figlio di Giuseppe

Il racconto delle nozze di Cana (28)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»

Al versetto 5 abbiamo dedicato già le precedenti due puntate, ma è necessario dedicarvene ancora una terza e una quarta, data la pregnanza e la profondità dei rimandi che il testo impone. Non possiamo, infatti, leggere il vangelo in fretta e non dobbiamo conseguire un premio a scadenza. Bisogna prendersi il tempo necessario, quando si tratta della Parola di Dio.
L’amore esige tempo
Tutte le cose importanti hanno bisogno di tempo, di intimità profonda. Lo esige l’autore del vangelo che ci dà gli indizi giusti perché noi possiamo fare il nostro lavoro di ricerca oltre le apparenze. Una persona superficiale si ferma a osservare la funzione della madre di Gesù, che prende l’iniziativa, preoccupata della festa che potrebbe andare in crisi per la mancanza di vino. Da qui poi si parte con una speculazione sulla mediazione della Madonna che si prende cura di due poveri sposini sfortunati per non far fare loro brutta figura.
Una persona un po’ più attenta «all’ascolto» percepirà le assonanze, per cui le basta ricordare il parallelo con Giuseppe, il figlio del patriarca Giacobbe, e così affermare la continuità tra la storia di Israele e quella del Nuovo Testamento.
Tutto ciò a noi non basta. Perché la Parola è esigente «spada a doppio taglio» (Eb 4,12) che vuole solo penetrare la carne viva della fede sincera. Se siamo Uditori della Parola1, dobbiamo «rimanere» su di essa (cf Gv 8,31) e assaporarla sillaba per sillaba, lettera per lettera e «ascoltare» intimamente l’eco di tutte le parole della Bibbia, che risuonano o che richiamano o semplicemente sussurrano. L’uditore diventa profeta perché mentre ascolta mangia la Parola con lo stesso atteggiamento e la stessa disposizione del profeta Ezechiele:

«1Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele». 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: «Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo». Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: «Figlio dell’uomo, va’, rècati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole» (Ez 3,1-4).
Il dramma del nostro tempo è la superficialità che non assapora, ma tutto macina e butta via. Un amore senza tempo a sua disposizione è solo furto di un attimo di consolazione, ma il vuoto resta integro e tragico. Se l’amore di prostituzione calcola il tempo in funzione del guadagno, noi che ci troviamo davanti alla Parola, possiamo passare in fretta rincorrendo magari il nulla?  Noi credenti nel «Dio [che] è Amore» (1Gv 4,8) dobbiamo imparare a essere maestri dell’amore a perdere, quello che nasce solo dall’innamoramento che si nutre di desiderio e presenza, di progetto e attesa come di passione e fisicità. Tutto oggi è veloce e frenetico e spesso si ha la sensazione che si corra a vuoto, verso dove non si sa, in tondo o a zonzo, in omaggio a una velocità che alla fine obbliga all’immobilismo.
Oltre il significato immediato
Non basta fare un collegamento tra le parole della madre che invita a obbedire a Gesù e quelle del faraone che invita a obbedire a Giuseppe per avere «una bella immagine». Bisogna anche domandarsi perché l’autore del vangelo esige questa connessione; perché l’evangelista ci obbliga a riflettere sulla figura del patriarca Giuseppe nel contesto delle nozze di Cana, attraverso un richiamo verbale e letterario che certamente avrà da svelarci qualcosa di nuovo sulla figura di Gesù.
Matteo in tutto il suo vangelo ci presenta Gesù come nuovo Mosè e, infatti, gli fa pronunciare cinque discorsi corrispondenti ai cinque libri mosaici, cioè il Pentateuco (cf Mt 5-6; 10; 13; 18; 24-25). Nei vangeli dell’infanzia lo stesso evangelista presenta Gesù come nuovo Salomone, che attira i sapienti dell’Oriente (cf Mt 2,1-2) come il grande re d’Israele aveva attirato la visita della regina di Saba (cf 1Re 10,1; 2Cr 2,1). Luca da parte sua ci fa contemplare Gesù a cui rendono testimonianza Mosè ed Elia, in rappresentanza di tutta la Toràh e di tutta la Profezia (cf Lc 9,28-34). Giovanni ora ci mostra Gesù come nuovo Giuseppe, il patriarca «salvatore» dei figli d’Israele esuli in Egitto a causa della carestia (cf Gen 42,1-5), che non colpì solo il popolo dell’alleanza, ma fu un flagello per tutta la terra. L’Egitto così, per la lungimiranza di Giuseppe, figlio di Israele, fu la «terra promessa» dei popoli colpiti dalla carestia. Allo stesso modo il patriarca non fu solo il salvatore di Israele, ma colui che distribuì frumento e cibo a tutti i popoli, venuti a chiedere asilo e assistenza all’Egitto, espletando quindi una funzione salvifica universale, come Gesù, «il pane disceso dal cielo» che supera addirittura la manna che mangiarono i padri nel deserto (Gv 6,58; cf Es 16,35; Sal 78/77,24).
Gli evangeli non fanno cronaca, ma teologia e noi abbiamo il dovere di scendere dentro i fiumi carsici degli evangeli e lasciarci trasportare in profondità che forse non abbiamo mai sognato o abbiamo potuto solo immaginare. Per questa riflessione ci affidiamo in modo prevalente ad Aristide Serra, il più grande esegeta cattolico che ha dedicato tutta la sua vita a sviscerare la figura della madre di Gesù nel vangelo di Giovanni, esaminando, tra gli altri, il racconto delle nozze di Cana in ogni direzione, con profondità e prospettive veramente insuperabili. I testi a cui attingiamo sono diversi, ma in modo particolare ci rifacciamo a «Le nozze di Cana: Gv 2,1-12».
Giuseppe nella Bibbia
Del patriarca Giuseppe si parla in quattordici capitoli della Genesi in modo sparso, dal 30 al 50. Poi si hanno due reminiscenze nel libro dell’Esodo: al cap. 1 per giustificare la presenza degli Ebrei in Egitto e al cap. 13 per dire che Mosè, prima di partire dall’Egitto verso la terra promessa, «prese con sé le ossa di Giuseppe» (Es 13,19) per rispettare un desiderio dello stesso patriarca che, mentre da vivo fu esule in Egitto, da morto volle ritornare in mezzo al suo popolo, nella terra di Dio.
Di Giuseppe nell’Antico Testamento si parla complessivamente in otto passaggi, mentre in quarantuno passi si fa menzione dei suoi discendenti o della tribù che porta il suo nome (cf Gs 14,4;17,4;18,11 et passim). Nel Nuovo Testamento un solo passo parla, non direttamente di Giuseppe, ma della tribù che porta il suo nome.
Del grande patriarca, invece, si hanno altre testimonianze. Il diacono Stefano, prima di essere lapidato, fa una breve sintesi della storia della salvezza dal patriarca Abramo fino al re Salomone. All’interno di questa catena, vi è la figura di Giuseppe (cf At 7,9-18) che si lega a quella di Gesù in un nesso che supera la storia, per collocarsi in quell’ambito simbolico che apre a prospettive teologiche: Giuseppe è l’antesignano di Gesù Cristo attraverso le sue parole e i suoi gesti.
Anche la Lettera agli Ebrei, nella lunga galleria dei testimoni della fede, cita il patriarca Giuseppe che diede ordini agli Israeliti di portare con sé le proprie ossa, quando avrebbero lasciato l’Egitto (cf Eb 11,22).
Infine nell’Apocalisse, anche «la tribù di Giuseppe» ha dodicimila rappresentanti tra coloro che sono «segnati dal sangue dell’agnello», insieme alle altre undici tribù (cf Ap 7,8). Qui è la riprova che il Nuovo Testamento non nasce in contrapposizione all’Antico Testamento, ma si situa nel suo alveo e ne assume la linfa feconda, perché anche la Chiesa, lungi dal sostituire e soppiantare il popolo d’elezione, nasce e cresce come figlia d’Israele da cui nessuna potrà mai sradicarla.
Giuseppe sullo stesso piano di Mosè
Da parte sua Giovanni, oltre a mettere sulla bocca della madre di Gesù quasi le stesse parole del patriarca Giuseppe, poco più avanti, nel racconto della Samaritana (cf Gv 4), mette in evidenza, quasi con noncuranza che la città di Sìcar, da cui proveniva la donna samaritana, è l’antica Sìchem dei patriarchi: «Giunse così a una città della Samarìa chiamata Sìcar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe» (Gv 4,5; cf Gen 33,18-20; 48,21-22; Gs 24,32). Tra i Samaritani e i Giudei non correva buon sangue. «La donna samaritana gli dice: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani» (Gv 4,9).
I Giudei disprezzavano i Samaritani perché si erano contaminati con altri popoli, soprattutto sul piano religioso (cf 2Re 17,24-41; Esd 4,1-5). Ciononostante, secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio, anche i Samaritani avevano una venerazione altissima del patriarca biblico, posto sullo stesso piano di Mosè, fino al punto che, in alcune circostanze, si definivano «Giudei» perché si ritenevano discendenti di Èfraim e Manasse, cioè i due figli di Giuseppe (cf Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche XI,8.6).
In un testo importante della tradizione samaritana, il codice «Memàr Marqàh – Parola/Insegnamento di Marco», databile tra il sec. II e IV d. C., ma che riflette insegnamenti molto più antichi, come tutti i testi che riportano la tradizione orale, si può leggere:

