Africa: cos’è la rivoluzione mobile
Le parole d’ordine sono mobile banking e «nuvola». Le armi: il telefonino e il computer portatile. I combattenti: la «generazione ghepardo». L’Africa sta vivendo una «rivoluzione» epocale, nella quale la tecnologia la fa da padrone. E giovani curiosi e dinamici vogliono sostituire gli «ippopotami» della politica.
La chiamano «la rivoluzione mobile» e, come tutte le etichette che pretendono di marcare uno spartiacque, anche questa roboante definizione suona retorica. Eppure basta percorrere la 1st street di Eastleigh, quartiere di Nairobi noto anche come Little Mogadishu per l’altissima concentrazione di imprenditori e rifugiati (spesso un aspetto non esclude l’altro) somali, per cominciare a pensare che ci sia qualcosa di vero e profondo in questa rivoluzione.
A farlo sospettare non sono solo gli onnipresenti negozi di telefonia mobile che vendono cellulari da dieci dollari o gli sportelli del sistema MPesa, la piattaforma creata dall’operatore mobile Safaricom per inviare e ricevere denaro da un telefono a un altro.
A dare il senso di questo cambiamento sociale ed economico sono piuttosto le parole di Mohammed, un rifugiato 23enne che, dopo 14 anni nel campo profughi di Ifo, a Dadaab, insegna inglese a Eastleigh. Periodicamente, tramite MPesa, invia denaro al resto della famiglia che vive ancora nel campo oppure, in caso di bisogno, ai suoi fratelli che vivono di pastorizia nell’Est del Kenya e che lo contattano con i loro cellulari caricati a energia solare, inseguendo pascoli e network, spesso salendo su alture o inerpicandosi su tralicci.
Mentre chiacchieriamo davanti a un chai masala, riceve un sms: altri fratelli emigrati in Canada gli fanno sapere di avergli spedito dei soldi via Inteet su Daabshil, uno dei più popolari sistemi bancari islamici della Somalia. Con quei fondi potrà partire per il Sud Sudan, dove conta di avviare un business. «Questo è tutto quello di cui ho bisogno, dice sollevando il suo cellulare. Qui ci sono tutti i miei contatti. E con questo posso ricevere i soldi che mi servono».
«Armi» modee
Il Nokia 1100 che stringe in pugno è una delle armi di questa rivoluzione, la più diffusa, e non a caso «Foreign Policy» l’ha definito l’AK 47 (Kalashnikov) della telefonia mobile: lo possiedono 250 milioni di persone, soprattutto nel Sud del mondo, per i quali non importa che, nel Nord, sia ormai considerato un pezzo di modeariato.
È affidabile, economico, facile da usare. In generale, quattro cellulari su cinque presenti nel mondo oggi si trovano nei paesi poveri. Più o meno sofisticati, generalmente a basso costo: secondo i calcoli del guru della tecnologia Nathan Eagle, chiunque guadagni almeno cinque dollari al giorno può permettersi un cellulare.
Per molte famiglie è un investimento. Lo si usa per indirizzare i propri prodotti verso mercati più redditizi, per ottenere informazioni spesso cruciali per sopravvivere, per inviare rimesse a casa. Ciò aiuta a spiegare il successo della telefonia mobile in Somalia, come racconta la giornalista della Bbc Mary Harper nel suo ultimo libro «Getting Somalia Wrong»: il paese, per quanto privo di un vero governo da vent’anni, ha la rete di telefonia mobile più economica del mondo. Un’autostrada impalpabile che fa da contraltare alle disastrate infrastrutture e che, secondo Hassan, dipendente somalo di una Ong con sede a Nairobi, sta trasformando la Somalia nel primo paese a moneta virtuale al mondo. «Grazie a Zaad – un’altra piattaforma di mobile banking lanciata dalla Salaam Somali Bank – posso pagare taxi e caffè con il mio cellulare trasferendo i soldi sui numeri di conto esposti dagli esercizi commerciali».
Le transazioni hanno un costo, che però viene annoverato nella lista delle spese per la sicurezza: non si circola con denaro in tasca e, in caso di furto del cellulare, il denaro rimane nella «nuvola» (vedi glossario).
Nel sud della Somalia i miliziani di Al Shabaab hanno vietato i servizi di mobile banking, ufficialmente perché non islamici. Ma Hassan ha un’altra spiegazione: «Nella “nuvola” ci finivano anche i loro stipendi. E quando si sono accorti che il sistema era troppo vulnerabile hanno deciso di vietarlo».
