INCONTRI RAVVICINATI (Malattie sessuali – 1)

LE «MALATTIE SESSUALMENTE TRASMESSE» (prima
parte)
A causa
della delicatezza del tema, le «Malattie sessualmente trasmesse» (Mst) sono un’emergenza
mondiale poco conosciuta. Ma i numeri
parlano chiaro: 340 milioni di nuovi casi ogni anno e di questi
111 milioni riguardano
giovani sottorni 25 anni. Aids escluso.

PREMESSA

La mia passata esperienza di ricercatrice in campo medico e
quella attuale di insegnante di scuola superiore e di madre di una ragazza di
17 anni mi hanno convinta della necessità di proporre il delicato argomento
delle «Malattie sessualmente trasmesse» (Mst) alla redazione di MC, che ha
accettato, concordando sulla necessità di offrire soprattutto ai giovani, ma
anche ai meno giovani una maggiore informazione e di conseguenza una maggiore
consapevolezza dei rischi, che potrebbero correre durante eventuali «incontri
ravvicinati».

Una delle emergenze meno conosciute, ma più temibili, che
caratterizza il panorama sanitario attuale a livello mondiale è la diffusione
delle «Malattie sessualmente trasmesse» (Mst) o veneree. È opinione comune,
specialmente tra i giovani, che, a parte l’Aids, queste malattie siano ormai
retaggio del passato. Purtroppo i dati dell’«Organizzazione mondiale della
sanità» (Oms) rivelano una situazione diametralmente opposta. Ci sono infatti
circa 340 milioni di nuovi casi all’anno al mondo di Mst escluso l’Aids e, di
questi, 111 milioni riguardano giovani sotto i 25 anni. Nei paesi più poveri,
gli adolescenti colpiti da queste malattie sono l’85%. Si stima che ogni anno
un adolescente su quattro di età compresa tra 13 e19 anni contragga una Mst
attraverso un rapporto sessuale.

OLTRE LA «STORICA» SIFILIDE

Accanto alle malattie veneree tradizionali, o
di prima generazione – la sifilide o lue, la gonorrea, il linfogranuloma
venereo e l’ulcera molle -, le nuove conoscenze in campo microbiologico e
clinico hanno permesso l’individuazione di oltre 20 diversi agenti eziologici
(vedi Glossario), tra batteri, virus, protozoi e parassiti, responsabili
di circa trenta Mst, che vengono definite di seconda generazione. Le Mst di
prima generazione sono quelle storiche, mentre quelle di seconda generazione
hanno fatto la loro comparsa nel ventesimo secolo. Sono infatti emersi nuovi
agenti infettanti.

Le cause sono molteplici. Una di esse è
l’aumento delle terapie antibiotiche non mirate, che possono avere creato una
selezione o una mutazione dei ceppi responsabili in passato di altre malattie.
Un’altra causa potrebbe essere la mobilità delle popolazioni. Basta pensare
alla sifilide portata in Europa probabilmente dai marinai di Cristoforo Colombo
e diffusasi con una prima epidemia a Napoli nel 1495, a seguito della discesa
dell’esercito francese guidato dal re Carlo VIII. Il ritorno verso nord
dell’esercito diffuse la malattia prima in tutta l’Italia e poi in tutta Europa,
fino a giungere in Oriente. La malattia venne denominata ovunque «mal francese»,
tranne in Francia, dove venne chiamata invece «mal napolitain». Tra gli agenti
responsabili delle nuove Mst sono stati individuati il Trichomonas vaginalis,
la Chlamydia trachomatis, il Mycoplasma spp, l’Herpes simplex
virus
(Hsv) di tipo 1 e 2, una notevole varietà (oltre 100) di tipi di Papilloma
virus umani
(Hpv), i virus dell’epatite B e C, oltre a quello dell’Aids
(Hiv). Al di là del quadro clinico presentato dalle singole Mst, più o meno
grave a seconda del tipo (si va dalle perdite mucose alle ulcere genitali,
all’edema inguinale, al dolore intenso all’addome inferiore ed alle infezioni
oculari neonatali), un aspetto molto preoccupante di queste malattie è
rappresentato dalle loro conseguenze e complicanze, che limitano fortemente la
capacità riproduttiva. Tra queste ricordiamo la malattia infiammatoria pelvica
(Mip o Pid cioè «pelvic inflammatory disease», vedi Glossario),
la sterilità tubarica, l’ipofertilità sia maschile che femminile, la gravidanza
ectopica (Glossario), l’endometrite (Glossario) post-partum, il
parto pretermine, le stenosi uretrali, l’aborto, la morte pre e perinatale,
l’oftalmia neonatorum e la sifilide congenita, causata dalla
trasmissione verticale da madre a feto. È perciò di importanza fondamentale
prevenire l’insorgenza e la diffusione delle Mst, perché altrimenti
aumenteranno sia il numero dei malati, che quello delle  persone sterili. Inoltre alcune di queste
infezioni possono alla lunga causare l’insorgenza di tumori, come quello da
Hpv, che è responsabile del carcinoma della cervice uterina, oppure le epatiti
virali, che possono provocare l’epatocarcinoma (o carcinoma del fegato).

L’AVANZATA DEL CONDILOMA

È evidente come le cure di queste malattie e
delle loro complicanze possano incidere pesantemente sulle risorse finanziarie
del Sistema sanitario nazionale (servono 400 euro a persona, in Italia, solo
per curare la condilomatosi da Hpv, una delle manifestazioni meno gravi).
Attualmente in Europa le Mst rappresentano le infezioni più diffuse dopo quelle
respiratorie e sono tornate all’ordine del giorno dei sistemi sanitari europei
a seguito dell’elevata incidenza nei nuovi paesi membri, cioè quelli dell’ex
blocco sovietico. Secondo l’Ufficio regionale europeo dell’Oms, l’incidenza
delle Mst nei paesi dell’est europeo è mediamente 100 volte superiore a quella
dei paesi occidentali (da 62,8-164,1 su 100.000 persone a 1,46 su 100.000). In
Russia nel 1990 c’è stata un’epidemia di sifilide, che ha iniziato a declinare
solo nel 1998, ma che ha portato ad un aumento della sifilide congenita. Nei
paesi occidentali, dagli anni ’70 al 2000, si è osservato un progressivo
aumento delle Mst virali, come le patologie da papilloma virus umano (Hpv), da Herpes
simplex
1 e 2 (Hsv), da virus dell’immunodeficienza umana, o Aids (Hiv) e
delle epatiti B e C, mentre sono diminuiti i casi di Mst classiche di origine
prevalentemente batterica (sifilide, gonorrea, linfogranuloma venereo, ulcera
molle, granuloma inguinale). Tra le Mst virali, i condilomi acuminati (vedi Glossario)
da Hpv sono al primo posto per numero di visite e diagnosi. Si stima che 20
milioni di statunitensi abbiano già contratto questa infezione e che ogni anno
vi siano 5 milioni di nuovi casi. La stessa situazione è presente in Europa,
dove i condilomi acuminati rappresentano un terzo delle diagnosi di Mst.

Se le Mst di prima generazione hanno
presentato un progressivo calo fino al 2000, fin quasi a scomparire in Europa e
negli Stati Uniti, dal 2000 in poi la situazione si è ribaltata e attualmente
queste patologie mostrano nei paesi occidentali, Italia compresa, una
recrudescenza soprattutto nelle grandi città metropolitane e tra le categorie
di popolazione a maggiore rischio di contagio, come gli omosessuali, chi fa
sesso a pagamento ed i migranti. Queste attuali riemergenze di patologie, che
sembravano ormai debellate, sono correlabili con i rapidi cambiamenti dei
comportamenti sessuali, come un sempre maggiore ricorso a pratiche sessuali a
rischio ed un sempre minore uso del preservativo, anche tra gli individui
portatori di Hiv conclamato (Glossario). Diversi studi hanno dimostrato
che l’aumento della diffusione delle Mst è relazionabile con l’aumento dei casi
di Aids e, viceversa, come i malati di Mst siano a maggiore rischio di
contrarre anche l’Aids.

I FATTORI DI RISCHIO

I fattori di rischio per le Mst sono
molteplici. Al primo posto c’è la promiscuità sessuale, cioè l’elevato numero
di partners, soprattutto nei casi di rapporti occasionali. Abbiamo poi
la coinfezione con Hiv, oppure una precedente storia di Mst. Sicuramente tra i
fattori di rischio c’è un’informazione carente, che purtroppo riguarda fasce
sempre più ampie di popolazione, nonché il mancato utilizzo di mezzi di barriera
nei rapporti a rischio.

Ci sono delle condizioni predisponenti alle
Mst sia biologiche, che comportamentali. Tra le prime c’è la giovane età, in
quanto i giovani hanno i tessuti genitali ancora immaturi, quindi più ricettivi
verso i patogeni, inoltre molto spesso non hanno ricevuto un’adeguata
educazione sanitaria, il che comporta un significativo calo della percezione
del rischio d’infezione ed infine accedono poco ai servizi sanitari, per questo
tipo di problemi. Le donne sono più suscettibili, per la complessità
dell’apparato genitale femminile, nel quale i patogeni hanno una maggiore
probabilità di stabilirsi. Infine sono a rischio di contrarre una Mst i
soggetti che presentano uno stato di immunodeficienza, prodotto – ad esempio –
da tossicodipendenza e alcolismo, che comportano un abbassamento delle difese
immunitarie nonché riduzione della lucidità e, con essa, dell’attenzione verso
i rapporti a rischio. Per quanto riguarda le modalità di contagio, questo può
verificarsi sia in rapporti omo, che eterosessuali, ma per molte Mst esiste,
come già visto, anche quello da madre a feto. La sintomatologia è variabile, a
seconda della Mst, ma è anche possibile la completa assenza di sintomi e di
lesioni visibili, pur essendo presente la malattia e, soprattutto, la
possibilità di trasmetterla. È infatti possibile che il soggetto sia un
portatore sano (Glossario), oppure che si trovi nel periodo di latenza
della malattia. In questi casi c’è completa assenza dei sintomi, ma la persona
può infettare il partner, nel quale la malattia può invece manifestarsi. Questo
avviene tipicamente nell’Aids e nell’epatite B e C, malattie virali che
peraltro non si trasmettono solo con i rapporti sessuali, ma anche tramite la
contaminazione con sangue o con liquidi organici infetti (trasfusioni, ferite
con strumenti non adeguatamente sterilizzati, ecc.). Si ritiene che il 10-20%
della popolazione maschile ed il 75% di quella femminile con infezione da Chlamydia
trachomatis
rimanga asintomatico, il che comporta la facile trasmissibilità
dell’infezione durante i rapporti sessuali non protetti ed il mancato ricorso
alle cure mediche. Il decorso asintomatico tuttavia non esclude le complicanze
a lungo termine. Si registra, ad esempio, la comparsa della malattia
infiammatoria pelvica (Mip, vedi Glossario) nel 15% delle adolescenti
infette da Chlamydia non curate, con il rischio di andare incontro a
lesioni tubariche ed a sterilità.

Mentre in passato le Mst erano più spesso
associate alla prostituzione ed alle immigrazioni di popolazioni alla ricerca
di migliori condizioni di vita, attualmente queste malattie si correlano anche
al turismo sessuale, un fenomeno in continua crescita (MC ne ha parlato più
volte
), con un business che ogni anno fattura circa 5 milioni di
dollari e che coinvolge uomini, donne e bambini. Le aree maggiormente
interessate da questo fenomeno sono l’Asia, l’America Latina e l’est europeo.
Secondo il rapporto Unicef del 2006 sulla condizione dell’infanzia nel mondo,
il Brasile, il Messico, la Thailandia e la Cina sono i paesi con il più alto
traffico e sfruttamento dei minori, mentre l’Italia è risultata al primo posto
tra i paesi europei per il turismo sessuale. Tra l’altro questo fenomeno non è
più ad esclusivo appannaggio maschile, ma si sta diffondendo anche il turismo
sessuale femminile.