«Non c’è nessuno come Giuseppe il re, e non c’è nessuno come Mosè il profeta. Ambedue hanno conseguito una posizione elevata: Mosè ha posseduto la profezia, Giuseppe ha posseduta la Buona Montagna [= il monte Garìzim]. Non v’è nessuno più grande di loro due» (Testo e bibliografia in A. Serra, Le nozze di Cana Gv 2,1-12, 354 n. 608).
C’è però ancora qualcosa nel quarto vangelo, il quale per ben due volte sottolinea che il rabbi di Nàzaret è «Gesù, il figlio di Giuseppe» (Gv 1,45; 6,42a). Diverse volte abbiamo detto che in Giovanni quando una parola, un’espressione, un fatto, un nome, una circostanza, ecc. ricorrono due volte è segno che l’autore ci vuole invitare a non passare oltre, ma a fermarci per cogliere il senso nascosto (senso pieno) che c’è oltre il significato ovvio e immediato. È evidente che da un punto di vista ordinario, con l’espressione «Gesù, figlio di Giuseppe» si dice che Gesù è proprio il figlio di Giuseppe, il carpentiere di Nàzaret, perché di quel nuovo rabbi che percorre la Palestina tutti conoscono «il padre e la madre» (Gv 6,42b). Questo è il senso ovvio, il significato primo, quello delle parole così come sono pronunciate e comprese. Noi diremmo il senso materiale.
Il Messia discendente di Giuseppe
Oltre questo, però, Giovanni ci dice dell’altro nel contesto della mentalità, della cultura e delle attese del tempo di Gesù, dove era viva e vigile l’attesa di un doppio Messia: uno discendente di David e l’altro «figlio di Èfraim» o anche «figlio di Giuseppe» (cf Dt 33,17; per la letteratura giudaica invece cf TJI Es 40,9.11; Targum Ct 4,5; Gen Rabbàh 75,6 a Gen 32,6; Pesiktà Rabbati 30,4, ecc.).
Dal punto di vista letterario è interessante notare anche il già citato Gv 1,45: «Filippo trovò Natanaèle [= Bartolomeo] e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, quello di Nàzaret”». L’ultima parte del versetto «quello di Nàzaret» in greco è al caso accusativo ed è una apposizione che non si riferisce a Giuseppe (complemento denominativo di specificazione e quindi collocato al caso genitivo), ma deve attribuirsi, «apporsi», al nome «Gesù», che è complemento oggetto e quindi va collocato al caso accusativo. Tradotto in modo più chiaro si direbbe: «Gesù di Nàzaret, figlio di Giuseppe».
Questa semplice annotazione di analisi logica ci dice due cose:
1° – Gesù è di Nàzaret; quindi, se ne conosciamo la città, sappiamo da dove viene: è un uomo, un rabbino che abita nella città di Nàzaret, figlio del carpentiere, è un essere umano, uno di noi.
2° – Con l’espressione «figlio di Giuseppe», l’evangelista afferma che quell’uomo, uno di noi, è anche il Messia, discendente del patriarca, che viene a convocare il suo popolo, non più per organizzarlo a superare la carestia, ma per ricevere «il pane disceso dal cielo» che è lui stesso (Gv 6,41.51.58). Mentre il patriarca dispensa il grano che aveva raccolto nei silos, Gesù dona semplicemente se stesso, senza riserve.
Poiché lo spazio a nostra disposizione per questa puntata è terminato, sarà necessario dedicarvi ancora la prossima per analizzare la figura del patriarca in rapporto sia alla sua funzione «universale» sia in rapporto in modo particolare al racconto dello sposalizio di Cana.
(28 – continua).

Paolo Farinella

Note

1 – K. Rahner, Uditori della Parola, Borla, Roma 1988.

Paolo Farinella




Pakistan: i grigi mattoni dell’ingiustizia

Ogni volta che si parla di Pakistan è sempre per dare brutte notizie. Quando non ci sono attentati o omicidi o bombardamenti della Nato (26 novembre 2011, con 24 militari pakistani uccisi), si tratta di disastri naturali. Un peccato per un paese che altrimenti sarebbe affascinante. All’inizio di novembre 2011, a Karachi, provincia di Sindh, nel Pakistan meridionale, nel giro di pochi giorni sono stati uccisi un commerciante cristiano (Jamil Masih) e un pastore protestante (Jamil Sawan). Pochi giorni prima, nella stessa provincia, in una cittadina nei pressi di Shikarpur, erano stati assassinati quattro medici indù, probabilmente per mano di membri della confrateita musulmana Bhaya Baradari per vendicare un matrimonio tra una indù e un musulmano. Nel frattempo, l’Autorità pakistana delle Telecomunicazioni ha diramato un provvedimento che ordina alle società di telefonia di bloccare i messaggi di testo (Sms) in cui siano inserite una serie di parole ritenute volgari, oscene o nocive. Tra esse vi sarebbero – racconta l’agenzia Fides – anche «Gesù Cristo» e «Satana». Tutti episodi che, ancora una volta, confermano la difficile condizione in cui versano le minoranze non-musulmane che vivono nel paese asiatico, in particolare gli indù e i cristiani. Ognuno di questi gruppi conta circa 3 milioni di fedeli (pari al 2 per cento della popolazione pakistana).
Va ricordato che è ancora aperto il caso di Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte con l’accusa di aver offeso il profeta Maometto (blasfemia). «L’8 novembre 2010 – racconta nella sua autobiografia -, dopo cinque minuti di camera di consiglio, la sentenza si abbatte su di noi come un fulmine. “Asia Noreen Bibi, ai sensi dell’articolo 295-C del codice pakistano, questa corte la condanna alla pena capitale per impiccagione e a un’ammenda di 300.000 rupie”».
Nel frattempo la politica langue nella corruzione. Il presidente Asif Ali Zardari, già marito di Benazir Bhutto (assassinata il 27 dicembre 2007 durante la campagna per le elezioni generali), non ha dato una svolta al paese. Come grida nei suoi affollatissimi comizi Imran Khan, famoso ex capitano della nazionale pakistana di cricket, dal 1996 leader del Movimento per la giustizia, che si prepara alle elezioni del 2013. Oggi Khan è di gran lunga il politico più popolare, surclassando il presidente in carica e Nawaz Sharif. Quest’ultimo, miliardario ed ex primo ministro, è leader della Lega musulmana-N e gode del supporto dell’Arabia Saudita, attore invisibile ma certamente molto attivo sul palcoscenico pakistano. Più visibili sono gli Stati Uniti, che nel maggio 2011 in una città pachistana hanno trovato ed ucciso Osama bin Laden, da tempo ospite – più o meno occulto – nel paese asiatico. Per contrastare i talebani e controllare un paese strategico (e nucleare), Washington sovvenziona copiosamente l’esercito e il governo di Islamabad, ancorché inaffidabili e corrotti. Gioca invece da battitore libero l’Inter-services intelligence (Isi), la potentissima agenzia dei servizi segreti del Pakistan, coinvolta in tutti i conflitti e i complotti.

Indipendentemente da chi sia al potere, finora il paese asiatico non è riuscito ad uscire dal circolo vizioso della povertà. Tutti i dati lo confermano. Su una popolazione totale di quasi 190 milioni di persone, oltre 64 milioni vivono sotto la soglia di povertà, sia nelle aree rurali che nelle immense periferie degradate delle città. Le donne, tradizionalmente costrette ad un ruolo subalterno (nella famiglia e nella società), sono i soggetti più colpiti. Assieme ai bambini: si stima che il 37,4 per cento dei minori sotto i 5 anni siano malnutriti. In queste condizioni, è facile che gruppi di privilegiati – siano militari, politici al potere, religiosi musulmani fondamentalisti o l’oligarchia (composta da una decina di famiglie) – riescano a manovrare una popolazione fiaccata da un’esistenza ai limiti della pura sopravvivenza. In Pakistan, come in molti altri paesi del mondo, la «collera dei poveri» non ha ancora trovato una strada autonoma ed efficace.

