«A mezzanotte si alzòun grido: Ecco lo sposo!» (Mt 25,6)
«La nuova Gerusalemme… pronta come una sposa» (Ap 19,7 e 21,25)
Gv 2,9d-10: «L’architriclìno… chiama lo sposo 10e gli
dice: “Chiunque all’inizio/dapprima offre il vino ‘bello’/eccellente e quando
[tutti] sono ubriachi, quello scadente; tu, [invece] hai voluto conservare il
vino ‘bello’/eccellente fino ad ora”».
Siamo alle battute finali del racconto delle nozze di Cana,
che ci ha svelato una prospettiva nuova, proiettata verso il contesto della
storia già accaduta, ma che deve ancora avvenire in maniera compiuta. Giunti
alla fine prendiamo atto che, come abbiamo detto più volte, non vi è cenno alla
sposa che è la grande assente del racconto. Ma la sua assenza è ingombrante,
perché parla più ancora che se fosse presente: la finalità del racconto, nell’ottica
dell’autore, non è la cronaca di un matrimonio o la santificazione anticipata
dello sposalizio cristiano, come se Gesù stesse istituendo «il sacramento»
nuziale; al contrario, l’obiettivo specifico, che ora dovrebbe essere certo per
noi che abbiamo vissuto questo percorso insieme a tutti i personaggi del
racconto, è il rinnovo dell’alleanza del Sinai nella persona di Gesù, il vero
sposo, atteso dall’umanità.
In mezzo a voi c’è uno che non conoscete
Per la terza volta consecutiva in due versetti, l’autore
nomina l’«architriclino», il responsabile organizzativo dei rifoimenti per la
festa perché tutto si svolga senza problemi. Egli però non è riuscito a gestire
«l’evento», perché è stato travolto dalla mancanza di vino, di cui non si è
nemmeno accorto, perché ha provveduto «la madre».
Nell’ottica dell’evangelista, costui non è un organizzatore
qualsiasi; egli, al contrario, è il rappresentante ufficiale dell’«archierèus/capo
dei sacerdoti», cioè dell’autorità ufficiale d’Israele, che avrebbe dovuto garantire
la realizzazione dell’alleanza, mentre invece si è affaccendata in tutt’altro
(cf Gv 18,13). Finalmente troviamo lo «sposo», che è una figura secondaria,
quasi inutile, anzi inesistente, se non fosse per l’incidente del vino mancato,
che «l’autorità» presente interpreta in maniera banale come un errore di
organizzazione. Quando l’autorità manca di prospettiva, finisce sempre per
essere un ostacolo. Ad andare più in profondità, però, scorgiamo che
l’«architriclino», senza nemmeno rendersene conto, dice due cose importanti:
a) il vino nuovo, quello che viene dopo, è superiore a
quello che c’era prima: è eccellente;
b) manifesta la sua sorpresa per la superiorità del vino
nuovo, quasi a volere dire che in tutta la sua vita non ne aveva assaggiato uno
come questo. Nonostante questa constatazione e il suo «stupore», egli non
riesce ad andare oltre: l’espressione che rivolge allo sposo, «fino ad ora»,
lascia intendere che ci troviamo di fronte a due epoche, a due tempi, a due
mondi: il mondo «fino ad ora» e il mondo che comincia da «adesso in poi». Egli
non si rende conto della presenza di Gesù e dell’azione da lui compiuta, per
cui non si apre al fatto nuovo accaduto sotto i suoi occhi, che spacca in due
la storia e il tempo, in «prima di Cristo» e «dopo di Cristo».
Per l’autorità religiosa il «nuovo» è prigioniero del
passato, una integrazione nella continuità della tradizione per cui nulla
cambia, anche se tutto si trasforma. Oggi si direbbe «l’ermeneutica della
continuità» che spiega certamente una linea teologica o, se si vuole, anche
religiosa, nel senso di dare sicurezze e tranquillità a chi magari soffre di
cuore e non vuole scomporsi più di tanto, restando fermo al calduccio
dell’utero materno. Per questa logica, però, nulla può succedere di decisivo e
dirompente, perché tutto deve avvenire in forma programmata e lineare.