IL «PAPILLOMA VIRUS» E L’«HERPES SIMPLEX»

In Italia la diffusione delle Mst è valutata
da un sistema di sorveglianza attivo presso l’Istituto superiore di Sanità,
sulla base delle diagnosi effettuate da una rete di centri specialistici
pubblici (la notifica della diagnosi delle Mst è obbligatoria). Sulla base dei
dati raccolti da questo sistema emerge che il 90% dei pazienti è eterosessuale,
che oltre il 40% dei pazienti sono donne, che circa il 15% non è italiano e che
il 21,4% ha già avuto almeno una Mst in passato. L’età del primo rapporto
sessuale risulta essere inferiore a 16 anni nel 38,5% dei casi e spesso questi
ragazzi hanno dichiarato di avere avuto più di due partners. Inoltre, dalle
loro dichiarazioni emerge che il 51,8% fa regolarmente uso del preservativo,
mentre il 48% non sempre, poco o per nulla. Tra le malattie batteriche o
protozoarie più diffuse ci sono la Chlamydia trachomatis, il Trichomonas
vaginalis
e la gonorrea, ma, come visto, sono in aumento i casi di sifilide.
Tra le malattie virali più diffuse si registrano, oltre l’Aids e le epatiti B e
C, gli Herpes simplex 1 e 2 ed i papilloma virus (questi ultimi da soli
causano un terzo di tutte le Mst virali mondiali). Per quanto riguarda i
papilloma virus (Hpv) – responsabili sia dei condilomi acuminati, che del
tumore della cervice uterina – è stata avviata una controversa campagna
vaccinale, di cui parleremo nella prossima puntata.

Con riferimento alla diffusione nel mondo
delle Mst, la maggior parte delle patologie si manifesta nell’Asia meridionale
e sud-orientale, seguita dall’Africa sub-sahariana e dall’America latina e
caraibica. Nei paesi in via di sviluppo, le Mst e le loro complicazioni sono
tra le prime cinque classi di malattie, che comportano il ricorso della
popolazione adulta alle cure mediche. Questo ha una notevole rilevanza dal
punto di vista economico, poiché tali cure da sole assorbono il 17% della spesa
sanitaria di questi Paesi. La patologia più diffusa in questi Paesi è l’Herpes
simplex
2, la causa più frequente di ulcere genitali. Nell’Africa
sub-sahariana ne sono affetti il 30-80% delle donne ed il 10-50% degli uomini.
Nel sud America la percentuale è del 20-40% nelle donne, in Asia del 10-30%
della popolazione totale. L’Herpes simplex 2 ha un ruolo importante nel
contrarre l’Aids. Lo dimostrano i dati della Tanzania, dove si riscontra la
coinfezione nel 74% degli uomini con questa Mst e nel 22% delle donne.

INFORMARE ED EDUCARE

Come si evince da questi dati, le Mst sono
uno dei problemi principali di salute pubblica a livello mondiale ed il
controllo della loro diffusione è una delle priorità dell’Oms. In particolare,
per quanto riguarda i giovani, è fondamentale monitorare la diffusione delle
Mst tra gli adolescenti, effettuando test di screening nelle scuole per
patologie ad altissima diffusione, come la Chlamydia. È altresì
fondamentale informare/educare i ragazzi, poiché l’informazione è la pietra
miliare nella riduzione delle Mst. Quando infatti si parla di queste malattie, è
facile incorrere in due grossi errori. Il primo è pensare che in questa
categoria rientri solanto l’Aids; il secondo errore è ritenere che, se i media
non affrontano questo argomento per un certo tempo, voglia dire che le Mst sono
diminuite o sono state addirittura debellate. L’informazione dovrebbe invece
giungere a tutti e ai giovani in particolare in modo corretto e capillare, sia
a livello scolastico, sia attraverso i mezzi di comunicazione. Ed è proprio in
quest’ottica, che su MC appare questo articolo, cui seguirà un secondo con la
descrizione delle principali Mst e delle loro complicanze.

Rosanna
Novara Topino

(fine prima parte)
 
GLOSSARIO

Agente eziologico: gli agenti eziologici o patogeni sono
i fattori, che causano malattia. Possono essere singoli o molteplici. In questo
caso si parla di malattia multifattoriale. Tra i principali agenti eziologici
di malattie infettive abbiamo i virus, i batteri, i funghi, i protozoi ed i
parassiti.

Clinica: metodologia medica basata sull’esame diretto del
paziente e sulla cura non chirurgica delle varie patologie.

Condiloma acuminato: viene anche chiamato verruca
genitale. Si tratta di una o più escrescenze o protuberanze causate dal virus
del papilloma umano (Hpv). È una delle più comuni Mst. Si possono avere più
condilomi raggruppati, che ricordano una cresta di gallo o un cavolfiore. La
localizzazione è prevalentemente sugli organi genitali, sull’inguine e sulle
cosce. Solitamente non causano dolore. Si trasmettono principalmente attraverso
il contatto sessuale con una persona infetta e possono comparire anche dopo
settimane o mesi dal rapporto.

Endometriosi: malattia cronica originata dalla presenza
anomala del tessuto che riveste la parete intea dell’utero, detta endometrio
in altri organi, come ovaie, tube, peritoneo, vagina, intestino. Ogni mese il
tessuto endometriale impiantato in sede anomala va incontro a sanguinamento
sotto l’influsso degli ormoni, che regolano il ciclo mestruale, esattamente
come l’endometrio vero e proprio. Tale sanguinamento porta ad un’irritazione
dei tessuti circostanti, con formazione di tessuto cicatriziale e di aderenze.

Gravidanza ectopica: gravidanza extrauterina, che si
svolge in una sede diversa dall’utero. Possiamo avere gravidanze tubariche,
tubo-ovariche, ovariche, addominali, come conseguenza del mancato impianto
dell’embrione nella cavità uterina, per diversi motivi. Il rischio di
gravidanza ectopica è maggiore nelle donne meno giovani e nelle nullipare, che
hanno avuto aborti plurimi. La gravidanza ectopica non diagnosticata o
riconosciuta tardi può complicarsi fino all’esito letale. L’emorragia intea
può provocare shock emorragico oppure una grave anemia.

Lesioni tubariche: lesioni alle tube di Falloppio, che
possono essere causa di sterilità, a seguito dell’ostruzione delle tube stesse,
con conseguente impedimento del trasporto degli ovociti. Viene inoltre a
mancare un ambiente adatto alla fecondazione. Le cause possono essere varie.
Tra queste abbiamo infiammazioni, infezioni, interventi chirurgici addominali
seguiti da aderenze dei tessuti, endometriosi.

Malattia infiammatoria pelvica: questa espressione indica
generalmente un’infezione ed infiammazione degli organi superiori dell’apparato
genitale femminile. L’infezione può interessare l’utero, le tube, le ovaie.
All’interno di questi organi possono formarsi cicatrici, che possono provocare
sterilità, gravidanze ectopiche (voce corrispondente), dolore pelvico cronico,
ascessi. Sono più a rischio le donne con una Mst, ma anche le giovani sotto i
25 anni, per relativa immaturità dei tessuti genitali. Tra gli altri fattori di
rischio ci sono le lavande vaginali ed i dispositivi anticoncezionali
intrauterini (Iud).

Neuropatia: patologia che colpisce il sistema nervoso
periferico (i nervi), ad eccezione del nervo olfattivo e di quello ottico. Può
essere localizzata in uno o più nervi. Si possono avere deficit positivi da
irritazione (aumento della funzionalità) o negativi (diminuzione). Tra i
deficit sensitivi abbiamo le parestesie ed i dolori urenti distali, le
anestesie della cute correlate a deficit motori, le atrofie e le ipotonie
muscolari dolenti alla pressione, l’assenza di riflessi propriocettivi, ecc.

Portatore sano: persona affetta da un agente eziologico,
senza i segni clinici della malattia, ma con possibilità di infettare gli
altri. Tipico è il caso dei portatori sani del virus Hiv dell’Aids e delle
epatiti B, C e D. Questa condizione dipende dalle difese immunitarie della
persona, in questo caso particolarmente forti.

Sieropositivo: persona che presenta un agente eziologico
nel sangue e negli altri liquidi organici. Sia le persone con malattia
conclamata, che i portatori sani sono sieropositivi, quindi infettivi per gli
altri. Sono altresì infettivi anche coloro che si trovano nel periodo di
latenza della malattia e coloro, che, pur essendo clinicamente guariti, per un
certo tempo rilasciano ancora i virus. La guarigione definitiva dalla malattia
si ha quando si raggiunge la sieronegatività (laddove possibile).

R.N.T.

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Rosanna Novara Topino




(Cana 36) «A mezzanotte si alzò un grido: Ecco lo sposo!» (Mt 25,6)

«A mezzanotte si alzòun grido: Ecco lo sposo!» (Mt 25,6)


«La nuova Gerusalemme… pronta come una sposa»   (Ap 19,7 e 21,25)


Gv 2,9d-10: «L’architriclìno… chiama lo sposo 10e gli
dice: “Chiunque all’inizio/dapprima offre il vino ‘bello’/eccellente e quando
[tutti] sono ubriachi, quello scadente; tu, [invece] hai voluto conservare il
vino ‘bello’/eccellente fino ad ora”».

Siamo alle battute finali del racconto delle nozze di Cana,
che ci ha svelato una prospettiva nuova, proiettata verso il contesto della
storia già accaduta, ma che deve ancora avvenire in maniera compiuta. Giunti
alla fine prendiamo atto che, come abbiamo detto più volte, non vi è cenno alla
sposa che è la grande assente del racconto. Ma la sua assenza è ingombrante,
perché parla più ancora che se fosse presente: la finalità del racconto, nell’ottica
dell’autore, non è la cronaca di un matrimonio o la santificazione anticipata
dello sposalizio cristiano, come se Gesù stesse istituendo «il sacramento»
nuziale; al contrario, l’obiettivo specifico, che ora dovrebbe essere certo per
noi che abbiamo vissuto questo percorso insieme a tutti i personaggi del
racconto, è il rinnovo dell’alleanza del Sinai nella persona di Gesù, il vero
sposo, atteso dall’umanità.

In mezzo a voi c’è uno che non conoscete

Per la terza volta consecutiva in due versetti, l’autore
nomina l’«architriclino», il responsabile organizzativo dei rifoimenti per la
festa perché tutto si svolga senza problemi. Egli però non è riuscito a gestire
«l’evento», perché è stato travolto dalla mancanza di vino, di cui non si è
nemmeno accorto, perché ha provveduto «la madre».

Nell’ottica dell’evangelista, costui non è un organizzatore
qualsiasi; egli, al contrario, è il rappresentante ufficiale dell’«archierèus/capo
dei sacerdoti», cioè dell’autorità ufficiale d’Israele, che avrebbe dovuto garantire
la realizzazione dell’alleanza, mentre invece si è affaccendata in tutt’altro
(cf Gv 18,13). Finalmente troviamo lo «sposo», che è una figura secondaria,
quasi inutile, anzi inesistente, se non fosse per l’incidente del vino mancato,
che «l’autorità» presente interpreta in maniera banale come un errore di
organizzazione. Quando l’autorità manca di prospettiva, finisce sempre per
essere un ostacolo. Ad andare più in profondità, però, scorgiamo che
l’«architriclino», senza nemmeno rendersene conto, dice due cose importanti:

a) il vino nuovo, quello che viene dopo, è superiore a
quello che c’era prima: è eccellente;

b) manifesta la sua sorpresa per la superiorità del vino
nuovo, quasi a volere dire che in tutta la sua vita non ne aveva assaggiato uno
come questo. Nonostante questa constatazione e il suo «stupore», egli non
riesce ad andare oltre: l’espressione che rivolge allo sposo, «fino ad ora»,
lascia intendere che ci troviamo di fronte a due epoche, a due tempi, a due
mondi: il mondo «fino ad ora» e il mondo che comincia da «adesso in poi». Egli
non si rende conto della presenza di Gesù e dell’azione da lui compiuta, per
cui non si apre al fatto nuovo accaduto sotto i suoi occhi, che spacca in due
la storia e il tempo, in «prima di Cristo» e «dopo di Cristo».

Per l’autorità religiosa il «nuovo» è prigioniero del
passato, una integrazione nella continuità della tradizione per cui nulla
cambia, anche se tutto si trasforma. Oggi si direbbe «l’ermeneutica della
continuità» che spiega certamente una linea teologica o, se si vuole, anche
religiosa, nel senso di dare sicurezze e tranquillità a chi magari soffre di
cuore e non vuole scomporsi più di tanto, restando fermo al calduccio
dell’utero materno. Per questa logica, però, nulla può succedere di decisivo e
dirompente, perché tutto deve avvenire in forma programmata e lineare.

La storia, come la vita, mai è lineare, ma è sempre protesa
verso il futuro, con andamento in parte lineare, in parte storto, in parte
aggrovigliato e a volte anche senza senso. È l’esperienza che ognuno di noi fa
ogni giorno e non si capisce perché questo criterio debba valere per ciascuno
di noi e non può valere per la storia degli eventi, considerata in sé.