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Ai confini della speranza

Reportage dalle missioni nella Rift Valley: Manda e Sanza (1)

Manda è la missione ultima nata, generata dalla parrocchia di Sanza; entrambe si trovano nella Rift Valley, con temperature altissime, dove siccità e carestia sono cicliche e drammatiche: qui ho conosciuto nuove etnie, ho visto scene di vita quotidiana «arcaica», ho ascoltato storie di vita missionaria inimmaginabili… Ho immagazzinato forti sensazioni e non posso fare altro che condividerle.

Nell’ultimo viaggio in Tanzania ho visitato luoghi, tribù, realtà che non avevo mai visto, percorrendo centinaia di chilometri su strade dove i grandi protagonisti sono sabbia e spine, per lasciarmi poi coinvolgere da realtà lontane anni luce dalla nostra. Ho conosciuto nuove etnie e i missionari che lavorano, crescono, conoscono, imparano e vivono con loro, a temperature altissime senza acqua, né luce, tanto meno la rete per usare il cellulare.
Ho ascoltato storie di vita di missionari che vivono lottando ogni giorno per avere acqua e per far funzionare pannelli solari. Un mondo che non immaginavo. I miei occhi, prima ancora della macchina, hanno fotografato scene di vita quotidiana «arcaica»: donne che timidamente mi osservavano mentre con la zappa in una mano e la tanica nell’altra facevano la fila presso uno dei rari pozzi della zona, costruiti dai missionari; sguardi di donne e di bambini che continuano a interrogarmi. Mai come in questo viaggio ho capito che non potevo fare altro che ascoltare, vedere e immagazzinare sensazioni da trascrivere e raccontare.

Verso le missioni della Rfit Valley
Con padre Giacomo Baccanelli, superiore regionale dei missionari della Consolata, partiamo prestissimo da Iringa, alla volta delle missioni di Manda, Sanza ed Heka.
Il viaggio è lungo e impegnativo: non è il periodo migliore per percorrere quelle strade «inesistenti». Siamo in piena stagione delle piogge: c’è il rischio di rimanere impantanati nella sabbia fangosa, che ricopre una superficie impenetrabile indurita dal sole.
Ci inoltriamo in strade strette e tortuose della foresta a picco su burroni riempiti da alberi altissimi. La temperatura sale e scende alla stessa velocità delle curve e il paesaggio fitto di verde, riempie i miei occhi.
Diretti al cuore desertico del Tanzania, maciniamo chilometri e chilometri senza vedere anima viva se non in qualche piccolo villaggio sperduto nel nulla. Non posso che chiedermi come facciano, di cosa vivano! Il paesaggio sembra inghiottirci. Enormi distese di acacie con rami e spine ci bloccano il passaggio. Più di una volta, padre Giacomo scende dalla macchina per aprire un varco nel bush.
Siamo finalmente al bivio per Manda, chiediamo informazioni sulla praticabilità della strada e ripartiamo. Dopo un paio d’ore arriviamo visibilmente stanchi.
Il sole è selvaggio come il paesaggio che ci circonda.
Parcheggiamo sotto i rami secchi di un albero, vicino a un pozzo dove alcuni bambini sono in fila per prendere l’acqua. Un piccolino alla mia vista scappa, un altro si attacca a ventosa alle gambe del fratello obbligandosi a evitare il mio sguardo.
Un giovane con le cuffiette alle orecchie riempie le sue taniche gialle. Ascolterà davvero qualcosa o è solo una novità introdotta nel villaggio per imitare i coetanei che vivono in città?

A MANDA CON IL PIONIERE DELLA RIFT VALLEY
Mi guardo attorno e non c’è nulla. Solo distese di alberi e boscaglia fitta. Ci viene incontro padre Antonio Zanette: un instancabile missionario della Consolata che dal 1967 lavora in Tanzania e da vari anni in questa regione, diventando il pioniere della Rift Valley.
Esile ma con un fisico temprato alle temperature e alla realtà del posto, ci accoglie con estrema cordialità. Impegnatissimo tra costruzioni, ragazzi da gestire, donne che lo aspettano per un seminar, ci fa entrare in una casa ancora in costruzione. È davvero caldo! Ci offre una soda. Dopo qualche minuto arriva una delle donne del villaggio con un po’ di polenta e carne selvatica: nonostante la mia riconoscenza per il gesto, riuscirò solo ad assaggiarla.
Davanti a una sigaretta sempre accesa padre Antonio inizia a raccontarmi la sua vita di missione. «Dal 2000 mi spingevo in questa zona al confine con Dodoma. Nel 2005 venivo una volta al mese, a pregare con un gruppo di cristiani, a una decina di chilometri da Manda e mi chiesero se potevo occuparmi anche di questa area e dei villaggi sparsi nei dintorni. La realtà di arretratezza la conoscevo già. Era ed è ancora tutto da sviluppare. E così iniziai a pensare a come fare per aprire una missione.
Sono qui stabile da settembre 2010, anche se sono appena rientrato dall’Italia, dove sono stato per un intervento medico. Nel gennaio 2011, il vescovo di Dodoma ha dichiarato che vuol promuovere a parrocchia la missione di Manda, cui fanno capo una quindicina di villaggi vicini. C’è davvero tanto da fare perché qui la maggior parte della gente è pagana, ma sono molto fiducioso, perché è gente capace e sveglia. L’assistenza religiosa mi ha permesso di entrare nelle loro vite e quindi di conoscerli.
E i primi risultati sono che proprio i giovani vogliono farsi cattolici, cercano una strada di fede profonda».
Mi perdo a osservare l’entusiasmo di questo uomo consapevolmente e forse volutamente solo, in un posto davvero disperato, privo di qualsiasi elementare comodità.
Facciamo un giro della missione e padre Antonio continua a spiegarmi: «Il problema maggiore è l’istruzione, perché in pochissimi vanno a scuola: in tutta la zona, molto estesa e popolosa, ci sono solo cinque scuole elementari; altro problema grande è la mancanza di acqua. Con l’aiuto di un’associazione americana ho fatto costruire un pozzo per la gente».
Ci sono 15 etnie nella zona di Manda, ma le maggiori sono i wasukuma e i wagogo. «I wasukuma sono grandi coltivatori e pastori tradizionalmente nomadi anche se in tanti iniziano a essere stanziali – continua padre Antonio -. Occupano una zona che sfruttano fino all’esaurimento e poi l’abbandonano. I wagogo invece sono stanziali. Lavorano solo per il proprio fabbisogno che poi dipende dalla stagione delle piogge. E quest’anno sembra che proprio non voglia piovere. Il raccolto sarà scarsissimo e la fame sarà tanta».
Le strutture della missione in costruzione si ergono come antitesi a una natura selvaggiamente aggressiva. «Ciò che vedi e sto ultimando comprende la chiesa, la casa dei padri e quella delle suore, un centro per il catechismo e per le donne cattoliche e la falegnameria. Sto aspettando le suore e sono sicuro che una volta arrivate la missione cambierà faccia. Non ci sono piani definiti circa la nostra collaborazione. Svolgeranno il loro servizio missionario in base alle proprie presenze e alla realtà del posto. È una zona di prima evangelizzazione con tutte le difficoltà che noi missionari conosciamo bene» conclude il missionario. 
Avendomi scrutato più di quanto abbia fatto io con lui, padre Antonio mi dice: «Chi me lo fa fare? Ti starai chiedendo. Beh, non so darti una risposta. Non te lo so dire. Posso solo dirti che sento che il mio posto da uomo, prima ancora che da missionario, è qui, tra questa gente».
Non posso negare che appena arrivata a Manda, dopo un viaggio così lungo, un caldo sfibrante, immersa a 360 gradi nel bush, conoscendo quest’uomo solo, mi sono chiesta come si potesse vivere una quotidianità così ostile, isolata e tremendamente dura, ma salutandolo ho visto un uomo sereno, circondato dall’affetto e dalla stima delle donne del villaggio che avevano percorso chilometri per il seminar promesso.