La storia, come la vita, mai è lineare, ma è sempre protesa
verso il futuro, con andamento in parte lineare, in parte storto, in parte
aggrovigliato e a volte anche senza senso. È l’esperienza che ognuno di noi fa
ogni giorno e non si capisce perché questo criterio debba valere per ciascuno
di noi e non può valere per la storia degli eventi, considerata in sé.
L’uomo religioso creò Dio sua immagine e somiglianza
Con il cambiamento dell’acqua in vino, Gesù opera una
rottura: c’è un prima e c’è un poi, esattamente come prima c’era l’acqua e dopo
c’è il vino: non si può fare finta che gli eventi debbano adattarsi a noi;
semmai siamo noi che dobbiamo entrare nel cuore degli avvenimenti per scoprire,
lì, il comandamento di Dio. Quando vogliamo interpretare i «kairòi – le
occasioni» di Dio con i nostri criteri, non dovremmo mai dimenticare il monito
di Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono
le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le
mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri»
(Is 55,8-9).
Spesso, anche noi, come l’architriclino del racconto,
vogliamo insegnare a Dio il suo mestiere e pretendiamo che agisca secondo i
nostri canoni e le nostre mentalità. La Bibbia, la Parola ci è data non per
fae una lettura spirituale, ma per imparare a conoscere la «mens» di Dio e
inserirci in essa per sposarla, condividerla e praticarla.
A volte si ha l’impressione che i credenti, e anche gli
addetti specifici alla vita religiosa, dicano di credere in «un Dio a loro
immagine e somiglianza» e non nel Dio di Gesù Cristo, il quale è venuto a
rivoluzionare ogni sistema religioso che pretende di incatenare Dio in schemi
precostituiti. Ci fermiamo, come l’architriclino, solo a un «assaggio» e non
siamo in grado di andare oltre, perché abbiamo paura di oltrepassare il confine
che ci siamo imposto. Invece di alzarsi in piedi, abbandonando la comodità
oziosa del banchetto, e chiedere ai presenti che cosa fosse quella novità,
perché sconvolgeva la «tradizione» usuale, si limita a chiamare lo sposo per
dargli un buffetto sulla guancia. Non si accorge che lo Sposo è un altro e non
si rende conto che ben altre nozze si stanno celebrando, né prende coscienza
che un tempo è finito e tutti, lui e noi, siamo entrati in un’altra dimensione.
L’autorità che avrebbe dovuto guidare il popolo in attesa
alla scoperta dei «segni dei tempi» per cogliere la Shekinàh – Dimora/Presenza
del Signore, resta seduto al suo tavolo ad assaggiare il vino, comunque arrivi,
facendo perdere anche ai presenti «la novità» della presenza eccezionale e
decisiva del Signore: «Stolti e ciechi! Voi … trasgredite il comandamento di
Dio in nome della vostra tradizione?» (Mt 23,17; 15,3).
Cana, il simbolo della nuova alleanza
Solo a questo punto, in Gv 2,10, dopo ben 10 versetti,
riusciamo a capire, come per uno squarcio, che ci troviamo di fronte a un
evento straordinario, inaspettato: lo sposo non è il pover’uomo rimproverato
dall’autorità per avere fatto male i conti, ma è un Altro, è colui che è
annunciato nella notte alle vergini sia stolte che prudenti, cioè a tutta la
comunità: «A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”»
(Mt 25,6). Egli ha in mano la chiave del Sinai, la cantina in cui è custodito
il vino del Messia e finalmente lo distribuisce all’umanità invitata a
partecipare alle nozze dell’alleanza.
Solo ora scopriamo che «Cana» è un simbolo, un richiamo
appena velato che ci rimanda a una realtà ben più significativa e corposa:
l’irruzione di Dio nella storia che ora si compie nella persona del Signore
Gesù. Per questo la «madre», in rappresentanza di Israele, può chiedere al
Figlio di dare finalmente questo vino, perché i figli da lungo tempo ne sono
privi; il suo «vino-non-hanno-più» non è la mesta constatazione di un disagio
momentaneo a un matrimonio di amici, ma l’anelito di tutte le attese e speranze
d’Israele, degnamente rappresentato dalla «madre» che funge anche da sposa,
anzi da vedova, che apre le porte di Sion ai figli lontani, invitandoli a
ritornare da ogni esilio, dolore, smarrimento e sedersi alla mensa delle nozze,
perché «è il Signore!» (Gv 21,7).