L’uomo religioso creò Dio sua immagine e somiglianza

Con il cambiamento dell’acqua in vino, Gesù opera una
rottura: c’è un prima e c’è un poi, esattamente come prima c’era l’acqua e dopo
c’è il vino: non si può fare finta che gli eventi debbano adattarsi a noi;
semmai siamo noi che dobbiamo entrare nel cuore degli avvenimenti per scoprire,
lì, il comandamento di Dio. Quando vogliamo interpretare i «kairòi – le
occasioni» di Dio con i nostri criteri, non dovremmo mai dimenticare il monito
di Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono
le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le
mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri»
(Is 55,8-9).

Spesso, anche noi, come l’architriclino del racconto,
vogliamo insegnare a Dio il suo mestiere e pretendiamo che agisca secondo i
nostri canoni e le nostre mentalità. La Bibbia, la Parola ci è data non per
fae una lettura spirituale, ma per imparare a conoscere la «mens» di Dio e
inserirci in essa per sposarla, condividerla e praticarla.

A volte si ha l’impressione che i credenti, e anche gli
addetti specifici alla vita religiosa, dicano di credere in «un Dio a loro
immagine e somiglianza» e non nel Dio di Gesù Cristo, il quale è venuto a
rivoluzionare ogni sistema religioso che pretende di incatenare Dio in schemi
precostituiti. Ci fermiamo, come l’architriclino, solo a un «assaggio» e non
siamo in grado di andare oltre, perché abbiamo paura di oltrepassare il confine
che ci siamo imposto. Invece di alzarsi in piedi, abbandonando la comodità
oziosa del banchetto, e chiedere ai presenti che cosa fosse quella novità,
perché sconvolgeva la «tradizione» usuale, si limita a chiamare lo sposo per
dargli un buffetto sulla guancia. Non si accorge che lo Sposo è un altro e non
si rende conto che ben altre nozze si stanno celebrando, né prende coscienza
che un tempo è finito e tutti, lui e noi, siamo entrati in un’altra dimensione.

L’autorità che avrebbe dovuto guidare il popolo in attesa
alla scoperta dei «segni dei tempi» per cogliere la Shekinàh – Dimora/Presenza
del Signore, resta seduto al suo tavolo ad assaggiare il vino, comunque arrivi,
facendo perdere anche ai presenti «la novità» della presenza eccezionale e
decisiva del Signore: «Stolti e ciechi! Voi … trasgredite il comandamento di
Dio in nome della vostra tradizione?» (Mt 23,17; 15,3).

Cana, il simbolo della nuova alleanza

Solo a questo punto, in Gv 2,10, dopo ben 10 versetti,
riusciamo a capire, come per uno squarcio, che ci troviamo di fronte a un
evento straordinario, inaspettato: lo sposo non è il pover’uomo rimproverato
dall’autorità per avere fatto male i conti, ma è un Altro, è colui che è
annunciato nella notte alle vergini sia stolte che prudenti, cioè a tutta la
comunità: «A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”»
(Mt 25,6). Egli ha in mano la chiave del Sinai, la cantina in cui è custodito
il vino del Messia e finalmente lo distribuisce all’umanità invitata a
partecipare alle nozze dell’alleanza.

Solo ora scopriamo che «Cana» è un simbolo, un richiamo
appena velato che ci rimanda a una realtà ben più significativa e corposa:
l’irruzione di Dio nella storia che ora si compie nella persona del Signore
Gesù. Per questo la «madre», in rappresentanza di Israele, può chiedere al
Figlio di dare finalmente questo vino, perché i figli da lungo tempo ne sono
privi; il suo «vino-non-hanno-più» non è la mesta constatazione di un disagio
momentaneo a un matrimonio di amici, ma l’anelito di tutte le attese e speranze
d’Israele, degnamente rappresentato dalla «madre» che funge anche da sposa,
anzi da vedova, che apre le porte di Sion ai figli lontani, invitandoli a
ritornare da ogni esilio, dolore, smarrimento e sedersi alla mensa delle nozze,
perché «è il Signore!» (Gv 21,7).

Finalmente scopriamo il ruolo dei personaggi: la «madre» è
la sposa d’Israele in attesa del suo Signore e il Figlio svolge il ruolo dello
Sposo atteso, del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, quello rivelatosi sul
monte Sinai al profeta Mosè che, nella funzione di «amico dello Sposo»,
consegnò in nome di Dio a Israele radunato intorno al monte le tavole nuziali
del patto d’amore.

Di fronte alla scoperta del vino «bello», superiore a quello
già esistente, tutto cambia e tutto acquista un senso nuovo. Possiamo con
certezza dire che tutto il racconto è un simbolo per metterci in guardia, per
dirci di fare attenzione al vero Sposo che è presente e che rischiamo di non
riconoscere se ci fermiamo alle apparenze del gusto e dell’ovvio. Ora ci appare
anche chiaro perché, immediatamente dopo il racconto del «segno di Cana»,
Giovanni il Battezzante presenta Gesù come lo Sposo (cf Gv 3,25-30), riservando
per sé la funzione tipica dell’uso giudaico di «amico dello sposo». In questo
modo vediamo Giovanni Battista come l’antitesi perfetta dell’architriclino:
questi non si accorge nemmeno dello Sposo che inaugura gli «ultimi tempi» del
compimento nel segno del vino «bello»; il Battista invece ha coscienza di
esistere solo per indicare agli altri, al mondo, chi è lo Sposo atteso,
accettando per sé la funzione di paraninfo, cioè di amico, impegnato a
preparare le nozze senza fine (cf Gv 3,39).

La sposa è chiunque crede che Gesù è il Signore

A questo punto è necessario uscire dal simbolismo per
entrare nel cuore dell’annuncio. Gesù è stato «chiamato» alle nozze, come Mosè
è stato «chiamato» in cima al monte Sinai. Gesù si presenta «per» le nozze con
i suoi discepoli. Alcuni di questi gli erano stati mandati da Giovanni il
Battista, quando nel capitolo precedente aveva indicato «l’Agnello di Dio» e
due erano voluti andare a «vedere» dove Gesù abitasse, fermandosi fino alle ore
16 (cf Gv 1,35-39), cioè l’ora in cui nel tempio di Gerusalemme, il sommo
sacerdote (archierèus) uccideva l’Agnello, versando il suo sangue come sangue
dell’alleanza tra Dio e Israele.

Se Gesù è lo Sposo e Giovanni il Battista «conduce» i
discepoli a lui, con cui poi si fermano insieme alla «madre» alle nozze, fuori
metafora, ecco la realtà: Gesù è lo Sposo e i discepoli con la madre sono la
sposa, cioè il popolo d’Israele nella nuova versione della comunità ecclesiale.
In altre parole, la madre e i discepoli sono il modello di coloro che credono,
il «segno» visibile della nuova Chiesa che riprende in mano e nella vita
l’alleanza del Sinai, affinché guidata dal nuovo Mosè, Gesù, possa
intraprendere il nuovo pellegrinaggio verso il regno.

Chiunque crede diventa la sposa. Ecco perché nel racconto
non può essere presente una sposa qualsiasi: perché sono sufficienti la madre,
gli apostoli e tutti coloro che sul loro esempio crederanno nel Figlio che apre
i tempi nuovi e i cieli nuovi dell’alleanza nuova. Questa idea si trova anche
nell’Apocalisse, che appartiene alla letteratura giovannea, ed è descritta come
sposalizio tra l’Agnello/Sposo e Gerusalemme/sposa: «Sono giunte le nozze
dell’agnello; la sua sposa è pronta… vidi la città santa, la nuova
Gerusalemme, scendere, da Dio, pronta come una sposa adoa per il suo sposo»
(Ap 19,7 e 21,2).

Dio, senza passato né tradizioni

Da un punto di vista strettamente esegetico, possiamo
rilevare che l’espressione di Gv 2,10 da noi tradotta con «chiunque», e da
altri con «tutti», alla lettera sarebbe «ogni uomo» (pâs ànthrōpos). Noi preferiamo il senso
indeterminato per due motivi: indica una consuetudine di tradizione, quindi
anonima e può coinvolgere ciascuno, cioè «chiunque»; in secondo luogo, si
determina in modo più forte il contrasto tra l’indeterminatezza della tradizione
di «chiunque» e la personalizzazione estrema del «tu» con cui l’architriclino
si rivolge allo sposino: «tu, [invece]». Ci troviamo quindi di fronte a uno
schema letterario di forte contrasto teologico: «chiunque – tu». Chiunque è il
passato, la tradizione, la consuetudine, l’usanza; potremmo dire l’abominevole
«si è sempre fatto così», che tarpa le ali a qualsiasi afflato di novità in
nome della pigrizia e grettezza. Tu, invece, è un appello alla coscienza
individuale che s’immerge nella storia, ne coglie il senso appena velato e lo
svela in tutto il suo spessore, senza paura del nuovo e dell’imponderabile che
nasconde nel suo grembo il seme di Dio.

Sì, possiamo dirlo: Dio non ha tradizioni da difendere,
perché egli è sempre nuovo e parla ogni giorno la lingua del momento,
altrimenti parlerebbe inutilmente. Dio non ha passato, perché egli è «il Fine»,
quello che Teihallard de Chardin chiamava «il Cristo, il punto omèga», colui
che attrae a sé tutto e tutti dalla prospettiva della fine e del compimento.

Conservare per scoprire sempre più

Il verbo usato dall’architriclino «tetêrēkas» (in greco, perfetto
indicativo alla seconda persona singolare) è preceduto dal pronome rafforzativo
«sy – tu» che in greco potrebbe essere omesso. Se però c’è, come qui, acquista
forza e valenza più forti e profonde; come abbiamo visto, quel «tu» è
essenziale e necessario perché si contrappone al «chiunque» dell’inizio del
versetto. Non si tratta più di interpellare lo sposino improvvido, ma il
lettore, cioè «tu» che leggi, che accetti l’invito di partecipare alle nozze,
di condividere la fede della madre e dei discepoli e quindi di volere fare
parte della nuova comunità, che è la Chiesa.

Essa, sulla scia di Israele, popolo di Dio, nasce sulle
falde del monte Sinai, ma giunge ai piedi del monte Calvario, il monte della
rivelazione, la rivelazione dell’«ora», l’ora della discesa non più della
Toràh, ma dello Spirito di Dio che porta a pienezza la Toràh e la forza di
adempierla: «Reclinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).

Il verbo «terèō
– custodisco/conservo» al perfetto indica un’azione passata, i cui effetti
continuano nel presente. La forma italiana «hai custodito», al passato
prossimo, che è troppo povera, anche perché il perfetto greco ripete una parte
del tema («te-te»), che in qualche modo deve essere percepito anche nel suono
oltre che nel concetto. Ci pare che, in questo passo, la forma più corretta
possa essere: «Tu hai continuato a conservare/custodire». All’inizio di questa
puntata, riportando il versetto nel titolo, abbiamo tradotto con «tu (invece)
hai voluto conservare», dove si mette in evidenza la volontà che persegue
l’atto della conservazione, come se fosse un progetto in fase di esecuzione e
quindi continuativo.

Ci troviamo di fronte a un comportamento simile a quello del
servo che ha ricevuto «un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi
nascose il denaro» (Mt 25,8) in attesa che gli eventi maturassero. Qui è
evidente che l’autore vuole farci capire che è finito il tempo dell’attesa,
individuato in quel «fino ad ora», segno di uno spartiacque e di un cambiamento
di scena e di tempo. «Ora» comincia un tempo «altro»: quello che troverà
compimento sulla croce, la vera Cana dove si celebra lo sposalizio tra Dio e
l’umanità e dove viene distribuito a piene mani il vino della vita di Cristo;
il sangue del suo costato è dato fino all’ultima goccia: «Subito ne uscì sangue
e acqua» (Gv 19,34). Acqua e sangue, esattamente come a Cana, che vide l’acqua
trasformata in vino.

L’accenno alla nuova economia sacramentale ci pare evidente
perché la prospettiva è quella della vita donata senza riserva con uno scopo
puntuale, perché tutti quelli che vogliono «abbiano la vita e l’abbiano in
abbondanza» (Gv 10,10).