SABBIA E SPINE… FINO A SANZA
Ripartiamo alla volta di Sanza, distante solo sessanta chilometri, ma la strada sarà ancora peggiore di quella precedente. Una pianura di sabbia arsa dal sole ramificata in una miriade di strade sterrate. Da una stagione all’altra il paesaggio cambia così velocemente che è difficile imboccare la giusta direzione. Non un albero particolare, non una freccia o un segnale utile da fotografare mentalmente.
Nel nulla sbuca un anziano su una bicicletta che ci dice di seguirlo, ci indicherà lui la strada per Sanza, senza però valutare che lui è in bicicletta e noi su un fuoristrada. Per la «gioia» di padre Giacomo i rami delle acacie ci abbracciano in uno stridulo raschiare contro le portiere della macchina.
Arriviamo finalmente a Sanza; ci  accolgono un giovane diacono, Marco Turra, che presto sarà ordinato prete, padre Salvatore Renna, veterano anche lui di questi villaggi della Rift Valley, e padre Thomas Ishengoma, rientrato in Tanzania nel 2002, dopo essere stato in Spagna e Colombia.
La missione di Sanza è stata aperta nel 1987. «Era una zona di prima evangelizzazione, dove mancava tutto – mi racconta padre Giacomo, durante il viaggio -. L’emergenza era ed è tuttora l’acqua. È un posto arido. Abbiamo iniziato con la parrocchia, un dispensario, un asilo e tanti piccoli aiuti per tamponare. Pensavamo anche a una scuola di arti e mestieri ma poi l’idea non è maturata. Il problema di qui è che manca l’intraprendenza per collaborare allo sviluppo della zona».

UNA MISSIONE IPERDINAMICA AI CONFINI DEL MONDO
Marco mi accompagnerà nei tre giorni successivi alla scoperta di questa parte di Tanzania per me nuova. «Non c’è campo per telefonare, né luce – mi dice subito Marco -. Siamo fuori dal mondo. Noi utilizziamo i pannelli solari e il generatore per le cose principali, ma la situazione è tale che ci sprona a reinventarci ogni giorno come affrontare le difficoltà nostre, del posto e della gente. Le strutture che vedi sono la chiesa, l’asilo, il dispensario gestito dalle suore, un magazzino di cibo per i poveri, soprattutto mais, distribuito una volta al mese. Poi abbiamo la falegnameria, in cui sono stati fatti anche i banchi per l’asilo, e un garage essenzialmente per le nostre macchine, messe a dura prova dalla condizione delle strade. Infine abbiamo un allevamento di mucche, capre, maiali e l’orto. Cerchiamo di essere autosufficienti, ma è dura. Quest’anno la siccità ci sta distruggendo. Le uniche verdure che riusciamo a mangiare sono i cavoli cinesi. La frutta è poca e se continua a non piovere non ce ne sarà proprio».
Mentre Marco mi mostra l’orto, osservo delle donne in lontananza che nel letto secco di un fiume, fanno buche nella sabbia per prendere acqua. Qui è una consuetudine. In ginocchio, piegate per ore, sotto un sole bollente, con i loro bambini sulla schiena, scavano per riempire secchi e bacinelle di un’acqua sabbiosa, scura.
Conosco il valore dell’acqua che proprio questo continente mi ha insegnato, ma mai come in questo viaggio ne capirò il significato vitale. Non ci sono parole capaci di descrivere lo stress e la tensione quotidiana di queste persone per il bisogno vitale dell’acqua in una zona così depressa. Non ho visto la presenza di una sola ong in questa parte di Tanzania, popolata da tribù che vivono un olocausto quotidiano, abbandonati dal mondo ma non da questi angeli di Dio, che per il solo fatto di accompagnarli, ascoltarli e sostenerli vivendo insieme, mangiando o non mangiando, ammalandosi come loro, meritano la nostra stima estrema. Questi sono posti dove solo chi ha Dio come fedele amico riesce a vivere e rimanere sereno. Non è un posto per tutti.

UN GIOVANE MISSIONARIO A SCUOLA
Prima di visitare gli asili, Marco mi porta nella scuola primaria governativa, vicino alla missione: 800 studenti in divisa, dai 5 ai 13 anni mi riempiono la vista. Una scuola così affollata, ma gestita da soli 10 insegnanti che pur di lavorare arrivano da zone lontane come il Kilimanjaro.
Dixon Baluti è il vice mwalimu mkuu (vice preside) della scuola. Orgoglioso del ruolo, ci fa accomodare nel suo ufficio affollato di carte e di libri. Ventisette anni, Dixon è della tribù dei jaluo, mi precisa, e viene da Mwanza. Ha da poco concluso il corso di preparazione per maestri a Tanga. «Questa è una zona difficile. I genitori non hanno la formazione necessaria per capire l’importanza e valore dell’istruzione. Molti non mandano i figli a scuola, nonostante l’obbligo imposto dal governo. I ragazzi sono abbandonati a se stessi e obbligati a lavorare i campi con i genitori fin da piccoli. La retta è di 5 dollari l’anno e molti non riescono a pagarla. Adesso le lezioni iniziano alle 7 di mattina e durano fino alle 4 del pomeriggio, abbiamo aumentato le ore grazie al piano di aiuto alimentare americano, voluto dal Presidente Obama». Osservando i sorrisi di queste centinaia di giovani non posso che dire con loro «asante sana» (grazie mille) a Obama: grazie al piano alimentare americano, possono aver un pasto tutti i giorni. I bambini dell’asilo mangiano l’uji (polenta di mais e latte) appena arrivano e poi a pranzo: una vera benedizione in un posto così disperato.

FORMAZIONE, FORMAZIONE E FORMAZIONE
Fino al 2007 padre Thomas Ishengoma era formatore al seminario dei missionari della Consolata di Morogoro e da tre anni è a Sanza, perché vuole misurarsi con una realtà di missione nella sua terra.
Di cultura sorprendente quanto la sua umiltà, padre Thomas è impegnato in molteplici attività: è parroco, si occupa della gestione degli asili della parrocchia e della formazione delle maestre, segue da vicino l’andamento delle scuole primarie e secondarie dei villaggi, organizza corsi settimanali e mensili per le donne, per le maestre e per le mamme.
«Credo molto nella formazione della nostra gente. Questa è una zona difficile, abbandonata a se stessa; tuttavia la gente sta iniziando a volere un cambiamento; per questo ho voluto fortemente mettermi a loro disposizione per incontri sull’andamento e mantenimento dell’asilo, dall’alimentazione alla pulizia, dalla formazione delle maestre alla pedagogia del bambino, senza tralasciare la formazione dei giovani e delle donne nei villaggi. Una volta al mese, di solito l’ultimo sabato, celebriamo La giornata del bambino: dalle 8 del mattino alle 4 del pomeriggio, in parrocchia o in qualche posto qui vicino, raduniamo genitori e figli dai 3 ai 14 anni; mentre le madri preparano il cibo, i bambini si divertono giocando e disegnando; ma la cosa più importante è che insieme si stabilisce “il progetto di Dio o casa del bambino”, ossia la conoscenza concreta del bambino che abbraccia un progetto di vita futuro.
«Nostro obiettivo e nostra priorità è la formazione – interviene padre Renna Salvatore a confermare le parole di Thomas -. Solo attraverso la formazione si può cambiare la realtà. La missione in questi anni è già riuscita a creare dei forti cambiamenti sia a livello di sviluppo economico che in quello dell’evangelizzazione. Proprio da queste zone sono arrivate diverse vocazioni. Ma il lavoro è ancora molto».

Mitico factotum 
Padre Salvatore, pugliese doc, dal 1964 in Tanzania, è da sempre nei posti «caldi» della missione. A Sanza da sei anni, è punto di riferimento per tutto e per tutti: è il mitico «tuttofare» e si occupa della parte tecnica della missione: dalle costruzioni di asili nei villaggi all’animazione, all’insegnamento, ai seminari di formazione e promozione umana.
«In posti così esasperati non si può avere un ruolo definito, siamo tutti intercambiabili» mi dice padre Salvatore mentre prepara il suo delizioso karcadè. Tutti lo conoscono. Sguardo dolce ma deciso, barbetta che suscita ironia tra i confratelli, esperienza di vita quasi totalizzante in missioni di frontiera, padre Salvatore non può che incantarmi.
Riprendendo il discorso sulla formazione, padre Renna continua: «Rimangono tuttavia problemi seri, come le piaghe dell’alcolismo e delle droghe leggere, la poligamia intrinseca alla loro cultura; ora è arrivata anche l’aids. Il livello culturale è molto basso, anche perché sia i wagogo che i wasukuma sono ancorati alle loro tradizioni. Potrebbero stare meglio, ma continuano a vivere come cento anni fa, anche a causa della superstizione. I problemi derivati da casi di stregoneria sono allucinanti. Il ricorso al medico tradizionale, come è chiamato benignamente, è una cosa normale».
«Secondo le loro convinzioni – interviene Marco – i malanni non possono venire da Dio, ma sono causati da persone che tramano di nascosto; per scovarle si ricorre dallo stregone. Una volta scoperto il colpevole, la vendetta è pesante: va dall’allontanamento della persona dal villaggio fino all’omicidio».