Nuovi linguaggi
Sull’onda della vertiginosa diffusione di cellulari in Africa, un nuovo acronimo si è aggiunto alla lunga galleria di sigle che accompagnano la storia del continente dall’indipendenza ad oggi: ICT4D, ovvero Information and communication technologies for development. La febbre della tecnologia digitale per lo sviluppo ha contagiato istituzioni inteazionali come la Banca Mondiale, multinazionali della cooperazione come Oxfam, agenzie nazionali dello sviluppo, soprattutto nel Nord Europa, e corporation tecnologiche, come Vodafone e Microsoft: espressioni come mobile health (che riguarda progetti sanitari impeiati sull’uso del cellulare) o crowdsourcing (un sistema di raccolta d’informazioni basato su piattaforme digitali) sono diventate le nuove parole chiave per accedere a finanziamenti e a fondi di ricerca.
Un approccio che sfuma come non mai i confini tra profit e no-profit. Per rendersene conto, basta visitare il cuore della Silycon Valley africana, sempre a Nairobi, ma su Ngong Road, costellata di enclavi di espatriati vecchi e nuovi, anglosassoni e cinesi, centri commerciali e culturali. In un ampio e luminoso open space all’ultimo piano di un edificio di vetro si trova iHub, il business incubator più famoso dell’intera Africa. Qui giovani keniani smanettano su laptop o discutono attorno a un grafico su un monitor di idee da trasformare in apps per cellulare o in piattaforme per il web. Eric Hersman, americano trapiantato in Kenya e animatore di vari blog tra cui White African («Dove le ICT incontrano l’Africa») l’ha fondato appena due anni ma, racconta, il seme è stato piantato nel 2007, e non in Kenya.
Generazione di ghepardi
È stato al Ted African Forum di Arusha, in Tanzania, che, dal palco, l’economista ghanese George Ayittey ha lanciato la sua profezia sul futuro del continente, con una metafora dal tipico respiro africano: c’è la generazione degli ippopotami e quella dei ghepardi. I primi sono legati alla logica postcoloniale e sono i dinosauri della politica, impastorniati nei ruoli di potere tradizionali e nella corruzione. I secondi guardano avanti, corrono veloci, sono curiosi, vogliono cambiare il mondo. La cheetah generation, vaticinò, sta sbocciando.
Al netto dell’enfasi, la profezia si è rivelata in parte corretta. Hersmann, che si trovava tra il pubblico, lo verificò meno di un anno dopo quando, insieme a un’attivista keniana anch’essa in platea, Juliana Rotich, vide il paese che aveva scelto come seconda casa sull’orlo della guerra civile.
La contestata vittoria del presidente in carica Mwai Kibaki sul leader dell’opposizione Raila Odinga aveva fatto precipitare il Kenya nel caos. È stato in quel momento che la cheetah generation si è messa a ruggire, dalla tastiera di un computer. Hersman, Rotich, attivisti di base ad Harvard e soprattutto tanti giovani keniani lanciarono Ushahidi – testimone in ki-swahili – una piattaforma online che permette di mappare la crisi in corso sulla base di sms ed e-mail inviati da chiunque. Un caso esemplare di crowdsourcing, ovvero raccolta diffusa di informazioni, che ha trovato applicazioni anche in altri contesti: dopo i terremoti ad Haiti e in Cile, durante l’operazione Piombo fuso su Gaza, nei conflitti in Libia e in Siria. Attoo a Ushahidi è aumentata l’attenzione sulle potenzialità della tecnologia recepita anche da organizzazioni come Un Ocha (Organizzazione delle Nazioni unite per il cornordinamento dell’aiuto umanitario), che per la prima volta ha chiesto la collaborazione della comunità di volontari di Ushahidi per monitorare l’emergenza umanitaria ad Haiti. Inoltre, a partire da iniziative come Ushahidi la cheetah generation è cresciuta e si è data da fare, soprattutto in Africa orientale, il vero cuore di questa rivoluzione che s’irradia non solo in Africa ma in tutti i Pvs (Paesi in via di sviluppo), sempre più Pds, «Paesi di sviluppatori».
Sviluppo telematico
La competizione Apps4Africa è una vera vetrina di creatività tecnologica africana. Nell’ultima edizione hanno trionfato un progetto che consente la gestione della distribuzione del grano via cellulare, Grainy bunch, ideato da un 28enne di Dar Er Salaam; Mkulima Bora, una app creata da un gruppo di sviluppatori keniani che consente agli utenti l’accesso a informazioni sul tipo di pianta da seminare, incrociando dati meternorologici e geografici; e Agro Universe, innovazione ugandese per monitorare il processo di distribuzione di prodotti rurali.