(36 – continua)

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Paolo Farinella




Al cospetto di Al Shabaab

Somalia: 21 anni di guerra

In un contesto di anarchia e assenza di istituzioni le Corti islamiche cercano di gestire la giustizia. I«Signori della guerra» le contrastano. Gli Usa promuovono l’invasione della Somalia da parte dell’Etiopia. Il movimento Al Sahabaab reagisce. Ideologicamente vicino ad Al Qaeda, ne dichiara l’affiliazione. Ma oggi perde terreno…

I media li chiamano i «talebani del Coo d’Africa». E, in effetti, con i miliziani afghani hanno molto in comune: la fede incrollabile in un islam radicale, la forza militare, i legami con il network di Al Qaeda, un certo sostegno della popolazione. Come i loro cugini afghani sembrano nati dal nulla e, per lungo tempo, sono parsi invincibili. Le milizie Al Shabaab, oggi messe alla corda da un’avanzata delle truppe governative supportate dagli eserciti di Kenya ed Etiopia e dal contingente dell’Unione africana, sono indubbiamente stati i protagonisti della scena somala negli ultimi sette-otto anni. Ma chi sono, quale modello di islam professano? E chi li sostiene?
LE ORIGINI
Non esiste una data di nascita ufficiale del movimento Al Shabaab. Molti analisti concordano però sul fatto che il primo nucleo sorge, intorno al 2004, all’ombra delle «Corti islamiche». Le Corti islamiche sono un fenomeno piuttosto complesso. Nascono nella seconda metà degli anni Novanta rette da autorità religiose e sostenute economicamente da uomini d’affari. L’obiettivo che si pongono è di amministrare la giustizia dando sicurezza al popolo e all’economia di Mogadiscio, in un contesto come quello somalo caratterizzato dall’anarchia e dalla totale assenza di istituzioni politiche e giudiziarie. Le Corti islamiche nascono però a macchia di leopardo sul territorio e solo nel 2005 si trasformano in un movimento unitario con una struttura simile a quella di un movimento politico. Quelli sono mesi molto difficili per la Somalia. Nelle regioni centro meridionali una coalizione di «Signori della guerra» (i capi delle milizie claniche somale), finanziati dagli Stati Uniti, dopo 16 anni di guerra tra loro, iniziano a combattere l’integralismo religioso islamico. Uccidono autorità religiose e persone legate all’islam, ma ne approfittano anche per regolare i conti tra di loro. Ne scaturisce una guerra senza quartiere e devastante, soprattutto per la popolazione civile. Per riportare l’ordine, le Corti islamiche organizzano proprie milizie e attaccano i Signori della guerra, sconfiggendoli.
A livello internazionale (e in particolare negli Stati Uniti) le Corti islamiche vengono però viste come l’avanguardia di Al Qaeda. Gli Stati Uniti, memori degli insuccessi del 1992, non osano intervenire militarmente ma, allo stesso tempo, non possono tollerare la creazione di possibili basi logistiche per il terrorismo islamico nel Coo d’Africa. Decidono così di finanziare l’intervento dell’Etiopia, fedele alleato di Washington e preoccupata anch’essa dell’instabilità somala.
Nel 2006 scatta l’offensiva etiope in Somalia. L’avanzata delle truppe di Addis Abeba travolge le Corti islamiche. Le milizie si disgregano e i leader fuggono all’estero. Chi rimane sul campo è il movimento Al Shabaab. Sono un piccolo gruppo (all’origine non più di 300 uomini) che rappresenta l’ala più militante delle Corti. I giovani combattenti non solo fanno dell’essere rimasti sul campo a combattere gli etiopi un grande argomento di mobilitazione popolare, ma riescono, in qualche modo, a prendere le fila della resistenza.
Il background di questi ragazzi non è religioso. Certo, frequentano le moschee, ma la loro formazione è più che altro militare (e come potrebbe essere altrimenti in un paese che da anni conosce solo la guerra e l’anarchia?). Sono ben addestrati, ben armati e molto determinati. Sarà l’atteggiamento della comunità internazionale, che ha sempre privilegiato lo scontro al dialogo, l’intransigenza al confronto, a far maturare in loro l’integralismo religioso. Con il tempo infatti abbracciano in modo sempre più convinto l’islam salafita. Quell’islam caratterizzato da una rigidità dottrinale e che propugna la «guerra santa», jihad, contro gli infedeli (non solo i cristiani, ma anche i musulmani sufi che sostengono una versione più dialogante dell’islam).
Nel gennaio 2009, con il ritiro delle truppe etiopi, si crea però un vuoto perché le forze armate di Addis Abeba non vengono sostituite con quelle del governo di transizione. I miliziani di Al Shabaab tornano così all’attacco e occupano le principali città del Centro Sud. Nei territori controllati creano vere e proprie amministrazioni locali e impongono la legge islamica, la sharia.
Nuovi attori
Nell’autunno 2011 scatta però una nuova offensiva anti shabaab. Le truppe del contingente Amisom (la missione dell’Unione africana in Somalia) e delle forze armate keniane ed etiopi attaccano le roccaforti del movimento e ne mettono in fuga i miliziani. Affrontare un’offensiva da più fronti non è semplice per un’organizzazione, tutto sommato ristretta, come quello degli Al Shabaab. Non solo, ma nel frattempo gli integralisti hanno perso gran parte del consenso popolare e a Mogadiscio le istituzioni si rafforzano (tanto che il 10 settembre Hassan Sheikh Mohamoud viene eletto presidente somalo, il primo dopo 21 anni di anarchia). «La loro popolarità – spiega Mario Raffaelli, presidente di Amref ed ex inviato speciale per il Coo d’Africa dei governi italiani – è iniziata a scemare lo scorso anno quando, durante la grande siccità che ha colpito il paese, i leader del movimento hanno impedito l’arrivo di aiuti alla popolazione da parte delle Nazioni Unite e delle Ong inteazionali. Detto questo va però aggiunto che i miliziani di Al Shabaab sono una galassia composita che ha ancora una forza militare di tutto rispetto e, molto probabilmente, continueranno a combattere, anche se con strategie diverse. Invece che su scontri in campo aperto, si concentreranno sugli attentati con le bombe o sugli assassinii mirati. Già oggi Mogadiscio di giorno è tranquilla, ma di notte è infrequentabile».
Movimento «glocal»
«Secondo gli esperti occidentali – osserva Matteo Guglielmo, analista di Limes -, il movimento avrebbe due anime: quella più legata alla rete di Al Qaeda, che ha quindi interessi più inteazionali o transnazionali (mujhiruun, gli esiliati), e quella più legata al territorio (al Ansar). Questa divisione, secondo alcuni, sarebbe una sorta di spaccatura insanabile. In realtà, credo che pur esistendo due anime, dobbiamo riferirci a esse non come a due componenti in lotta, ma come a due correnti che convivono all’interno dello stesso movimento con una loro dialettica. Dire che ci sarà una spaccatura all’interno di Al Shabaab, mi sembra esagerato». I rapporti con Al Qaeda comunque ci sono e sono ben radicati. Al Shabaab non fa mistero di rifarsi ideologicamente proprio al movimento di Osama bin Laden. Alcuni personaggi del gruppo somalo, come Fasul che è stato ucciso di recente, hanno avuto contatti frequenti e intensi con la rete del fondamentalismo islamico. Ciò non significa che i somali prendano ordini dal network fondamentalista o da esso in qualche modo dipendano. Semmai è Al Qaeda che, per condurre la sua battaglia, ha bisogno di stringere rapporti stretti con gruppi come quello degli Al Shabaab che sono più legati al territorio. «Al Shabaab – spiega Lorenzo Vidino, esperto di islamismo del Politecnico di Zurigo – opera sul territorio in modo non diverso da movimenti quali Boko Haram in Nigeria, Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico) e Ansar Dine in Mali (vedi altri articoli del dossier, ndr). Questi gruppi sono simili dal punto di vista ideologico: tutti condividono una visione jihadista dell’islam. Ognuno di essi ha però una propria storia, basata su circostanze locali e una propria leadership. Al Shabaab, per esempio, combatte in Somalia contro etiopi (per il momento le truppe di Addis Abeba hanno confermato la loro presenza anche dopo la morte, avvenuta il 20 agosto, del premier Meles Zenawi), Amisom ed esercito governativo, ma collega questa lotta a quella globale per l’affermazione dell’islam. Lotta nella quale Al Qaeda rappresenta, a loro dire, l’unico difensore globale dei musulmani contro l’attacco dell’Occidente e degli infedeli. È questo il legame profondo che li unisce alla rete di bin Laden».
Non solo islam
L’ideale islamico non è però l’unico collante che tiene insieme Al Qaeda e Al Shabaab. Dominando alcune zone della Somalia, Al Shabaab ne controlla anche le risorse. L’affiliazione quindi è utile ad Al Qaeda anche per ottenere mezzi economici per le iniziative a livello internazionale.
Ma da dove provengono queste risorse? Una parte consistente delle entrate dei miliziani arriva dallo sfruttamento del porto di Chisimaio. Un hub importantissimo che viene utilizzato soprattutto per l’esportazione del carbone. Quel carbone che è uno dei più grandi business della Somalia ed è prodotto disboscando le regioni meridionali, con un fortissimo impatto ambientale. «Molti fondi – sottolinea Matteo Guglielmo – arrivano anche dalla diaspora somala.
La diaspora li finanzia non tanto perché intende sostenere un movimento fondamentalista islamico, ma piuttosto perché le rimesse passano attraverso società che sono sostenute dai clan. Se il clan appoggia Al Shabaab, allora parte dei soldi delle rimesse andrà a finire al movimento islamico. La Somalia è il paese che al mondo riceve più rimesse, ciò significa che ad Al Shabaab arrivano risorse continue e consistenti per finanziare le proprie attività».
Il rapporto di Al Shabaab con i clan è però controverso. Ufficialmente negano e condannano la struttura clanica tipica della Somalia e sostengono di essere un movimento sovraclanico. «Tuttavia – continua Guglielmo – sono molto bravi a manipolare i clan cioè a servirsene per gestire il potere. Da sempre Al Shabaab arma e rinforza i clan più deboli. Così si radica sul territorio e, allo stesso tempo, tiene sotto controllo i clan maggiori che possono rappresentare un rischio. Quindi se ufficialmente nega i clan, da un punto di vista pragmatico li utilizza.
È anche questa la forza di Al Shabaab. Ed è anche per questo motivo che non può essere considerato un movimento “importato”, ma un’organizzazione profondamente somala».
A livello internazionale è invece difficile risalire ai finanziatori del movimento. Nessun Paese ufficialmente sostiene Al Shabaab. I paesi del Golfo però sono da sempre vicini ai movimenti che si ispirano all’islam di matrice wahabita e salafita. Quello stesso islam professato da Al Shabaab. È quindi probabile che finanziamenti arrivino dalla Penisola araba. Non tanto però dai governi, quanto dalle fondazioni del Golfo che, dagli anni Novanta, operano in Somalia nei settori sanitario, educativo, religioso.
Finanziamenti che continueranno ad affluire anche in futuro. Garantendo ad Al Shabaab quei flussi economici indispensabili a continuare la sua battaglia.

Enrico Casale

Enrico Casale




Occidente proibito

Nigeria: tra le braccia di Boko Haram

Nascono come reazione alla miseria e all’oppressione. Combattono la corruzione nell’islam. Subiscono violente repressioni. Diventano un feroce gruppo jihadista che compie attentati suicidi contro i cristiani. È la storia di Boko Haram, legata al Nord povero della Nigeria, collegata con l’integralismo internazionale.