Giovane missionario
iN UNA TERRA ESTREMA
Marco Turra è entrato nel seminario diocesano che aveva diciannove anni. Nel 2000 era a Londra quando conobbe i missionari della Consolata e decise di diventare uno di loro.
È arrivato in Tanzania a Morogoro per lo studio del kiswahili e poi subito in missione a Pawaga. Da settembre 2010 è a Sanza. A vederlo, così giovane, rimango sorpresa per la sua capacità di adattamento in un posto simile e per il suo modo di interagire con le persone nei villaggi. Come i suoi confratelli è impegnatissimo. Insegna in alcune scuole secondarie, si reca nei villaggi, visita i malati, segue la casa dei non vedenti, cura con passione anche l’orto e l’allevamento delle mucche della missione, e mi porta con orgoglio a visitarle.
Marco mi regala altri ricordi indimenticabili, come la conoscenza di una famiglia wasukuma e l’incontro con gli anziani wagogo ciechi, alloggiati in una costruzione in mattoni con quindici stanze indipendenti. 

LE CASE PER GLI ANZIANI CIECHI
Attraversiamo il villaggio che il sole è ancora forte con la sabbia che si infiltra dovunque. I bambini conoscono Marco ma si avvicinano timorosi. Mi osservano, mi scrutano, ma hanno paura. Molti scappano. Non mi era mai successo in Tanzania di trovare dei bambini che alla vista di un bianco ancora scappassero.
Oltrepassiamo le case dei wagogo: basse e rettangolari. Una signora mi invita a entrare. La struttura è in fango. Il tetto è piatto ricoperto da cespugli di erba, i muri con piccole finestre. Entro e una leggera frescura mi sorprende, così come la perfetta divisione della casa: in un angolo separato da una parete di fango c’è la cucina, dall’altra parte la «zona notte» con un grande letto matrimoniale e una zanzariera. La donna mi spiega che hanno il cortile in comune, dove di solito si cucina e si accolgono gli ospiti.
Usciamo dalla casa e vediamo gli anziani sotto un albero, seduti su pelli di capre, stuoie e sgabelli. Marco li chiama e non appena sentono la sua voce si alzano e raggianti ci vengono incontro. Capisco subito che sono i ciechi. In tanti hanno cataratte che sono degenerate.
Sono tutti anziani che i famigliari hanno «invitato» ad andarsene da casa, quando per la loro cecità sono diventati un peso per il resto della famiglia. Vengono da zone lontane. Hanno affrontato un viaggio di molti chilometri, quando hanno saputo di questa casa messa a disposizione dai missionari per i non vedenti. Sono comunque indipendenti e riescono a gestirsi da soli. Le donne della comunità di base del villaggio provvedono loro acqua e cibo e essi riescono a cucinarselo.
Mi raccontano storie pazzesche, mentre i loro occhi assenti e fissi nel vuoto si inumidiscono; sono storie in cui si intrecciano i ricordi di fatica e fame, siccità e lavoro nei campi a temperature più che torride. Eppure sono lì, sereni e felici, senza alcun rancore verso persone o eventi del passato né sul perché sia toccata loro tale sorte, ma continuano a ringraziare Marco e i missionari perché non li hanno lasciati in mezzo alla strada. Mi sento veramente in un altro mondo se penso a quello nostro!

UNA GALLINA DAI WASUKUMA
È arrivata Maria, una donna wagogo di quarantacinque anni, ma che ne dimostra molti di più, che ci accompagna alla casa di una sua amica wasukuma. Quest’ultima l’avevamo incontrata la mattina davanti all’asilo, dove aveva accompagnato il figlioletto, poiché abitano in pieno bush a qualche distanza dalla missione.
Iniziamo a percorrere un sentirnero sconnesso tra i soliti campi di mais bruciati dal sole, dove i girasoli secchi sembrano delle braccia tese al cielo per invocare una pioggia che non vuole cadere; sbuchiamo in una stradina polverosa tra acacie dalle spine lunghe e affilate, che graffiano impietosamente le portiere dell’auto; arriviamo davanti a un recinto di spine alto più di un metro: entriamo e ci viene incontro la nostra amica.
Un viso dai tratti eleganti e una pelle d’ebano. Altissima e slanciata mi sorride come fossi l’amica di sempre. Qualche metro più in là c’è la madre anziana, altrettanto alta. Ci invitano a sederci all’ombra della casa.
Ci sono tutti i suoi figli, tranne il piccolo di cinque anni, che conosceremo più dardi, quando la signora mi mostrerà la ricchezza di famiglia: un folta mandria di mucche di razze diverse e pregiate, capre, pecore, tutte vigilate dallo sguardo maturo del bambino. Non ci sono uomini, poiché sono anch’essi ad accudire il bestiame; arriva però un vicino, spinto dalla curiosità di conoscere la mzungu (bianca).
Cominciamo a parlare, mentre i bambini ci scorrazzano attorno insieme a galli e galline. Marco traduce le tante domande che rivolgo alla giovane wagogo. Sono incuriosita dalle caratteristiche di questa etnia fiera e seminomade, discendente dai masai. Fisicamente infatti si assomigliano; ma la donna ci spiega subito che culturalmente sono molto diversi: i wasukuma non sono grandi lavoratori e più intraprendenti: lo testimoniano le vaste distese di campi coltivati non solo per la loro sussistenza, ma anche per vendere parte del raccolto.
Ma la ricchezza principale è costituita dal bestiame, che serve anche per stipulare matrimoni e formarsi una famiglia. Per una donna come me, mi dice il suo vicinato, potrebbero sborsare anche cinquanta mucche, ma di quelle pregiate. Rispondo scherzando che sono troppo poche, ne servirebbero almeno un centinaio; dopo un istante di imbarazzo e indecisione scoppiamo tutti a ridere. Poi la madre anziana racconta del suo matrimonio e della dote pesante pagata dal marito e non solo in animali, ma anche in denaro.
Ma è la donna più giovane a sottolineare che la loro è una famiglia aperta, pur mantenendo usi e costumi tradizionali di cui hanno capito il valore. Domando chiarimenti sulla pratica dell’infibulazione e la giovane risponde prontamente che è stata abbandonata ormai da molti anni. Anzi, rincara la dose contro certe usanze figlie della superstizione e ringrazia la presenza dei missionari che attraverso le scuole, il dispensario e gli incontri li aiutano a crescere i figli con maggiore apertura.
Rimango davvero senza parole! Sono seduta su uno sgabello in pieno bush, nel niente, davanti a tre caratteristiche case wasukuma: una per gli uomini, un’altra per le donne e i bambini e una terza per gli animali; siamo accerchiati da galline, gatti e cani, e questa donna vestita in tipico stile wasukuma, oltre a ringraziarmi per essere andata nella sua casa, mi dice convinta che hanno bisogno e vogliono una cultura più aperta per i loro figli.
Ecco le motivazioni e le gratificazioni capaci di farti rimanere in un posto come questo, ai confini della speranza. «È qui che acquista senso la presenza di noi missionari» mi aveva già detto padre Antonio Zanette e me lo sentirò ripetere a Heka da padre Saverio Diaz.
L’incontro termina con un’altra sorpresa divertente. I bambini iniziano a correre dientro a una gallina e la inseguono per parecchi minuti, finché decidono di acchiapparla e la consegnano alla mamma, che me la regala come segno di ospitalità. Cerco di prenderla e tenerla ferma tra le mani, tentando di non far capire che è la prima volta che maneggio una gallina. Il cuore dell’animale batte forte che sembra uscire dal suo corpo.
Marco mi spiega che i wasukuma non regalano mai animali morti. Se il regalo è una gallina, questa deve essere la migliore; per questo la fanno correre all’impazzata per dimostrare che non è malata, ma gode perfetta salute. 
Consegnata a padre Salvatore, il giorno dopo la gallina ricompare sulla tavola, per farmi gustare ancora una volta la squisita ospitalità dei missionari e della loro gente, capace di donare con tanta gioia nonostante la loro povertà.