Finalmente scopriamo il ruolo dei personaggi: la «madre» è
la sposa d’Israele in attesa del suo Signore e il Figlio svolge il ruolo dello
Sposo atteso, del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, quello rivelatosi sul
monte Sinai al profeta Mosè che, nella funzione di «amico dello Sposo»,
consegnò in nome di Dio a Israele radunato intorno al monte le tavole nuziali
del patto d’amore.
Di fronte alla scoperta del vino «bello», superiore a quello
già esistente, tutto cambia e tutto acquista un senso nuovo. Possiamo con
certezza dire che tutto il racconto è un simbolo per metterci in guardia, per
dirci di fare attenzione al vero Sposo che è presente e che rischiamo di non
riconoscere se ci fermiamo alle apparenze del gusto e dell’ovvio. Ora ci appare
anche chiaro perché, immediatamente dopo il racconto del «segno di Cana»,
Giovanni il Battezzante presenta Gesù come lo Sposo (cf Gv 3,25-30), riservando
per sé la funzione tipica dell’uso giudaico di «amico dello sposo». In questo
modo vediamo Giovanni Battista come l’antitesi perfetta dell’architriclino:
questi non si accorge nemmeno dello Sposo che inaugura gli «ultimi tempi» del
compimento nel segno del vino «bello»; il Battista invece ha coscienza di
esistere solo per indicare agli altri, al mondo, chi è lo Sposo atteso,
accettando per sé la funzione di paraninfo, cioè di amico, impegnato a
preparare le nozze senza fine (cf Gv 3,39).
La sposa è chiunque crede che Gesù è il Signore
A questo punto è necessario uscire dal simbolismo per
entrare nel cuore dell’annuncio. Gesù è stato «chiamato» alle nozze, come Mosè
è stato «chiamato» in cima al monte Sinai. Gesù si presenta «per» le nozze con
i suoi discepoli. Alcuni di questi gli erano stati mandati da Giovanni il
Battista, quando nel capitolo precedente aveva indicato «l’Agnello di Dio» e
due erano voluti andare a «vedere» dove Gesù abitasse, fermandosi fino alle ore
16 (cf Gv 1,35-39), cioè l’ora in cui nel tempio di Gerusalemme, il sommo
sacerdote (archierèus) uccideva l’Agnello, versando il suo sangue come sangue
dell’alleanza tra Dio e Israele.
Se Gesù è lo Sposo e Giovanni il Battista «conduce» i
discepoli a lui, con cui poi si fermano insieme alla «madre» alle nozze, fuori
metafora, ecco la realtà: Gesù è lo Sposo e i discepoli con la madre sono la
sposa, cioè il popolo d’Israele nella nuova versione della comunità ecclesiale.
In altre parole, la madre e i discepoli sono il modello di coloro che credono,
il «segno» visibile della nuova Chiesa che riprende in mano e nella vita
l’alleanza del Sinai, affinché guidata dal nuovo Mosè, Gesù, possa
intraprendere il nuovo pellegrinaggio verso il regno.
Chiunque crede diventa la sposa. Ecco perché nel racconto
non può essere presente una sposa qualsiasi: perché sono sufficienti la madre,
gli apostoli e tutti coloro che sul loro esempio crederanno nel Figlio che apre
i tempi nuovi e i cieli nuovi dell’alleanza nuova. Questa idea si trova anche
nell’Apocalisse, che appartiene alla letteratura giovannea, ed è descritta come
sposalizio tra l’Agnello/Sposo e Gerusalemme/sposa: «Sono giunte le nozze
dell’agnello; la sua sposa è pronta… vidi la città santa, la nuova
Gerusalemme, scendere, da Dio, pronta come una sposa adoa per il suo sposo»
(Ap 19,7 e 21,2).