La Nigeria, paese più popoloso dell’Africa con 160 milioni di abitanti (sarà terzo al mondo nel 2050), primo produttore africano di petrolio. Da circa un anno fa di nuovo notizia a causa dei numerosi attentati suicidi contro cristiani e chiese. Tutti gli attacchi hanno la stessa matrice e sono rivendicati dal gruppo Boko Haram. «Boko» ovvero l’insegnamento occidentale, «Haram», proibito, in lingua haussa. Definito setta, movimento islamico o gruppo terrorista, Boko Haram ha origini e cause ben precise. Non è il primo movimento islamico nella storia della Nigeria, né il primo che utilizza la violenza. La sua peculiarità, però è quella degli attentati suicidi.
Il Nord del paese è popolato in prevalenza da haussa e fulani, in maggioranza musulmani. Il Sud da ibo e yoruba, in prevalenza cristiani. Ma è il Sud che detiene le maggiori ricchezze, e gli enormi giacimenti di petrolio.
Boko Haram nasce intorno al 2002 a Maiduguri, capitale dello stato del Boo, nel Nord-Est della Nigeria. Stato tra i più poveri, dove il livello di scolarizzazione è il più basso di tutta la federazione (21% nel 2010). Confina con Niger, Ciad e Camerun.
«I discepoli del Profeta per la propagazione dell’islam e la guerra santa», come preferiscono farsi chiamare, sono un movimento religioso che ha come guida spirituale Mohammed Yusuf. Molti proseliti sono analfabeti, e mendicanti (talibé) delle scuole coraniche.
«Inizialmente gli obiettivi della setta sono essenzialmente due – racconta il ricercatore francese Marc-Antornine Pérouse de Montclos -. Il primo è fare in modo che l’applicazione della sharia sia estesa al livello penale. Questo sarebbe possibile con una Repubblica islamica. Il secondo obiettivo è di giustizia sociale: lottare contro la corruzione imperante tra i governanti dello stato del Boo». Si ricorda che la legge islamica è oggi applicata in 12 stati del Nord, ma solo a livello di codice civile.
Nei target dei Boko Haram non c’erano affatto i cristiani, ma lo stesso sistema musulmano da riformare e rendere più rigoroso e integro. «I testi dottrinali di Yusuf non fanno in alcun caso cenno allo sterminio dei cristiani» continua lo studioso. La jihad (guerra santa) vi compare, ma nella sua accezione spirituale.
Le origini e la repressione
Disagio sociale, emarginazione, élite politiche corrotte e occidentalizzate sono dunque all’origine della setta. Nel 2003 iniziano i primi scontri con le forze di sicurezza del Boo, esercito e polizia. In questa fase Boko Haram è un movimento di insurrezione armata. Sono ben conosciuti e Yusuf è più volte arrestato e rilasciato. Non vengono attaccate strutture cristiane.
«Il punto di non ritorno si ha nel 2009 – continua Pérouse de Montclos -. Il governo del Boo e quello federale organizzano una feroce repressione nei confronti della setta. Yusuf viene catturato e giustiziato senza processo. I quadri di Boko Haram fuggono all’estero: Niger, Ciad, Camerun. Solo ora il movimento diventa clandestino».
Alcuni dirigenti in esilio entrano così in contatto con il movimento della jihad internazionale, con Al Qaeda. Assorbono parte dell’«Al Qaeda pensiero». La guerra santa assume connotazioni simili a quelle wahabite: bisogna cacciare i cristiani dalla terra dell’islam. Nel 2010 iniziano infatti gli attacchi alle chiese cristiane a Jos, città nel centro del paese, e altrove. I militanti si riorganizzano, ma gli obiettivi sono cambiati. Si stima che da allora siano 1.400 i morti nel Nord e Centro del paese causati da Boko Haram.
Anche il metodo di lotta cambia: dalla guerriglia con poche armi si passa al terrorismo degli attentati suicidi, che ormai contraddistinguono la setta.
Il salto di qualità è segnato dall’attentato alla sede Onu di Abuja, la capitale federale, il 26 agosto del 2011, in cui muoiono 25 persone. Gli obiettivi diventano anche inteazionali. Nel contesto in cui nasce questo movimento le pratiche dell’islam sono molto sincretiche con culti africani, ad esempio certi militanti portano amuleti, fatto insolito per l’islam. Inoltre c’è il culto dei santi delle confrateite Sufi. Tutte pratiche estranee ai wahabiti di Al Qaeda.
«Boko Haram e Al Qaeda hanno dunque un’impostazione di fondo diversa. Sono due gruppi salafisti, entrambi rivendicano lo stesso pensiero fondamentalista, l’applicazione integralista dell’islam, ma con sono molte differenze. Per questo non penso che Boko Haram proclamerà un’affiliazione ad Al Qaeda, come hanno fatto gli algerini del Gspc o i tribunali islamici somali (vedi articoli di questo dossier, ndr). La genesi della setta è molto diversa, le ideologie e le pratiche pure» conclude l’esperto.
Sono probabili convergenze tattiche tra i vari movimenti in Africa dell’Ovest. Boko Haram con Aqmi o Ansar Dine in Mali, allo scopo di procurarsi armi, formare artificieri e terroristi.
C’è anche il caso di Mamman Nur, nigeriano, che fa parte di una fazione estrema di Boko Haram. È accusato di aver organizzato l’attentato contro l’Onu. Lui ha dichiarato di essere stato formato dagli shabaab in Somalia, ma di averlo fatto a titolo personale.
I contatti tra Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico) e Boko Haram quindi ci sono, ma non è dimostrata una strategia comune.
«Boko Haram ha scambi commerciali con Aqmi – rivela un’altra fonte nel vicino Niger, che chiede l’anonimato -. Aqmi manda soldi tramite corrieri che viaggiano con autobus di linea e portano anche 25-30.000 euro per volta. Boko Haram ha pure mandato della gente in formazione. Perché loro per adesso sono abbastanza disorganizzati come struttura». Boko Haram non ha mai fatto attentati in Niger, paese con il quale la Nigeria condivide una frontiera di oltre 1.500 chilometri. «Quando fanno un attacco in Nigeria poi scappano in Niger per nascondersi» continua la fonte.
«Da quanto ne so non esiste nessuna base solida, di addestramento, di Boko Haram nei paesi vicini. Ci sono piccoli gruppi che circolano. Questo è successo fin dai primi anni, grazie alla porosità delle frontiere. Ma i paesi confinanti non hanno interesse ad appoggiare un gruppo islamista. Così Boko Haram deve tenere un profilo basso per non perdere i nascondigli», rincalza Pérouse de Montclos.
Base sociale e fondi
La base sociale di Boko Haram è inizialmente più ristretta di quella attuale, nello stato del Boo. Poi si allarga a causa delle violente repressioni contro la popolazione delle forze di sicurezza. «C’è una sorta di omertà tra la gente, perché la setta è vista come un tentativo di resistenza ai soprusi del governo corrotto» racconta Pérouse de Montclos. Fino al 2009 si finanziano con donazioni di fedeli, in particolare grossi commercianti. Ricevono anche soldi anche dal governo: al momento delle elezioni del 2003 il governo «acquista» voti di Boko Haram. Poi fa business, come acquisto e vendita di auto usate. In questo periodo non ci sono finanziamenti estei.
Dal 2009 tutto cambia. I finanziamenti governativi pre-elettorali non esistono più. Le donazioni dei fedeli, pur continuando, sono limitate. Il filone storico inizia a finanziarsi con attacchi alle banche. Si auto giustificano col fatto che l’usura è «haram» (proibita), ma in realtà è per far cassa.
È una prova che il movimento non è finanziato da Aqmi. Ma attenzione: ci sono dei dissidenti in seno alla setta, che fondano la loro corrente, come nel caso di Mamman Nur. Questi sono finanziati dall’estero, anche da Al Qaeda con i soldi dei riscatti.
Una strategia islamica?
L’Africa dell’Ovest, area storicamente «tranquilla» rispetto ad altre regioni geopolitiche del continente, si vede oggi stretta tra gruppi islamisti provenienti dal Nord (che oggi controllano il Nord del Mali e circolano in tutta la fascia saheliana) e la setta Boko Haram dal Sud. Marc-Antornine Pérouse de Montclos non vede però possibile un’alleanza strategica in nome della jihad: «Non abbiamo prove di strategia di estensione del movimento al di fuori della Nigeria. Ci sono nigeriani pronti a vendersi e a combattere sui diversi fronti, ma che siano militanti di Boko Haram o che ci sia dietro una strategia globale, dovrebbe essere dimostrato. Non ci sono prove».
Secondo il ricercatore ci sono tre scenari per il futuro. Una parte di Boko Haram diventa un gruppo terrorista professionale. Questo si vedrebbe se facessero un salto di qualità, come un attacco nel Sud cristiano della Nigeria.
Un’altra alternativa è che la setta si trasformi in un vero movimento di guerriglia, con basi nei paesi confinanti, che però, ricordiamo, non hanno interessi a finanziarli. È uno scenario assai difficile.
Oppure, cosa che Pérouse de Montclos ritiene più probabile, il movimento si spegne da solo. Questo può succedere con gli anni, sia perché i militanti si disperdono, sia perché si mette in atto un’azione del governo per un processo di assimilazione (membri di Boko Haram accedono a cariche di potere), come è stato fatto con i gruppi guerriglieri del delta del Niger. Il governo ha dichiarato a fine agosto di essere in trattativa in modo «indiretto» con gli islamisti. «Spinto dai cristiani integralisti e dall’opposizione, il presidente Goodluck Jonhatan, anche lui cristiano che non conosce affatto il Nord, ha difficoltà a mandare avanti i negoziati. Sarà un processo lento. Ma tutto potrebbe cambiare dopo le prossime elezioni, nel 2015».

Marco Bello

Marco Bello




C’erano una volta due Mali

Mali: Al Qaeda, i Tuareg e gli altri

Un paese conficcato nel Sahara, dove il territorio è incontrollabile. I tuareg del deserto si ribellano (per la quarta volta in 50 anni) e dichiarano l’indipendenza. Intanto un colpo di stato sconvolge il Sud (dopo 2 decenni di regime democratico). E nel Nord i gruppi integralisti islamici prendono il controllo, a scapito dei tuareg. La confusione regna nei due Mali.