Romina Remigio

Romina Remigio




Dove soffia il vento di Haiti

Due anni dopo: inizia l’era del presidente cantante

Il paese ha un nuovo presidente e un nuovo governo. Ottenuti con la benedizione delle comunità internazionale. Ma non della società haitiana.
Intanto la ricostruzione e il rispetto i diritti umani sono ancora idee lontane.
La svolta è storica, con il sapore di un ritorno al passato.  
Reportage dal paese di Sweet Mickey.

«Ritornare a prima del 1986. Correggere i problemi degli ultimi 25 anni. È questo che intende fare Michel Martelly. Si tratta di un cambiamento sì, ma verso il passato». È il commento del giornalista Gotson Pierre sul nuovo presidente della Repubblica di Haiti.
«Ora l’oligarchia è ancora più forte, è tornata al potere e lo ha fatto sotto forma di una destra populista».

Le elezioni degli stranieri
Ma facciamo un passo indietro.  Il 28 novembre 2010 al primo tuo di elezioni truccate e a bassa partecipazione, il popolare cantante di kompa Michel Martelly, Sweet Mickey per i fans, arriva solo terzo. Al primo posto la costituzionalista e docente universitaria Mirlande Manigat e al secondo Jude Célestin, candidato del presidente uscente René Préval e genero del medesimo. Ma solo Célestin può contare su una coalizione di partiti in appoggio (si veda MC gennaio 2011), gli altri due non hanno una base politica.
Le elezioni sono volute dalla comunità internazionale e dallo stesso Préval che vede il suo delfino in pole position. Nella realtà haitiana del dopo terremoto non ci sono le condizioni tecniche (il sisma del 12 gennaio 2010 ha ucciso 300 mila persone e oltre 1,3 milioni sono sfollate) né politiche. La Commissione elettorale provvisoria (Cep), organo «neutrale» incaricato di organizzare le consultazioni, è di fatto in mano al presidente uscente. Così i principali partiti politici non presentano candidati e i movimenti sociali haitiani invitano a boicottare lo scrutinio. Risultato: scarsissima affluenza alle ue, difficili condizioni di voto e brogli massicci.
«Le elezioni sono state una farsa: disprezzo assoluto della popolazione e risultati inattendibili. La maggioranza dei settori della società haitiana non le voleva in quel momento». Chi parla è Suzy Castor, storica, grande intellettuale, e co-fondatrice, insieme al marito, il compianto Gérard Pierre-Charles, di uno dei maggiori partiti haitiani, l’Opl (Organizzazione del popolo in lotta).
I sostenitori di Martelly – anche lui senza un partito, ma appoggiato da migliaia di fans – non accettano la sconfitta e scendono in piazza con violente manifestazioni.
Martelly è legato alla destra duvalierista e aveva sostenuto il colpo di stato del 1991 contro il presidente Aristide. Ha molto seguito e uomini fidati nelle popolose bidonville della capitale. Si rischia il caos totale nel paese devastato dal terremoto e in preda a un’epidemia di colera mai vista.

Elezioni «commissariate»
Le diplomazie Onu e soprattutto Usa si mettono in moto. Si decide una riconta di verbali di voto (non dei voti) per modificare il risultato del primo tuo. Lo scarto tra Célestin e Martelly è minimo (si parla di 6.800 voti), nulla in confronto ai brogli verificati e denunciati da organizzazioni di difesa dei diritti umani haitiane e di monitoraggio elettorale inteazionali.
Hillary Clinton fa un viaggio lampo a Port-au-Prince e convince René Préval a ritirare (informalmente) il suo candidato. La riconta (pilotata) delle «elezioni farsa» ribalta il risultato: Martelly si ritrova al secondo posto a spese di Célestin, che si ritira in buon ordine.
Al secondo tuo, rinviato al 20 marzo, Martelly surclassa Manigat con una percentuale di 67,7% delle preferenze. L’affluenza è sempre molto bassa, meno del 20% degli aventi diritto.
Intanto la coalizione di Préval, Initè, ottiene la maggioranza dei seggi a camera e senato.

Un presidente del passato
L’arrivo alla presidenza di Sweet Mickey legato alla classe dominante haitiana è un vero passaggio storico.
Si tratta del ritorno dell’oligarchia al potere dopo 25 anni di lotte e rivoluzioni dei movimenti sociali. Un’oligarchia che ha radici storiche nella rivoluzione di fine XVIII secolo, e che ha sempre mantenuto le distanze dal popolo, quasi non esitesse.
La novità è l’atteggiamento populista di Martelly, uno show man, che ama il bagno di folla, va in mezzo alla gente, inaugura scuole, fa promesse. Atteggiamento non sempre ben visto dagli altri esponenti dell’oligarchia.
Martelly ha anche amici scomodi, come il colonnello Michel François, il capo della polizia che assieme al generale Raoul Cédras aveva condotto il sanguinoso colpo di stato del 1991 (in tre anni fece circa 5.000 vittime, soprattutto tra i leader della società civile). Golpe organizzato e finanziato dagli Usa (Geroge Bush padre alla presidenza) per stroncare il sogno di libertà e auto determinazione dei movimenti sociali haitiani, gli stessi che rivoltandosi a Jean-Claude Duvalier, l’avevano fatta finita con la dittatura.
Continua Gotson Pierre: «In questa classe dirigente non c’è senso dello Stato, vogliono gestire la cosa pubblica come nel privato; riscontriamo un individualismo spinto. Martelly si appropria dello Stato come di un affare personale: un autocrate».
Suzy Castor, non vuole cedere al pessimismo: «Abbiamo un presidente che canta e danza. Ma in che direzione stiamo andando?
I consiglieri di Martelly sono in maggioranza ex macoute (qui inteso come duvalieristi, ndr) e pochi hanno esperienza delle cose di Stato. Qui, quando si raggiunge il potere, si mette su il proprio clan». E rincara Gotson: «Non c’è ancora coscienza di cittadinanza, il tessuto sociale è debole. La gente è pronta ad accettare quello che il potere fa. L’amministrazione è stata talmente assente negli ultimi anni, che adesso vedendo Martelly correre e mostrarsi in pubblico il popolo pensa: almeno questo si sposta, parla con noi di problemi reali».

Un paese da «ricostruire»
E la ricostruzione? L’oltre un milione di terremotati che vivono in condizioni drammatiche?
La Commissione a interim per la ricostruzione di Haiti (Cirh) voluta dalla comunità internazionale, con l’esclusione totale delle forze vive della società haitiana, e approvata da Préval, è ormai giunta a fine mandato. Ma i risultati sono tutt’altro che evidenti.  «Abbiamo l’impressione che i soldi promessi non siano arrivati». Dice padre William Smarth, ottuagenario sacerdote associato alla congregazione dello Spirito Santo. Lui, uno dei pilastri morali del paese, ha «fatto» un pezzo di storia di Haiti.
«Per me la ricostruzione non è un problema di soldi ma un momento partecipativo di dibattito nazionale. Préval è stato nullo: si è preoccupato solo del potere, mantenerlo o mettere un fedele al suo posto. Questo mentre la gente è nel bisogno. Occorre ancora molta educazione politica.
Dopo il 12 gennaio 2010 è stato passivo, anche per questo ha perso consensi e il suo successore designato non è stato votato. Lui ha giocato con la comunità internazionale proponendosi come stabilità».
Si rattrista l’anziano prete a cui si deve la traduzione dei messali e del catechismo in lingua creola e un grande lavoro di formazione per le generazione future, che continua tuttora.
«Oggi è la comunità internazionale che dirige il paese: Usa, Francia, Brasile; con una certa rivalità tra loro. Il Brasile è più accettato dalla popolazione perché ha anche aiutato.
Ma non c’è alcuna realizzazione delle strutture di base. Ora gli stranieri sono stati forzati a provare un altro cammino con questo nuovo presidente.
L’inquietudine è che si appoggi ad un’ala molto conservatrice, una destra non intelligente, ovvero le vestigia di Duvalier. Ma non è più la stessa epoca – continua il sacerdote costretto all’esilio dal dittatore nel 1969 e molto attivo nei movimenti sociali e nella chiesa di base – non possiamo restare con la gente di Duvalier».
Scava nel passato, quasi rivedesse i Volontari della sicurezza nazionale (al secolo Ton ton macoute) sfilare al passo dell’oca con gli stivali lucidi: «Haiti ha acquisito due capisaldi democratici dalla rivolta dell’86. Primo: il diritto di parola, solo dopo grande sacrificio. La stampa però è ancora debole non fa un lavoro di formazione politica. Secondo: la lotta per i diritti delle donne, che sono migliorati, nella vita e nella politica.
Un altro punto importante è la volontà dei genitori affinché i bimbi vadano a scuola. Fino al 1960 non si preoccupavano di questo, soprattutto per le bambine. Adesso si rendono conto che se i figli non sanno leggere e scrivere non hanno via di uscita».