Uno dei progetti più riusciti premiati in una precedente edizione è iCow, «la migliore amica dell’allevatore», una app scaricabile gratuitamente per tutti gli utenti Safaricom, Orange e Airtel, iCow offre a chi si registra la possibilità di ricevere informazioni personalizzate sul ciclo di gestazione delle proprie mucche, il listino iCow Soko delle quotazioni del bestiame e, a richiesta, informazioni su vaccinazioni, alimentazione e igiene del latte.
A decretae il successo, il suo menu a scelta vocale, il che permette di ovviare al diffuso analfabetismo. iHub aiuta giovani sviluppatori a trovare fondi per produrre le proprie idee ed è un punto di riferimento per chiunque intenda rafforzare la società civile locale con tecnologie digitali: è il caso di MapKibera, progetto di mappatura partecipativa della più grande baraccopoli africana, Kibera appunto, usando la piattaforma libera Open Street Map e appoggiandosi a un team di adolescenti locali muniti di dispositivi Gps.
Non è tutto oro
Nonostante risultati incoraggianti, c’è però chi invita alla cautela su questo nuovo determinismo tecnologico che, alimentato dall’entusiasmo per l’ICT4D, rischia di lasciare in ombra i limiti e le implicazioni di lungo termine della rivoluzione mobile. Kentaro Toyama, professore d’informatica a Berkeley con una lunga esperienza nel campo della tecnologia per lo sviluppo, ad esempio, è probabilmente l’ICT4D-scettico più noto tra gli addetti ai lavori.
Le critiche più ricorrenti riguardano il fatto che un approccio soprattutto «gadgetistico» alla tecnologia fa dimenticare la dimensione politica e sociale dello sviluppo.
La tecnologia, ricorda Toyama, non è la panacea contro la povertà, ma uno strumento che va messo al servizio di competenze e sensibilità. Questo punto è legato a un altro aspetto della questione, che, riprendendo i casi precedenti, può essere riassunto così: Easteleigh e iHub spesso ignorano le rispettive esistenze. Ovvero le iniziative che ruotano attorno alle Ict per lo sviluppo non sono basate su una conoscenza approfondita di come i beneficiari già usano quelle tecnologie.
Un esempio è rappresentato dal monitoraggio mobile eseguito in parallelo ad Ushahidi durante le violenze post-elettorali in Kenya del 2008, quando la gang Luo che sosteneva Odinga, i Taliban di Kibera, usarono i cellulari per cornordinare l’epurazione degli abitanti Kikuyu dello slum.
O ancora il sofisticato uso che Al-Shabaab fa di Twitter, prova che per terrorizzare e intimidire bastano 140 caratteri.
L’ennesimo aspetto critico da sottolineare è infine che le tecnologie mobili non riescono a raggiungere i più poveri ma, piuttosto, rafforzando l’emergente classe media, stanno creando un’ulteriore spaccatura alla base della piramide, destinata ad ampliarsi con il passare del tempo. Al centro di uno studio della Arizona State University e della New America Foundation c’è MPesa, la piattaforma di mobile-banking che rappresenta l’esempio più eclatante delle capacità trasformative della telefonia mobile nei paesi poveri. Negli ultimi quattro anni, questo sistema ha raggiunto 14 milioni di utenti, che lo usano regolarmente per inviare e ricevere denaro. Per l’«Economist», MPesa ha generato un incremento fino al 30 per cento del bilancio familiare e oggi è usato dal 65% della popolazione keniana. Un’indagine successiva ha però rilevato che il 60% della fascia più povera della popolazione continua a non aver accesso al servizio: essendo guidate da una logica di profitto, le compagnie telefoniche non trovano conveniente investire in infrastrutture in alcune aree rurali. Inoltre, le transazioni hanno un costo che resta proibitivo per chi vive sotto la linea di povertà.
La rivoluzione insomma ha le sue ombre ma sta producendo una consapevolezza che finalmente mitiga nella gioventù africana complessi d’inferiorità o voglia di fuga. Consapevolezza che si traduce nell’esplosione di webcomics come «Emergency», ovvero la rivolta Mau Mau raccontata in internet dal disegnatore keniano Chief Nyamweya, o «Who Fears Death», della scrittrice nigeriana di fantascienza Nnedi Okorafor, in cui la civiltà ricomincia in Africa dopo un’apocalisse nucleare. La rivoluzione, come diceva negli anni Sessanta il menestrello nero Gil Scott-Heron, non finirà in televisione ma sarà dal vivo. O, se mai, annunciata da un sms.
Gianluca Iazzolino