È l’alba del 17 gennaio 2012. Il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) lancia il suo primo attacco nel Nord del Mali. È l’inizio della ribellione armata che toglierà il controllo di una vasta regione (822.000 km quadrati di deserto) al governo centrale di Bamako. Controllo che già molto tempo prima era debole e circoscritto alle tre città capoluogo: Gao, Kidal e Timbuctu (Tombouctou). L’Mnla dichiara l’indipendenza dell’Azawad il 5 aprile. È questo il nome tuareg della regione, sulla quale però, ben presto perderà il potere. Ma la storia non inizia qui, e gli attori sono molteplici.
Un contesto intricato
La regione sahariana in Mali, come in Niger, è stata teatro di periodiche ribellioni tuareg (popolazioni nomadi che si estendono anche in Mauritania, Algeria, Libia, Ciad). In particolare nel 1963, 1990 e infine 2006. Ribellioni che hanno visto l’appoggio e poi la mediazione, delle potenze regionali, l’Algeria e la Libia di Gheddafi, e post coloniali, la Francia. I tuareg rivendicano da sempre il loro diverso modo di vita (rispetto agli stanziali del Sud), e un differente concetto di «nazione». La loro lotta è contro lo stato centrale (gestito da altre etnie) per una propria autodeterminazione, e con il potere sono scesi a patti (nei successivi trattati di pace), ottenendo concessioni sulla carta, spesso disattese. Molti tuareg, inoltre, hanno ingrossato per anni le file delle milizie speciali di Gheddafi, e poi combattuto al suo fianco fino alla disfatta finale, a opera delle forze Nato.
Il Nord del Mali è popolato anche da altre etnie, in particolare: peulh, songhai e arabi e vede da decenni la presenza di molti attori armati. Dall’Algeria degli anni Novanta, martoriata dalla guerra civile, gruppi di combattenti islamici integralisti del Gia (Gruppi islamici armati) si sono costituiti nel Gspc (Gruppo salafista per la predicazione e il combattimento) che ha iniziato a installarsi nell’estremo Nord del Mali nel 2003 (vedi MC dicembre 2010). In questa regione le frontiere tra gli stati non esistono, siamo in pieno deserto del Sahara. In particolare, l’importante gruppo salafita di Mockhtar Belmokhtar (potente emiro dei Gia), si basa nella regione di Timbuctu. Il Gspc inaugura in quello stesso anno la stagione dei rapimenti degli occidentali, a scopo di riscatto. Pratica che diventa ben presto un lucroso giro di affari. Esiste una stima (algerina) che calcola in 50 milioni di euro i proventi dei riscatti pagati da paesi occidentali dal 2003 alla fine del 2010.
È nel 2007 che il Gspc dichiara ufficialmente la sua affiliazione all’universo Al Qaeda, prendendo il nome di Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico). Allo stesso tempo Gspc prima (e Aqmi dopo) tesse relazioni sociali con popolazione e capi tradizionali e inizia a prendere parte nei fiorenti traffici transfrontalieri di cocaina, armi, e persone, già esistenti.
Gli algerini di Aqmi portano con sé anche l’ideologia di Al Qaeda: la visione radicale dell’islam wahabita e salafita, la jihad (guerra santa) per l’imposizione della sharia (legge islamica) a tutta la popolazione.
«Già alcuni anni fa – racconta un cornoperante di stanza in Mali – il governatore di Gao aveva richiamato alcuni imam, avendo constatato che nelle loro moschee le persone si fermavano a dormire. Si era verificato l’arrivo di predicatori dall’Afghanistan, i quali tenevano ai fedeli dei veri e propri corsi di islam radicale».
Negli stessi anni, le regioni del Nord sono il territorio di caccia di bande armate e milizie di ogni tipo che si alimentano dei traffici trans sahariani. Gruppi questi tollerati, e talvolta addirittura appoggiati dal governo centrale di Bamako, del presidente Amadou Toumani Touré (detto Att, presidente dal 2002 al 2012), allo scopo di esercitare un certo «controllo a distanza» su zone troppo lontane dalla capitale. Ma questa non è che una parte delle responsabilità del governo centrale sull’attuale situazione maliana.
La svolta
La crisi libica, iniziata nel febbraio 2011, e la sconfitta del Muammar Gheddafi, grande manovratore di vicende sahariane, diventa l’occasione da non perdere.
I combattenti tuareg in forza all’esercito privato del rais (e si parla di truppa ma anche di graduati e strateghi), ripiegano sui paesi di origine: Mali, Niger. Un’enorme quantità di armi, governative e della Nato, entrano nel mercato africano, e non solo (vedi riquadro).
Il movimento tuareg fa un salto di qualità. Al Movimento nazionale dell’Azawad (Mna) di tipo politico per rivendicare diritti e cultura, fondato da giovani intellettuali nel 2010, si aggiungono i «ritornati», combattenti esperti di lungo corso. Nei mesi successivi all’uccisione di Gheddafi, diversi gruppi tuareg (legati a clan famigliari) si incontrano a più riprese nella zona di Zakak, in pieno deserto. È qui che si organizza la ribellione armata. Il governo centrale ne è al corrente e si tentano mediazioni. L’Mnla è ufficialmente costituito nell’ottobre 2011, e importanti leader delle passate ribellioni ne fanno parte. Non si tratta di un’organizzazione verticale, ma di una sorta di piattaforma di diverse organizzazioni delle comunità tuareg delle tre regioni del Nord del Mali (Gao, Timbuctu, Kidal). L’Mnla è laico, non si caratterizza per la religione e il suo programma politico si riassume con la secessione dell’Azawad dal Sud corrotto e neo colonialista (su modello del Sud Sudan che si è separato dal Nord).
Il movimento stabilisce il suo ufficio politico a Nouakchott, capitale della Mauritania, uno dei principali alleati regionali della Francia. Alcuni leader, come Mossa Ag Attaher risiedono a Parigi e da lì gestiscono relazioni e due siti Inteet (in arabo e francese) del movimento. La Francia vede l’utilità dei tuareg per la lotta anti terrorista nel Nord del Mali. Da qui le accuse di collusione, soprattutto da parte di Bamako. Secondo l’Inteational Crisis Group (vedi pag. 49), tuttavia, questo interesse non si è mai tradotto in appoggio logistico, perché i transalpini non vedono di buon occhio la secessione del paese.
dai sotterranei di Al Qaeda
Negli stessi mesi anche Aqmi non sta ferma. Grazie alle ingenti quantità di denaro ottenuto con i rapimenti e il traffico di cocaina, fa incetta di armi libiche e arruola nei suoi ranghi giovani fuggiti dalla Libia.
Il leader tuareg Iyad Ag Ghali, figura importante nei trattati di pace del 1991 e del 2008, ha un suo percorso religioso particolare. Originario di Kidal, di uno dei clan più nobili, gli Ifoghas, si avvicina all’ideologia salafita. Negli anni (e nei trattati di pace) ha sempre favorito il suo clan e la sua regione, piuttosto che l’Azawad. Già miliziano nella Legione verde di Gheddafi degli anni ‘80, è anche stato vice console del Mali in Arabia Saudita sotto Att. Fa suo il progetto islamico fondamentalista della jihad internazionale, e si trova in contrasto con l’islam tollerante degli altri tuareg.
In parte estromesso dalle consultazioni di Zakak, si presta comunque come alleato tattico alla ribellione, adoperando la sua milizia, Ansar Dine (i partigiani della religione). Affianca e appoggia i gruppi dell’Mnla nella conquista di Gao e Timbuctu. Ed è proprio in questa regione che inizia a stringere alleanze con l’Aqmi di Belmokhtar. Vi trova affinità ideologica e presenza di risorse.
I progetti di società promossi da Mnla e da Ansar Dine sono dunque nettamente distinti: la secessione e uno stato laico gli uni, l’integrità territoriale e l’applicazione della sharia per tutti, gli altri.
In poche settimane i successi militari dell’Mnla, con Ansar Dine (e altri gruppi) sono rapidi e l’esercito di Bamako, viene cacciato dal Nord del paese. Le milizie pro governative (arabe e tuareg) sconfitte. Importante è la vittoria di Aguelhoc, seguita da esecuzioni extra giudiziali di decine di soldati maliani.
Crisi al Sud
A Bamako, a un mese dalle elezioni a cui Att non si sarebbe più candidato, il 22 marzo scorso il capitano Amadou Haya Sanogo, con un gruppo di militari di Kati (caserma alle porte di Bamako), porta a segno un colpo di stato che mette fine a vent’anni di percorso democratico del paese.
Il pretesto è proprio il lassismo con cui Att aveva gestito il Nord negli ultimi dieci anni. Ma i golpisti sembrano un po’ sprovveduti e la loro azione produce l’effetto di favorire l’avanzata dei ribelli fino alla citata proclamazione dell’indipendenza dell’Azawad.
Ansar Dine, forte dei successi militari e dell’alleanza con Aqmi (che porta ingenti fondi, quindi armi), si impone, anche con scontri armati, sugli altri tuareg, prendendo il controllo delle città ed estromettendo di fatto l’Mnla, troppo lontano dall’approccio jihadistico. Questo si ritira dapprima nelle periferie e infine nelle campagne. Oggi Ansar Dine controlla saldamente Timbuctu e Kidal con l’appoggio di Aqmi.
Gao è in mano al Movimento per l’unità della jihad in Africa dell’Ovest (Mujao). Gruppo dissidente di Aqmi, staccatosi per motivi di spartizioni di riscatti, che compare pubblicamente con il rapimento di Rossella Urru e due colleghe a Tindouf (Algeria), il 22 ottobre 2011. Testimonianze lo danno già costituito fin dal 2008. Pratica, oltre il sequestro, anche attentati suicidi e predilige obiettivi algerini. È il Mujao che rapisce sette diplomatici di Algeri del consolato di Gao, di cui uno è stato giustiziato a inizio settembre.
Nuova Somalia?
Le grandi città del Nord, e gran parte del suo territorio, sono quindi oggi in mano a gruppi fondamentalisti islamici. Questi impongono la loro interpretazione della sharia alla popolazione. Arrestano le donne senza il velo o in giro la sera, applicano l’amputazione ed esecuzioni per lapidazione senza processo, e la flagellazione di bevitori da alcol e fumatori. Si conta che 475.000 persone siano fuggite verso il Sud Mali e in paesi confinanti. In Niger e in Burkina Faso c’è infatti un’emergenza sfollati maliani, che si somma alla crisi alimentare acuta che ha toccato il Sahel negli ultimi mesi.
«Tutti gli uffici statali sono stati attaccati e saccheggiati, così come le sedi delle Ong – racconta un operatore di una Ong internazionale –. Le auto rubate dai miliziani. A Gao sono stati addirittura cacciati i malati dall’ospedale, per prendere loro i letti. Cose mai viste in Africa, dove le strutture mediche sono sempre state rispettate».
Un’altra fonte raggiunta lo scorso agosto racconta: «A Gao per le strade, si vede una forte presenza di uomini in armi di diverse nazionalità: maliani, algerini, egiziani, sudanesi, nigeriani, pachistani. In maggioranza sono con il Mujao, ma anche con altri gruppi terroristi come Aqmi e con i narcotrafficanti. Controllano tutto quello che si muove in città e nella regione. Ricordano alla gente che sono loro i nuovi padroni della zona e proprietari di tutti i beni dello stato maliano rimasti». Anche membri della setta nigeriana Boko Haram (vedi articolo pag. 44) sono stati visti a Gao. E continua: «Ci sono poi molti piccoli gruppi di banditi armati, che non obbediscono a nessuna parte in conflitto, ma che organizzano assalti sulle grandi strade di accesso». «La sicurezza personale rimane precaria. Anche se è tornata la calma dopo che i tuareg dell’Mnla sono stati cacciati dalle città dagli islamici armati. Questi assicurano il servizio di polizia locale e mettono progressivamente in atto la sharia. Le Ong hanno bisogno di un lascia passare per muoversi e può accadere che gli islamisti interferiscano con le loro attività, ad esempio vogliono indicare a chi distribuire il cibo». «Anche la preghiera del venerdì è cambiata – continua la fonte – adesso ha uno stile più asiatico».
A Gao si è passati da una popolazione di 120.000 persone a 25.000. Tutto il commercio è bloccato, i funzionari statali sono fuggiti a Bamako. Il sistema sanitario è collassato per la fuga degli operatori. Non c’è cibo perché non si è fatta la campagna agricola e c’è una mancanza quasi totale di liquidità di denaro. Nelle campagne e nei villaggi, la gente sta tornando al baratto.
Intanto a Bamako la situazione resta molto confusa. Dopo una negoziazione della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest) e del Burkina Faso con la giunta, lo scorso aprile Sanogo si è messo ufficialmente da parte e ha restituito i poteri a organi di transizione. Dioncounda Traoré, presidente dell’Assemblea Nazionale (il parlamento) è diventato presidente di transizione, mentre si sono già succeduti due governi del primo ministro Cheick Modibo Diarra.
«Chi comanda, dietro le quinte, è sempre Sanogo» racconta un analista. «Quando, a inizio settembre, il presidente Traoré ha chiesto l’intervento militare della Cedeao per riconquistare il Nord agli islamici, subito Sanogo, che è un militare, ha dichiarato di non voler soldati stranieri in Mali, ma solo un appoggio logistico». La Cedeao, si appresta a intervenire con una forza di 3.300 uomini (Micema, Missione Cedeao in Mali) è in attesa, nel momento in cui si scrive, della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che la autorizzi. La Francia, che appoggerebbe logisticamente, ha chiesto rapidità.

Marco Bello

Marco Bello




Armi low cost

La Libia del post Gheddafi si è trasformata in un supermercato delle armi. Un self-service al quale si rifoiscono milizie locali, ma anche numerosi gruppi di ribelli attivi in Nord Africa e nel Medio Oriente. L’implosione del regime ha reso infatti disponibile una quantità enorme di armi, da quelle leggere ai sistemi più complessi, e di munizioni che ora alimentano un traffico imponente nel continente africano. Per capire il perché questa enorme quantità di armamenti si sia resa disponibile con il tracollo del regime di Gheddafi è necessario fare un passo indietro.
Muammar Gheddafi era un ufficiale formato nelle scuole militari britanniche. Nonostante ciò, guardava con estremo interesse al modello di difesa jugoslavo. Dopo la seconda guerra mondiale e l’esperienza della lotta partigiana che nei Balcani aveva messo alle corde le forze armate tedesche, Belgrado aveva infatti creato un sistema di difesa unico. Tito, il dittatore jugoslavo, aveva voluto un esercito di ridotte dimensioni il cui compito era quello di far fronte al primo impatto di un’invasione straniera. La vera difesa era però affidata alle milizie popolari, le quali dovevano affrontare il nemico con il metodo della guerriglia. Queste milizie si sarebbero dovute rifornire di armi e munizioni in depositi sparsi sul territorio.
Gheddafi importa questo sistema in Libia. L’organizzazione delle forze armate viene ridotta all’osso (ciò risponde anche all’esigenza del rais di ridurre al minimo il rischio che l’esercito diventi un possibile catalizzatore del dissenso nei confronti del regime). Parallelamente, crea in tutto il paese magazzini e nascondigli stipati di armi leggere, munizioni, ma anche di sistemi d’arma più complessi quali i missili terra-aria. Non è un caso che Gheddafi nei primi giorni della rivolta, avesse ordinato alla sua aviazione di bombardare non tanto i ribelli, quanto i depositi di armi ai quali si rifoivano. Obiettivo solo in minima parte raggiunto, tanto è vero che il grosso dei magazzini si è salvata. Con la caduta del regime e l’implosione di ogni struttura civile e militare, le milizie che si sono spartite il territorio si sono impossessate anche delle armi che hanno trovato. In parte le hanno usate contro i lealisti (ma spesso anche contro le altre milizie) e in parte le hanno vendute per autofinanziarsi.
Secondo i rapporti di alcuni servizi di sicurezza occidentali che operano nel Nord Africa sono quattro i canali attraverso i quali vengono trafficate le armi.
Il primo è la Libia sudorientale. Questo è un canale tradizionalmente utilizzato dai contrabbandieri e dai trafficanti di uomini libici e sudanesi. È dal confine con il Sudan che arrivano i migranti e i carichi di droga (in particolare l’eroina) provenienti dall’Africa orientale. È verso il Sudan che sono diretti i carichi di armi. Queste si uniscono a quelle provenienti dall’Iran e, attraverso l’Egitto e il Sinai, arrivano ad Hamas a Gaza. Recentemente, alla frontiera tra Egitto e Sudan, è stato sequestrato dalla polizia egiziana un carico di missili antiaereo provenienti dalle caserme libiche e diretti ai movimenti palestinesi.
Il secondo canale è il Libano. Trafficanti libanesi acquistano armi dai miliziani libici per poi rivenderle a Hezbollah e ai ribelli siriani che combattono contro il regime di Bashar al-Assad.
Il terzo è la Libia sud occidentale. Molti tuareg maliani e nigerini che, per anni, avevano prestato servizio nelle forze armate libiche agli ordini di Gheddafi, al crollo del regime sono fuggiti, rientrando in patria. In Niger i tuareg sono stati disarmati. In Mali no. A gennaio è così scoppiata una rivolta contro Bamako. I soldati maliani, che fino ad allora erano sempre riusciti a controllare le sommosse anche in virtù della loro superiorità tecnico-militare, si sono trovati di fronte milizie tuareg dotate di armamenti più modei e sofisticati dei loro. L’esito dello scontro è stato segnato. I militari maliani sono stati sconfitti e le regioni del Nord (Azawad) hanno dichiarato l’indipendenza.
L’ultimo canale è il terrorismo islamico: Al-Qaeda e i movimenti ad essa collegati. I servizi segreti algerini, i meglio organizzati e i più agguerriti di tutto il Nord Africa, hanno sequestrato di recente diversi carichi destinati alle cellule di Aqmi (Al-Qaeda per il Maghreb islamico).
«Dopo il crollo del regime – spiega Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi difesa – la Nato non ha pensato a controllare i confini della Libia per bloccare questi traffici. Così le armi libiche si sono diffuse in tutto il Maghreb e il Medio Oriente».