Il ritorno dei dinosauri
E Jean-Claude Duvalier ha fatto di nuovo parlare di se, tornando, a sorpresa, nel paese il 16 gennaio 2011, dopo 25 anni di esilio. Un durissimo colpo per i movimenti sociali, donne e uomini che avevano lottato per rovesciare la dittatura e che, molto spesso hanno famigliari vittime del suo sanguinario regime. Duvalier deve essere giudicato per crimini contro l’umanità ed è oggi sotto libertà vigilata a Port-au-Prince (in realtà si muove liberamente). Un giudice d’istruzione della capitale sta trattando il caso e si aspetta un segnale forte della giustizia haitiana contro l’impunità.
Un mese dopo il ritorno di Duvalier anche Jean-Bertrand Aristide, fuggito nel 2004 in seguito a una rivolta popolare, fa il suo rientro ad Haiti, aumentando ulteriormente la confusione. «Aristide mantiene un basso profilo pubblico. Però incontra molte persone, fa riunioni. Quando è rientrato ha detto di volersi interessare all’educazione» racconta Gotson Pierre. «Il suo partito Fanmi Lavalas non ha più preso posizioni, faceva più uscite pubbliche prima del ritorno».

Diritti sotto terra
Scettiche sul processo di ricostruzione anche le attivissime associazioni di difesa dei diritti umani.
Da alcuni mesi sono iniziate le espulsioni forzate di terremotati accampati in modo informale un po’ ovunque in capitale e in altre città colpite dal terremoto.
«È una questione molto preoccupante e si verifica in continuazione. Una violazione della Costituzione haitiana, nel suo articolo 22 che protegge il diritto alla casa e il diritto delle persone sfollate all’interno del proprio paese, ma anche di convenzioni inteazionali ratificate da Haiti». Chi parla è Antonal Mortimé, giovane segretario esecutivo della Piattaforma di organizzazioni haitiane per la difesa dei diritti umani (Pohdh), la maggiore rete nazionale che raggruppa otto organizzazioni di difesa dei diritti umani ad Haiti.
«Come piattaforma stiamo lavorando in una quarantina di campi dove formiamo le persone affinché rivendichino loro stesse i propri diritti, ma ciò non impedisce che in certe zone, in particolare nella regione metropolitana, si verifichino frequenti espulsioni che causano violazioni sistematiche dei diritti della persona. Questo avviene talvolta con la complicità di agenti di certe municipalità o ancora di grandi proprietari appoggiati dal governo.
Lo stato haitiano dovrebbe farsi carico e accompagnare queste persone affinché trovino un luogo dignitoso per reinstallarsi».
Ma i terremotati sloggiati non ricevono un habitat decente. In alcuni casi i campi sono ricollocati in altre zone, dove però le condizioni non sono differenti dai campi di origine.
«L’Oim (Organizzazione internazionale dei migranti, ndr) ha appoggiato lo Stato a spostare questi campi fuori città, sulla strada verso Nord. Ma qui non c’è elettricità, non ci sono strutture per cure mediche, per l’educazione. Si è lontani dai luoghi di lavoro, con condizioni di trasporto pessime e c’è molta promiscuità. Inoltre sono zone a rischio smottamento, inondazione e contaminazione con colera» continua Antonal.
Sulla costruzione fisica delle case la piattaforma fa pressioni affinché la Cirh si faccia da parte e gli haitiani prendano il controllo del processo della ricostruzione con tutti i mezzi che la commissione ha in mano, ovvero che lo Stato haitiano possa affrontare il problema della casa, nella prospettiva del diritto all’habitat, all’accesso alla terra e ai servizi sociali di base.

Finalmente … il  governo
Dopo due tentativi andati a vuoto (bocciati dal parlamento), il presidente Michel Martelly è riuscito, nell’ottobre scorso, ad avere la fiducia dal parlamento per il governo guidato da Garry Conille. Diplomatico e funzionario dell’Onu, Conille è stato consigliere di Bill Clinton nella sua veste di inviato dell’Onu per Haiti. Clinton è anche il presidente della Cirh. In molti, dietro a questa ratificazione, vedono ancora una volta gli interessi della comunità internazionale a gestire la «cosa pubblica» nel paese.
«Osserviamo alcune iniziative inquietanti del governo Martelly-Conille – incalza Antonal Mortimé – È la prima volta dal 1987 che c’è una compagine governativa così numerosa: tra ministri e segretari di stato sono 37. Troppi per un paese senza soldi.
Inoltre è stata annunciato la creazione dell’esercito ad Haiti, senza alcuna consultazione nazionale, non sono stati implicati gli altri poteri, come il legislativo.
Le Forze Armate d’Haiti si sono spesso macchiate di crimini e sono state all’origini di numerosi colpi di stato. Il presidente Jean-Bertrand Aristide, riportato ad Haiti dagli statunitensi dopo il putsh del generale Cédras, nel 1995 aveva soppresso l’esercito. La sicurezza intea e delle frontiere fu da allora affidata alla polizia nazionale e alle missioni militari dei caschi blu Onu che si sono succedute.
«Noi non abbiamo una posizione pregiudiziale sulla questione, ma siamo molto inquieti sul processo che Martelly ha cominciato per ripristinare l’esercito. Ad esempio, contrariamente alla convenzione sull’uguaglianza dei sessi, ha già detto che sarà composta da soli uomini. Inoltre l’iniziativa è stata discussa con la comunità diplomatica, nelle grandi ambasciate, Usa, Canada, Francia, Messico e Brasile. Il parlamento non è stato informato, quando invece è co-depositario, secondo la Costituzione, della sovranità nazionale. C’è la Minustah (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti) il cui mandato è stato rinnovato fino all’ottobre 2012. La questione dell’esercito è legata alla presenza dei militari stranieri, perché si tratta del processo di sviluppo generale del paese per dare una risposta all’insicurezza, e alla ricostruzione».
Preoccupate le organizzazioni per i diritti umani anche per la rinascita dei servizi segreti: «Temiamo che si faccia una retromarcia fino all’epoca Duvalier. Sarà costituito il Sin (Service d’intelligence national) che avrà come missione di sorvegliare i luoghi divertimento, i media, i tribunali, le frontiere, ecc. Abbiamo già osservato un aumento delle perquisizioni su alcune strade. Il controllo della stampa, ad esempio, va contro la Costituzione, garante della libertà di espressione». Martelly parla delle sue grandi priorità: ristabilire lo stato di diritto, l’educazione, l’ambiente e il lavoro. «Nel suo comportamento e nelle sue dichiarazioni, anche nei confronti dei media, non sentiamo che gli stia a cuore lo stato di diritto o l’educazione. La società civile globalmente non è stata consultata su questi grandi temi. Il presidente, per certe decisioni, è passato a lato della Costituzione».

Marco Bello

Marco Bello




Un mondo di rifugiati

Reportage dal campo profughi più grande del mondo

La carestia nel Coo d’Africa ha reso famoso il piccolo villaggio di Dadaab.
Ma in questa zona, persa nel nulla, i campi profughi ci sono da vent’anni. Nel 2011 si sono ingrossati
a causa dell’ultima crisi. Nei campi la vita è precaria, ma scandita da regole precise. E l’insicurezza
permane elevata.  Anche i keniani si sono mobilitati con gesti di solidarietà verso
i rifugiati. Viaggio «dentro» il campo.

A inizio gennaio 2011 è scoppiata la grave crisi della siccità e della fame nei paesi del Coo d’Africa e in Kenya (vedi MC novembre 2011). Il problema è stato previsto, annunciato e deprecato da molti. Le nazioni si sono mosse, le associazioni e Ong si sono organizzate, sono partiti tanti aiuti di emergenza per la fame e per la salute di 13 milioni di persone in Somalia, Etiopia, Djibuti, Kenya, Sudan.
La gente in Kenya si è mobilitata come non mai con il motto «Kenya for Kenyans» (Kenya per i keniani) offrendo un contributo altissimo grazie a sacrifici e rinunce. Anche noi, nel nostro piccolo, come Missionari della Consolata ci siamo mossi, sostenuti da tanti nostri amici, per portare sollievo e consolazione nelle zone più colpite dalla carestia e dalla fame in Kenya: turkana, samburu, tharaka.
La fame dovuta alla grave siccità che ha colpito questi paesi e al conseguente rialzo dei prezzi del cibo (farina, fagioli, olio, zucchero, riso) non è ancora debellata. La gente continua a soffrire e a sperare lottando per una vita migliore. Il problema dunque persiste e continuerà finché le nuove piogge potranno offrire nuovi raccolti, prezzi accessibili a tutti, progetti di sviluppo per prevenire disastri futuri (ad esempio riserve d’acqua, dighe e pozzi). Anche i mercati globalizzati sono colpevoli, perché favoriscono l’importazione di cibo a scapito dei produttori locali.
In una situazione così grave, rimane nel Coo d’Africa una profonda ferita umana conosciuta ormai da tutto il mondo: i campi dei rifugiati di Dadaab, nel Nord Est de Kenya, a 80 Km dal confine con la Somalia.