Dio, senza passato né tradizioni
Da un punto di vista strettamente esegetico, possiamo
rilevare che l’espressione di Gv 2,10 da noi tradotta con «chiunque», e da
altri con «tutti», alla lettera sarebbe «ogni uomo» (pâs ànthrōpos). Noi preferiamo il senso
indeterminato per due motivi: indica una consuetudine di tradizione, quindi
anonima e può coinvolgere ciascuno, cioè «chiunque»; in secondo luogo, si
determina in modo più forte il contrasto tra l’indeterminatezza della tradizione
di «chiunque» e la personalizzazione estrema del «tu» con cui l’architriclino
si rivolge allo sposino: «tu, [invece]». Ci troviamo quindi di fronte a uno
schema letterario di forte contrasto teologico: «chiunque – tu». Chiunque è il
passato, la tradizione, la consuetudine, l’usanza; potremmo dire l’abominevole
«si è sempre fatto così», che tarpa le ali a qualsiasi afflato di novità in
nome della pigrizia e grettezza. Tu, invece, è un appello alla coscienza
individuale che s’immerge nella storia, ne coglie il senso appena velato e lo
svela in tutto il suo spessore, senza paura del nuovo e dell’imponderabile che
nasconde nel suo grembo il seme di Dio.
Sì, possiamo dirlo: Dio non ha tradizioni da difendere,
perché egli è sempre nuovo e parla ogni giorno la lingua del momento,
altrimenti parlerebbe inutilmente. Dio non ha passato, perché egli è «il Fine»,
quello che Teihallard de Chardin chiamava «il Cristo, il punto omèga», colui
che attrae a sé tutto e tutti dalla prospettiva della fine e del compimento.
Conservare per scoprire sempre più
Il verbo usato dall’architriclino «tetêrēkas» (in greco, perfetto
indicativo alla seconda persona singolare) è preceduto dal pronome rafforzativo
«sy – tu» che in greco potrebbe essere omesso. Se però c’è, come qui, acquista
forza e valenza più forti e profonde; come abbiamo visto, quel «tu» è
essenziale e necessario perché si contrappone al «chiunque» dell’inizio del
versetto. Non si tratta più di interpellare lo sposino improvvido, ma il
lettore, cioè «tu» che leggi, che accetti l’invito di partecipare alle nozze,
di condividere la fede della madre e dei discepoli e quindi di volere fare
parte della nuova comunità, che è la Chiesa.
Essa, sulla scia di Israele, popolo di Dio, nasce sulle
falde del monte Sinai, ma giunge ai piedi del monte Calvario, il monte della
rivelazione, la rivelazione dell’«ora», l’ora della discesa non più della
Toràh, ma dello Spirito di Dio che porta a pienezza la Toràh e la forza di
adempierla: «Reclinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).
Il verbo «terèō
– custodisco/conservo» al perfetto indica un’azione passata, i cui effetti
continuano nel presente. La forma italiana «hai custodito», al passato
prossimo, che è troppo povera, anche perché il perfetto greco ripete una parte
del tema («te-te»), che in qualche modo deve essere percepito anche nel suono
oltre che nel concetto. Ci pare che, in questo passo, la forma più corretta
possa essere: «Tu hai continuato a conservare/custodire». All’inizio di questa
puntata, riportando il versetto nel titolo, abbiamo tradotto con «tu (invece)
hai voluto conservare», dove si mette in evidenza la volontà che persegue
l’atto della conservazione, come se fosse un progetto in fase di esecuzione e
quindi continuativo.
Ci troviamo di fronte a un comportamento simile a quello del
servo che ha ricevuto «un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi
nascose il denaro» (Mt 25,8) in attesa che gli eventi maturassero. Qui è
evidente che l’autore vuole farci capire che è finito il tempo dell’attesa,
individuato in quel «fino ad ora», segno di uno spartiacque e di un cambiamento
di scena e di tempo. «Ora» comincia un tempo «altro»: quello che troverà
compimento sulla croce, la vera Cana dove si celebra lo sposalizio tra Dio e
l’umanità e dove viene distribuito a piene mani il vino della vita di Cristo;
il sangue del suo costato è dato fino all’ultima goccia: «Subito ne uscì sangue
e acqua» (Gv 19,34). Acqua e sangue, esattamente come a Cana, che vide l’acqua
trasformata in vino.
L’accenno alla nuova economia sacramentale ci pare evidente
perché la prospettiva è quella della vita donata senza riserva con uno scopo
puntuale, perché tutti quelli che vogliono «abbiano la vita e l’abbiano in
abbondanza» (Gv 10,10).
(36 – continua)
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Paolo Farinella