Enrico Casale

Enrico Casale




La bomba libica

Libia: caos post Gheddafi

Il paese è diviso, non c’è stato di diritto. Nella confusione i gruppi estremisti si rafforzano. Inoltre la Libia è patria di diversi leader di Al Qaeda e da tempo sono attive cellule salafite, che ora tornano a colpire. Qualcuno teorizza una (improbabile) alleanza con gli ex gheddafiani per rovesciare il governo.

È molto difficile dire se l’assalto all’ambasciata statunitense del 12 settembre rappresenti il primo passo sull’orlo dell’abisso del paese. L’uccisione a Bengasi di quattro funzionari statunitensi, compreso l’ambasciatore Chris Stevens, è certamente un evento inaspettato nella drammaticità, nelle proporzioni che la minaccia terroristica comporta, e nelle conseguenze politiche.
Nel marzo 2011, un anno e mezzo fa, una piazza traboccante e festante di giovani bengasini accoglieva la troupe della Cnn e la osannava con cori a suo favore. Bengasi e i rivoltosi entravano nel corso della storia dopo 42 anni di oblio. Erano al centro della Primavera araba ed esultavano per l’attenzione che su di loro poneva il network americano.
L’allora inviato statunitense Chris Stevens si era prodigato per stabilire contatti e legami con i ribelli e poi aveva incoraggiato il proprio paese a supportarli. La sua azione diplomatica in Libia gli era valsa la nomina di ambasciatore a Tripoli all’inizio dell’anno: il 22 maggio era stato accreditato.
Polveriera
Pensare alla sua uccisione per mano di libici sembra oggi incomprensibile per una mente razionale. Eppure ciò si può spiegare solamente con un fatto: la Libia è un paese diviso e senza alcuno stato di diritto, un paese in cui gruppi di facinorosi, in circostanze ancora da chiarire, possono comportare una seria minaccia. La sicurezza è in mano a bande che vengono «tollerate» dall’autorità centrale, talvolta blandite, talvolta onorate nel tentativo (fallito) di integrarle all’interno di un esercito nazionale. Alcune di queste bande hanno chiari orientamenti estremisti. E nell’instabilità l’estremismo prolifera. Improbabile che questa azione costituisca una diretta vendetta dell’uccisione di Abu Yahya al-Libi, numero due di Al Qaeda.
Sul fronte dell’islam radicale c’è chi ricorda la lunga tradizione della jihad in Cirenaica. È importante però non invertire il nesso di causa-effetto: l’islamismo radicale in Libia è stato alimentato soprattutto dall’oppressione del regime. Per buona parte dei libici, l’unico modo di dissentire da Gheddafi era quello di aderire o appoggiare Al Qaeda. I libici sono stati per anni il secondo maggior gruppo, dopo i sauditi, a combattere sui fronti iracheno e afghano. Sono in particolare città come Dea, in Cirenaica, ad aver alimentato il fronte qaedista. Per esempio, Abu Yahya al-Libi, era appunto libico ed è stato ucciso da un attacco di droni americani a inizio giugno 2012. Abu Yahya al-Libi, nato nel 1963, era considerato dagli Stati Uniti l’uomo più importante dopo Ayman al-Zawahiri, che dalla morte di Osama bin Laden guida l’organizzazione terroristica. Al-Libi non è stato mai descritto come un grande combattente, ma piuttosto come un ottimo organizzatore e propagandista. Si dice che al-Libi abbia cominciato la sua carriera terroristica negli anni Novanta, quando vive in Afghanistan. Nel 2002 è stato arrestato dalle forze americane a Bagram, ma dopo soli 3 anni è riuscito a fuggire facendo perdere le sue tracce. Alcuni «allievi» di Abu Yahya al-Libi sono attivi in Libia anche oggi. Sufian bin Qumu, per esempio, che ha lavorato anche a contatto con Osama bin Laden, prima di essere catturato dagli americani e detenuto a Guantanamo per sei anni, guida una milizia nella zona di Dea che sfoggia la bandiera nera di Al Qaeda ed è stata accusata di violenze. Qumu ha apertamente dichiarato che non intende deporre le armi finché in Libia non sarà instaurato un governo di tipo islamico-talebano. Sempre a Dea e in Cirenaica sono attive formazioni salafite, come il gruppo Ansar al-Sharia, che si rifiutano di riconoscere la legittimità dell’autorità centrale. Bisognerà indagare le responsabilità dell’attacco all’interno di questi gruppi. I primi arresti sembrano accreditare questa pista.
Segnali
Le avvisaglie di un atto simile c’erano tutte, anche se non di tale tragicità e rilevanza.
Le elezioni di luglio, che hanno avuto un buon esito, hanno fatto probabilmente abbassare la guardia. I problemi, tuttavia, rimanevano tutti. Il mese di agosto lo aveva chiaramente dimostrato: attacchi di gruppi salafiti agli «eretici» sufi, con la distruzione di diversi santuari; altri attentati a istituzioni libiche addebitati, forse troppo frettolosamente, a ex gheddafiani.
Questi, foraggiati probabilmente dall’estero tramite membri della famiglia del Rais, rappresentano una minaccia alla stabilità del paese e un ostacolo verso una piena pacificazione. Le loro rappresaglie hanno già avuto conseguenze politiche. Proprio a causa della recrudescenza delle violenze nel paese, il ministro dell’Inteo libico, Fawzi Abdelali, aveva presentato a fine agosto le sue dimissioni, per protestare contro le critiche all’inefficacia delle misure di sicurezza, ma poi si era detto impossibilitato nel risolvere la questione.
Seppur teoricamente improbabile, fonti di intelligence accreditano uno scenario alquanto preoccupante che vedrebbe una convergenza tattica dei salafiti con gruppi di ex gheddafiani nel nome della lotta all’attuale transizione politica. Le risorse e le amicizie inteazionali della famiglia Gheddafi non vanno sottovalutate, in particolare i legami che ancora può vantare Saadi Gheddafi, il figlio ex calciatore di Muammar, ora in Niger.
Se il paese rimanesse così instabile, anche l’influenza islamica radicale, guidata dagli elementi più pericolosi, si potrebbe rafforzare ancora. Gli attentati di maggio e giugno 2012 ai danni della Croce Rossa e dei consolati britannico e statunitense a Bengasi costituivano un chiaro avvertimento che è stato sottovalutato. L’uso di azioni terroristiche da parte dei gruppi radicali sta decisamente aumentando sia per quantità che per qualità. In un mix sempre più pericoloso di terrorismo, immigrazione illegale e traffico di droga e armi (20.000 missili portatili antiaerei sarebbero ancora nelle mani delle milizie), derivante dal fallimento del controllo delle frontiere, potrebbero trovare terreno fertile le organizzazioni criminali e terroristiche. Difficile pensare che l’azione di assalto al consolato Usa non sia stata premeditata e che la motivazione non sia pretestuosa.
Occidente mordi e fuggi
Una vasta coalizione internazionale ha abbattuto il regime di Gheddafi e poi ha fatto finta che i libici potessero farcela da soli. Gli Stati Uniti si sono mantenuti defilati. Sembrava una strategia vincente, ma ora per Obama il «leading from behind» (dirigere dalle retrovie, ndr) potrebbe diventare molto difficile da difendere dagli attacchi dei repubblicani.
Senza rievocare la crisi degli ostaggi all’ambasciata americana di Teheran che mise in ginocchio l’amministrazione Carter, questa vicenda sarà certamente rilevante per la campagna elettorale. Obama ha prontamente reagito con la decisione di rimpatriare il personale americano e di inviare un primo contingente di 50 marines specializzati nell’antiterrorismo ai quali, secondo una fonte del Pentagono, potrebbero seguire fino a 200 militari in tutto, e di un probabile utilizzo non dichiarato di droni contro i gruppi legati al terrorismo internazionale.
Se vi erano dubbi sulla capacità della Libia di risolvere da sé i propri problemi e incamminarsi da sola sulla strada della democrazia e della riappacificazione, questi eventi li alimentano. Lo stesso giorno dell’assalto all’ambasciata, in questa cupa atmosfera, il parlamento libico ha nominato Mustafa A.G. Abushagur, ex vice primo ministro del governo provvisorio, nuovo primo ministro. Il parlamento lo ha preferito di misura a Mahmud Jibril, che ha guidato l’alleanza di partiti con maggiori consensi alle elezioni di luglio. Abushagur, storico oppositore di Gheddafi, a lungo in esilio negli Usa, ha raccolto consensi trasversali. Toccherà a lui prendere in mano il paese, ma senza un forte aiuto della comunità internazionale si prospettano tempi difficili.

Arturo Varvelli

Arturo Varvelli




Integralismo all’africana

Premessa

Nell’ormai lontano 1998, il 7 agosto, le ambasciate Usa di Nairobi (Kenya) e Dar-es-Salaam (Tanzania) subiscono due attentati contemporanei. Muoiono 223 persone e 4.000 restano ferite. Sono i maggiori attacchi terroristici prima dell’11 settembre. Entrambi in suolo africano, sono rivendicati da Al Qaeda di Osama bin Laden.
2006: i miliziani islamici di Al Shabaab conquistano la Somalia centro orientale e impongono una lettura integralista della legge islamica.
Ad Abuja, il 26 agosto 2011 un’autobomba guidata da un kamikaze fa esplodere la sede Onu in Nigeria. Diciotto i morti e una decina i feriti. La setta islamica radicale Boko Haram rivendica l’attentato.

Nell’aprile di quest’anno il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad dichiara l’indipendenza del Nord del Mali e la secessione da Bamako. Ben presto i gruppi islamisti di Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico), Mujao e Ansar Dine prendono il controllo dell’intero territorio e applicano la legge islamica.
Sono fatti, tasselli, nomi, sigle che raccontano come nell’Africa a Sud del Sahara gli «islamisti» stiano guadagnando progressivamente terreno. Spesso si tratta di movimenti con origine diversa (anche molto diversa) e che nel tempo si sono trasformati. Ma quali contatti hanno tra loro? A quali ideali si ispirano? Dove e come operano sul terreno? Chi li finanzia?
Nelle pagine seguenti abbiamo cercato di fornire alcuni elementi per meglio comprendere un fenomeno complesso e contraddittorio, quello dell’integralismo islamico in Africa sub sahariana, che mescola rivendicazioni a carattere nazionale con spinte inteazionaliste; che offre ordine e sicurezza ma anche una visione spietata e integralista dell’islam; che miscela guerra santa a traffici illeciti; che combatte l’Occidente, ma ha basi in Europa.