Viaggio a Dadaab
Il 12 ottobre scorso, grazie all’appoggio dell’Ong Avsi (Associazione Italiana di Servizio Internazionale) e di Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) ho potuto visitare alcuni campi dei rifugiati di Dadaab. Era un desiderio che avevo nel cuore dopo aver condiviso le realtà della fame nelle diverse zone del Kenya. La zona si trova a un’ora di aereo da Nairobi.
Dadaab è un piccolo villaggio sulla strada che da Garissa (a 130 km) va a Liboi al confine con la Somalia (a 80 Km) in un territorio totalmente sabbioso e impervio pieno di arbusti e poche piante. Gli abitanti sono keniani-somali che da tanto tempo condividono vita e lavoro, commercio e pastorizia. Attoo a questo piccolo villaggio sono piazzati tutti i campi delle Nazioni Unite e delle Ong con una potente difesa di reticolati e cancelli di sicurezza, dove ci sono gli uffici e tende dei volontari per il servizio ai rifugiati.
Nel 1991 quando scoppiò la crisi e la guerra in Somalia, molti somali scapparono dalla loro terra per rifugiarsi in questo angolo del Kenya. Allora il Goveo keniano preparò alcuni campi particolari attorno al villaggio di Dadaab: Ifo 1 nel 1991 per 30mila rifugiati a 5 km,  Dagahaley nel 1992 per altri 30mila rifugiati a 16 km, Hagadera nel 1994 per altri 30mila a 12 km verso Sud. Ora stanno preparando Ifo 2 e 3 per ricevere altre persone e il campo Kambioos al Sud di Hagadera. Ognuno di questi campi ospita oggi circa 120mila rifugiati costituendo il complesso di rifugiati più grande del mondo con 450 mila abitanti.
Qui ogni giorno entrano decine di famiglie (specie donne e bambini): dalle 1.200 alle 1.500 persone che camminano per 24 giorni in condizioni disastrose, o vengono portate su carretti di fortuna o in qualche camion dove sono stipati come animali da macello. Quando arrivano sono in condizioni di fame, degrado, sofferenza, insicurezza, malattie e disperazione silenziosa. Il vero povero non protesta mai, ma guarda e spera.

Rifugiati e rifugiati
Ci sono due tipi di rifugiati: quelli che veramente scappano dalla guerra dei clan e dalla fame che imperversa nel paese, e quelli che sono membri di qualche gruppo armato (come Al Shabaab o altre milizie) e che continuano a seminare terrore e guerra dovunque siano. Nei campi ci sono tante armi che alimentano anche il commercio clandestino in altre aree del paese.
Chi arriva al campo deve passare all’ufficio di registrazione per avere il proprio posto nel clan al quale appartiene, la carta d’identità, una tenda, il bonus per mangiare, per l’ospedale ecc. Ogni famiglia registrata riceve un pacco di cibo per 3 settimane (mais, riso, fagioli, pasta, soia).
Tutti hanno accesso ad acqua gratis, assistenza medica e medicine, educazione libera nel sistema scolastico del Kenya. Tutto questo organizzato da World Food Program (Wfp, agenzia delle Nazioni Unite per la lotta contro la fame) con diverse associazioni e Ong fra cui Care, sotto il patrocinio di Unhcr. In ogni campo ci sono un ospedalino e due dispensari per il pronto soccorso. Le malattie più correnti sono: denutrizione, malaria e infezioni di vario tipo.

Vita nei campi
Gli abitanti dei campi sono al 99% somali provenienti dalla vicina Somalia, poi ci sono piccoli gruppi di etiopi, sudanesi, ruandesi, ugandesi, congolesi scappati da situazioni di tensione, lotte tribali e altre cause di conflitti permanenti. La lingua parlata è il somalo, poco inglese e pochissimo kiswahili (lingua ufficiale del Kenya). Per lavorare con i rifiugiati, ad esempio per rimuovere ansia, diffidenza e ostilità occorre conoscere il somalo, altrimenti ci sono barriere insormontabili. La quasi totalità sono musulmani intransigenti. Con loro il dialogo è difficile. Solamente le donne e i bambini hanno come sempre la dolcezza del rapporto umano, del sorriso e delle porte aperte per il futuro. Il resto è integralismo puro.
Ogni gruppo di 10 casette o tende è circondato da una siepe o «steccato» di arbusti secchi, non per le bestie nottue, mi dicono, ma per una certa privacy a cui loro tengono molto. Ogni gruppo di 10 famiglie ha un capo che cerca di tenere ordine e condivisione. Non è quindi una situazione come quella degli slum di Nairobi, ma una condizione più decente e umanamente accettabile. Da notare che, al di fuori di questi compound, c’è un grande degrado: sporcizia, sacchi di plastica svolazzanti, le famose «mobile tornilets», mucchi di rifuti di ogni tipo dove le capre si danno da fare per trovare qualcosa da mangiare. Il problema più grande dopo il cibo è l’educazione. Molti ospiti sono illetterati. Solamente il 41% dei ragazzi e il 37% delle ragazze vanno a scuola. In tutti i quattro campi ci sono 19 scuole, asilo e primarie insieme, mentre le secondarie sono in tutto sei (due per ogni campo di 120mila rifugiati). Si formano così classi con 90 – 100 alunni, dove la maggioranza siede per terra per mancanza di banchi. Un libro di testo ogni dieci alunni, e pochissimi materiali. Ho visto quadei offerti dall’Unicef (Agenzia Onu per l’infanzia) e altri libri di contabilità ammucchiati a pile negli uffici dei presidi delle scuole. Si stanno costruendo tre biblioteche per favorire la lettura tra gli alunni. Le tre scuole che ho visitato (Amani, Upendo e Iftin – luce) sono frequentate da 1.500 a 2.300 alunni, con molti maestri impreparati e senza materiale didattico.

Tensione e insicurezza
C’è continua tensione in tutti i campi anche nella base delle Nazioni Unite. Il giorno 13 ottobre in piena mattinata sono state rapite due giovani dottoresse spagnole mentre prestavano servizio al campo Ifo. Noi in quel momento eravamo nel campo di Hagadera. Ci è stato dato l’ordine di non muoverci finché non fossero arrivate le forze militari ad accompagnarci al nostro campo. Trenta o quaranta macchine in servizio umanitario costrette al convoglio forzato. E per un giorno non siamo potuti uscire. Al Shabaab e altre milizie hanno un grande potere che il Kenya sta cercando di controllare. Forse è un po’ tardi intervenire adesso, dopo averli lasciati liberi nel commercio delle armi e nelle scorribande nel paese.
Ci sono due stazioni di Polizia per ogni campo ma i problemi sono tanti e delicati. Resta un mistero il traffico delle armi nei campi. Difficile entrare nella cultura familiare e sociale dei clan che dominano la società somala.

Futuro per i Rifugiati
Nel mondo si contano 50 milioni di profughi (in inglese: displaced people). La maggior parte dei conflitti avvengono nei paesi in via di sviluppo e la popolazione civile diventa un bersaglio militare o si trova nel mezzo del fuoco incrociato di gruppi armati. Spostarsi su altre terre vuol dire cercare sicurezza e protezione, cibo e stabilità.
La maggior parte dei rifugiati nei campi di Dadaab vivono in tende, ma anche in cassette fatte con fango e arbusti della savana. Non è facile per loro prevedere il giorno del ritorno: non si sa quando finirà il conflitto dei clan in Somalia. Ognuno vorrebbe ritornare alla propria terra. Ma se un giorno dovessero ritornare, dovrebbero essere sicuri di trovare un sistema legale, giuridico, educativo, e la possibilità di un lavoro. In un termine la sopravvivenza, soprattutto per le  vedove e gli orfani. Il processo di riconciliazione e pace può durare decenni come in altri paesi,

Franco Cellana   

Franco Cellana