Enrico Casale e Marco Bello

Enrico Casale e Marco Bello




E dagli alla Chiesa

Ai lettori

Scrivo queste righe ai primi di giugno, mentre il terremoto in Emilia e dintorni ancora impazza occupando il primo posto nei notiziari e pagine di giornale, tra molta verità e tanta esagerazione. Su La Stampa ho letto (finalmente) l’invito di un giornalista, Michele Brambilla, ad attenersi ai fatti e alla verità. «Basta esagerazioni. Atteniamoci ai fatti. Sono già abbastanza gravi che non c’è bisogno di metterci il carico». Voi mi state leggendo circa un mese dopo. Per allora (lo spero proprio!) la grande voglia di vivere della gente delle zone del terremoto, tra cui abbiamo tantissimi affezionati amici, benefattori e sostenitori delle nostre missioni, avrà avuto la meglio sulla paura e i tremori della terra. Allora, forse, le notizie non saranno più sul disastro ma sulla ricostruzione e la grande dignità e voglia di riscatto di questi nostri fratelli e sorelle. Forse i media avranno perso interesse per le case crollate, i monumenti polverizzati, le formaggerie sventrate e si saranno già buttati su qualche altra voluttuosa notizia.
Intanto, come da copione, un’altra notizia fa da spalla a quella del terremoto: la saga-thriller degli scandali del Vaticano o della Chiesa, dove sulla base di poca verità, il gossip si spreca e si lancia verso vette insuperabili di speculazioni gratuite.
Qui abuso della vostra pazienza per dire che sono stufo della grossolanità dell’informazione che passa in questi giorni, dell’identificazione del Vaticano con la Chiesa (quella con la «C» maiuscola), del tirare ad indovinare informazioni che non ci sono, del vedere il complotto a tutti i costi, del far passare come legittima informazione un libraccio di documenti – di dubbio interesse pubblico – ottenuti in maniera fraudolenta violando un mucchio di leggi ma soprattutto il rispetto per le persone e la giustizia. Lo scrivo: non sono un entusiasta del «sistema vaticano» che spesso mi sembra così distante dalla vita reale della Chiesa. E amo molto questo Papa. Mi guarderei bene, però, dal dire e scrivere che quel che succede in Vaticano è indice della crisi di una Chiesa corrotta e corruttrice, e dall’usare i termini Vaticano e Chiesa come sinonimi.
Grazie a Dio conosco una Chiesa che è ben diversa da quella dipinta dai giornali. L’ho incontrata a Camp Garba, il primo gennaio di quest’anno, celebrando l’eucarestia nel povero asilo di Kiwanja con tanti che avevano perso tutto a causa della violenza. La vedo nella comunità di Toribio, in Colombia, che pian piano ricostruisce la sua parrocchia devastata da una bomba che sa più di narcotraffico che di rivoluzione. È Chiesa in Asha Bibi, la semplice donna cristiana condannata a morte in Pakistan sotto la pretestuosa accusa di blasfemia. È Chiesa in don Ivan, che muore per salvare la sua bandiera, quella statua della Madonna così cara alla sua comunità parrocchiale. È negli occhi limpidi e giorniosi di Sandra che ho confessato pochi giorni fa prima della cresima. È nello sguardo di S&V mentre si dicono di sì per tutta la vita. È nella determinata serenità di Anna che, sapendo di avere pochissimo da vivere, con suo marito prepara in anticipo il suo funerale perché sia una festa e non un mortorio. È nei giovani che si sono incontrati a Madrid con Benedetto XVI e le famiglie che con lui a Milano hanno celebrato la centralità di Gesù nella famiglia di oggi. È quella che nel nord della Nigeria vive sotto le bombe e le minacce. È nel vescovo Pante che in moto percorre le piste della sua vasta diocesi portando riconciliazione tra le tribù. È la Chiesa che celebra l’eucaristia danzando dentro povere capanne di fango e paglia o sotto grandi alberi, più numerosa certamente di quella che frequenta le grandi cattedrali-museo. È la Chiesa viva, fatta di uomini e donne, pur peccatori, che vivono con semplicità e senza ostentazione in questo difficile mondo, pagando di persona, testimoni veri della risurrezione di Gesù.
È questa la Chiesa che amo, di cui il papa è pastore nel nome di Cristo. Di questa Chiesa sono orgoglioso e con questa Chiesa prego perché chi sbaglia si converta, chi comanda lo faccia come colui che serve, chi ha peccato accolga il perdono e diventi capace di ricominciare, con umiltà, anche in Vaticano. Perché quando un cristiano pecca o fa male, che sia io o uno disperso nella foresta o nei meandri dei palazzi del potere, tutti ne soffriamo, come in una famiglia.
Perché siamo Chiesa.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




3. Francesco Saverio

4 chiacchiere con…

Avere di fronte Francisco Xavier, meglio conosciuto da noi come San Francesco Saverio, significa trovarsi davanti al più missionario degli uomini intrepidi e al più intrepido dei missionari di tutti i tempi. Del resto la sua storia personale rimane forse la parabola luminosa più incisiva degli annunciatori del Vangelo. Iniziamo il nostro colloquio con lui.

Come nasce la tua vocazione missionaria?
Inizio col dire che sono un discendente di una nobile casata della città di Xavier, nella provincia di Navarra, ridotta alla miseria per la confisca di tutti i beni a opera di Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, dopo la vittoria conseguita sugli abitanti della zona che volevano una loro autonomia contando sull’aiuto della Francia. Dopo questa catastrofe per sfuggire a un futuro incerto mi rifugiai in Francia, iscrivendomi alla facoltà di teologia della prestigiosa Università della Sorbona di Parigi. Lì incontrai Iñigo de Loiola o come dite voi italiani: Ignazio di Loyola, il quale dopo essere stato ferito in battaglia, passò tre lunghi mesi immobile a letto, durante i quali leggendo diversi testi spirituali e in modo particolare il Vangelo, decise di cambiar vita. Anch’egli però desiderava accrescere la sua cultura, in quanto vivevamo tempi contrassegnati da conflitti religiosi che andavano acuendosi ogni giorno di più. Fui letteralmente conquistato dal modo di fare d’Ignazio; la sua fama di uomo d’arme convertito in discepolo mansueto di Cristo e, allo stesso tempo, il suo desiderio di combattere con le armi della ragione e dell’intelligenza gli eretici del tempo, mi attirarono sempre più nella sua orbita e con me altri giovani che sentivano il bisogno di rinnovare la Chiesa rinnovando se stessi.

Mi sembra un ottimo programma, soprattutto perché oggi molti desiderano cambiare la Chiesa senza mettersi minimamente in discussione, che avvenne dopo?
Mi tremano i polsi al solo pensarci: il 15 agosto del 1534, Ignazio, io e altri cinque giovani andammo nella chiesa di Saint Pierre di Montmartre dove ci impegnammo a vivere in povertà e castità, fondando così la Società di Gesù, in quanto volevamo essere pellegrini in Terra Santa o nel caso ciò non fosse stato possibile metterci a completa disposizione del papa.

Erano nati i Gesuiti se capisco bene.
Certo! Ignazio optò per il termine Società di Gesù in quanto due grandi santi che lo avevano preceduto, san Domenico e san Francesco, avevano dato origine a due ordini religiosi che presero il nome dei loro fondatori, Domenicani e Francescani per l’appunto. Ignazio non voleva che la nostra Compagnia fosse segnata dal suo nome, voleva che tutto riconducesse a Gesù Cristo nostro Salvatore. 

E com’è che sei finito in India, nelle Molucche, in Giappone e per un pelo non hai messo piede in Cina?
Le cose andarono così: nel 1540, Giovanni III re del Portogallo, chiese al papa, che in quel tempo era Paolo III, di inviare dei missionari per evangelizzare i popoli delle nuove colonie che i portoghesi avevano appena conquistato nelle Indie Orientali. Il Papa indicò la Compagnia di Gesù a cui affidare questo compito e sant’Ignazio scelse me come responsabile dell’attività missionaria nei nuovi territori.

Il viaggio deve essere stato lungo e faticoso immagino.
Non me ne parlare! Adesso prendete un aereo e dopo qualche ora sbarcate in qualsiasi capitale del mondo, ma a quel tempo i viaggi erano tutti via mare, con navi sospinte dal vento, io partii da Lisbona nella primavera del 1541 e arrivai a Goa in India nel maggio dell’anno successivo.

Come fu l’impatto con la realtà asiatica?
Per certi versi traumatico: a Goa vidi i portoghesi che pensavano solo a fare affari e ad arricchirsi, poco interessati all’annuncio del Vangelo. Dovetti pertanto richiamare i portoghesi a un atteggiamento più consono al messaggio cristiano e allo stesso tempo iniziai a dedicarmi ai derelitti e ai poveri che vivevano in quella città. Dopo qualche anno mi trasferii alle Molucche, dove i portoghesi avevano impiantato delle colonie e anche lì rimasi due anni.

Che traguardi raggiungesti?
Intanto cominciai a testimoniare con i miei compagni l’amore di Dio verso tutti gli uomini, a qualunque razza, lingua e popolo essi appartenessero. Venni a contatto con persone provenienti da altri paesi e mi resi conto che Goa doveva essere un trampolino di lancio verso nuovi orizzonti.

Con la lingua come te la cavavi?
Male purtroppo! Iberico di nascita parlavo sia lo spagnolo che il portoghese, essendo vissuto in Francia parlavo anche il francese e avendo fatto gli studi in latino lo conoscevo alla perfezione, me la cavavo discretamente anche con l’italiano, ma come puoi ben capire erano tutte lingue neolatine. Per parlare con la gente del posto avevo sempre bisogno di un interprete; in una città di mare non è difficile trovare al porto persone che parlano diverse lingue: lì incontrai anche alcuni giapponesi che affascinati dal messaggio evangelico mi proposero di andare ad annunciare la Buona Notizia nel loro paese, il paese del Sol Levante.
 
Quindi decidesti di partire per il Giappone. E là cosa successe?
L’incontro con la realtà nipponica modificò radicalmente il mio modo di evangelizzare: incontrai un popolo nobile e fiero e capii che Dio ci aveva già preceduti con l’azione dello Spirito. Approdato a Nagasaki, chiesi di incontrare lo Shogun, e per mostrargli in tutta povertà lo spirito del Vangelo, decisi di andare a Kyoto in veste povera e dimessa, ma non venni ricevuto. Imparai la lezione e, indossando quanto di più raffinato mi ero portato dall’Europa, chiesi di incontrare l’influente principe di Yamaguchi. Questa volta venni accolto cordialmente e ottenni il permesso di risiedere e di annunciare il Vangelo in quella città.
Ci furono conversioni?
Sì. La gente era colpita da questo Dio che poteva chiamare Padre, pieno di tenerezza verso l’umanità peccatrice, un Dio che desidera salvare gli uomini più che condannarli; negli anni che passai a Nagasaki diverse persone chiesero di essere battezzate. Feci ogni sforzo per far crescere la piccola comunità cristiana che si era formata e offrire loro un’istruzione catechistica che potesse incidere nella loro vita.

Come mai dal Giappone decidesti di partire per la Cina?
Per i Giapponesi, i Cinesi erano i maestri indiscussi di ogni scibile. Dato che i bonzi si opponevano sempre alla mia predicazione, dicendo che se la religione cristiana fosse stata vera, i cinesi l’avrebbero già conosciuta, decisi di andare in Cina per iniziare l’opera di evangelizzazione.

Però in Cina non ci sei arrivato
No! Dopo anni di intenso apostolato, di lunghi viaggi via mare, di fatiche inenarrabili, consumato anche da malattie contratte in quel periodo, ero molto debilitato, ma non per questo rassegnato a non arrivare in Cina. Riuscii ad avere un passaggio su una nave diretta a Canton, giunto però all’isola di Sancian capii che era arrivata la mia ora. Difatti lì si concluse il mio impegno missionario; negli occhi avevo l’immagine del paese a cui più di ogni altro desideravo accedere. Il mio desiderio di portare in Cina il Vangelo fu però raccolto da altri miei confratelli, tra cui il vostro Matteo Ricci, i quali qualche tempo dopo riuscirono a installarsi alla corte imperiale di Pechino, ponendo così le basi per un’azione di evangelizzazione di cui oggi vediamo spuntare i germogli.

I tempi del Signore non seguono le nostre stagioni, vero?

I suoi frutti però arrivano sempre a maturazione.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera