Approccio pastorale agli afrodiscendenti
La Chiesa riconosce che ha il dovere di avvicinarsi agli americani di origine africana a partire dalla loro realtà culturale, considerando seriamente le ricchezze spirituali e umane di questa cultura che segnano il loro modo di celebrare il culto, il loro senso di gioia e di solidarietà, la loro lingua, le loro tradizioni (Ecclesia in America 16).
Quando diciamo «pastorale afrodiscendenti» non intendiamo discriminare né santificare tale pastorale, come se essa fosse l’unico approccio possibile alla cura religiosa della popolazione nera. Si vuole semplicemente affermare che è possibile costituire, alla luce della parola di Dio, comunità ecclesiali dal volto propriamente afro, secondo la loro organizzazione sociale, le loro caratteristiche culturali, il loro senso di identità e di libertà.
Si tratta, infatti, di accompagnare gli afrodiscendenti senza adottare metodi e schemi dal di fuori, ma partendo da loro e interagendo con loro.
Ma per fare questo, prima di tutto, è necessario conoscere il loro itinerario storico, la loro mentalità, cultura, tradizioni, religiosità e rispettive forme di espressione.
Abbandonati al «libero» destino
Il 21 maggio 1851, il presidente José Hilario López firmò la legge che aboliva la schiavitù in Colombia: la popolazione nera del paese fu sffrancata, ma continuò a essere un gruppo sociale povero, segregato, con istruzione precaria e poche possibilità di progresso. Alla radice di tutto questo c’è proprio l’abolizione stessa della schiavitù, poiché in essa si indennizzò gli schiavizzatori e non gli schiavizzati.
Già 40 anni prima, quando nel Nuovo Regno di Granada incominciò la gestazione dell’emancipazione nazionale dalla Corona spagnola, i venti del patriottismo non sfiorarono minimamente le popolazioni nere. A quei tempi, la società coloniale era costituita da quattro classi ben definite: al vertice della scala sociale c’erano i nobili, pochi spagnoli di alto rango; seguiva la casta dei proprietari terrieri, poco numerosa, ma potente e ricchissima; più in basso c’era la classe media, grigia e numerosa, composta da impiegati amministrativi, funzionari secondari, scribacchini pretenziosi, piccoli commercianti, sarti, osti, fabbri, muratori, bottegai, poliziotti, maestri, medicastri, salassatori, macellai, sacrestani, calzolai, basso clero…; nell’infimo gradino c’erano la classe bassa, il popolino.
Nel 1810, quando risuonarono i primi squilli di tromba della rivoluzione, l’unica classe che non vi partecipò fu quella più bassa, la super-sfruttata: indios, neri, meticci, mulatti e altri discendenti da mescolanze razziali possibili solo ai tropici.
A questa gente la rivoluzione non interessava. Loro compito era il lavoro da soma nelle gallerie delle miniere, nelle mefitiche piantagioni, la schiavitù domestica, zappa e finimenti di muli. Era il popolo schiacciato dall’oppressione. Continuava nell’anonimato, poiché era vuoto di ideali, servile per inerzia e in sempitea ignoranza. Alcuni facevano eccezione: adoravano i loro padroni e morivano per essi.
A che serviva la libertà? Cosa portava allo schiavo manomesso? Unico vantaggio era la non dipendenza; ma al di là di questo, il loro destino era morire di fame come cani rabbiosi, poiché le terre le aveva il padrone e l’embrionale costituzione mancava totalmente di leggi sociali pratiche, che rispondessero alle sue necessità più immediate di casa e lavoro. Al bivio tra essere poco o essere niente, i neri preferivano il primo.
Meglio la Schiavitù che la guerra
Il cambio di padrone sapeva d’imbroglio. Senza intendersi di politica, leggi, democrazia, diritti umani, i neri non capivano la rivoluzione. Tuttavia, spinti dai loro padroni, obbedendo ai loro ordini, alcuni andarono in guerra. Li si vedeva arruolati in entrambi gli schieramenti e in varie occasioni alternarono i loro servizi ora con l’uno e ora con l’altro: i racconti delle loro storie guerresche erano una collezione di diserzioni.
Ma per arruolare la maggior parte di essi fu necessario inseguirli come bestie dannose, soprattutto gli indios; una volta reclutati, venivano incolonnati e legati insieme per le mani; sciolti al momento di combattere: quelli che non cadevano morti sparivano come per incanto.
Altri ancora si unirono ai battaglioni benedetti dai parroci dei loro distretti, perché difendessero Dio e la Chiesa. Ma se il curato diceva che Cristo stava con Ferdinando, allora… «viva la Spagna»; se stava con Bolivar, «evviva la repubblica». No, gli schiavi neri non avevano interessi né ideali da difendere. Tanto più che non c’era spagnolo né patriota di rango che non li disprezzasse, non li evitasse per tante ragioni e pregiudizi prima e dopo la guerra, e perfino nel pieno furore della battaglia. E poi, in caso di vittoria, sarebbe cambiato solo il colore della loro rassegnazione senza speranza. No, essi non si sollevarono spontaneamente nel 1810: mancava loro la libertà per decidere e anche la motivazione.
E quando in Colombia fu decretata l’abolizione della schiavitù, l’emancipazione non portò migliori condizioni di vita o avanzamento della posizione sociale delle popolazioni nere; anzi inizialmente le peggiorò. Tale abolizione, semplicemente, liberò il padrone da un peso che per lui ormai non era più redditizio; mentre l’antico schiavo fu chiaramente e semplicemente abbandonato alla sua «libera» sorte.
Dopo secoli di lavoro bestiale, considerato alla stregua di una «macchina» di produzione, il nero fu messo in un angolo proprio come un aese vecchio e disprezzabile. In teoria la manomissione lo dichiarava «libero cittadino», alla pari degli altri colombiani, ma al tempo stesso lo condannava a una «invisibilità giuridica» che in Colombia si è prolungata fino alla nuova costituzione del 1991 e alla Legge 70 del 1993: 152 anni di presenza invisibile, senza riconoscere il contributo e la partecipazione dell’afrocolombiano alla formazione sociale, economica e culturale del paese.
In tutto questo tempo nessuno ha aiutato gli afrocolombiani ad acquisire capacità e mezzi per difendersi nella vita socio-politica ed economica. La schiavitù, quindi, continuò molti anni sotto altre forme. Ancora oggi, la persona afro continua a lottare contro l’emarginazione, il razzismo, la mancanza di guida, la povertà, la violenza…
Nuovo adattamento
– Siamo liberi, e allora che facciamo?
– Arrangiatevi!
– E dove andiamo?
– Da quella parte, ci sono terre che non appartengono a nessuno: occupatele.
– Come facciamo a mangiare?
– Lavorate!
Non è pura fantasia immaginare un dialogo del genere tra l’antico padrone e il nuovo suddito dichiarato per legge «libero cittadino».
Sia come sia, abbandonato al suo destino, in un ambiente dove la natura si manifesta in tutto il suo splendore, ancora una volta il nero seppe adattarsi, affinché senza conflitto potesse coesistere sia lui che la natura tutta; uomo e natura, ognuno fragile in qualche misura.
Da lì iniziò un’esperienza che insegnò al nero a sopravvivere, estraendo dall’ambiente naturale ciò che gli era indispensabile per l’esistenza; nasceva una cultura nella quale non esistevano i concetti di sfruttamento né di superfluo, e nemmeno di accumulazione (con la relativa idea di risparmio), poiché l’ambiente in cui si trovava era talmente generoso che non era necessario accumulare per vivere.
L’economia del pancoger (letteralmente: cogliere il pane, cioè prendere lo strettamente necessario per l’esistenza) produsse una cultura di austerità, nella quale lo sforzo per la crescita poteva apparire superfluo; atteggiamento che dal punto di vista della mentalità capitalista occidentale fu considerato un freno all’evoluzione di queste società, segno d’incapacità o semplicemente di pigrizia.
Gli schemi educativi tradizionali trovarono in tale ambiente il proprio modello fondamentale. Fin da bambino l’individuo imparava a valorizzare l’ambiente naturale, poiché gli veniva inculcato il rispetto per gli elementi; rispetto che si traduceva in accortezza nel loro sfruttamento, virtù indispensabile per continuare a vivere in un luogo in cui l’uomo afrocolombiano si sentiva piccolo e limitato, benché pieno di possibilità favorevoli alla vita. Inoltre, in questo ambiente, egli dilatava il mondo della natura e vi associava il mondo delle forze soprannaturali, di esseri misteriosi e poteri superiori, la cui energia egli si abituava a captare, valorizzare e rispettare.
Con il processo d’indipendenza, si stabilirono alcuni gruppi culturali diametralmente opposti: quello dell’élite (bianco-creolo, evoluto, sofisticato, salottiero, europeizzante) e quello popolare (oppresso, sottostimato, soffocato, sfigurato e perfino perseguitato).
Il nero, in Colombia come in altre parti d’America, si trovò tra due correnti: una lo piegava verso il suo perduto passato nel desiderio di poterlo rivivere; l’altra lo obbligava ad adattarsi al nuovo ambiente in cui doveva vivere. In tale adattamento dovette scegliere l’acculturazione, cioè, assimilare elementi della cultura dominante e al tempo stesso trovare risposte alla sua mentalità e adattarle alle nuove situazioni. Creò, così, nuovi modelli di comportamento, conciliando l’elemento africano con quello della cultura dei suoi padroni o ex padroni.
Mentalità da conoscere
L’azione evangelizzatrice attuale e la pastorale cattolica con i gruppi afrocolombiani non incontrano, in generale, un «vuoto» di tipo culturale e religioso. Per di più, non esiste tra gli afrocolombiani una cultura o una religiosità totalmente estranea al messaggio evangelico.
Da secoli gli afrocolombiani hanno ricevuto l’annuncio del vangelo e, fondamentalmente, vi hanno aderito. Senza dubbio, lo hanno accolto alla loro maniera, in parte adattandosi con sincerità alla nuova religione e, in parte, adattando la nuova religione alla loro cultura.
In linea di massima gli afroamericani della costa e del Chocó si autodefiniscono «cattolici» e persino «buoni cattolici». In tale dichiarazione gioca una certa dose di ingenuità o ignoranza, ma non vi è presunzione.
Sarebbe perciò totalmente sbagliata un’azione pastorale che non tenesse conto della mentalità, della cultura e della tradizione religiosa delle persone a cui è diretta. Quindi, un lavoro pastorale proficuo tra gli afrocolombiani suppone ed esige la conoscenza piena della loro cultura e della loro religiosità. Inoltre, «inculcare la fede», come raccomanda la sfida lanciata dal Documento di Santo Domingo (1992), esige che le forme in cui essa viene espressa corrispondano alle forme di espressione della rispettiva cultura, evitando così che l’africano, per essere cristiano, debba diventare culturalmente bianco.
Per il nero la tradizione è una legge molto più forte e rispettabile di tutti i documenti ecclesiali di riforma, apparsi dal Concilio Vaticano II ai nostri giorni. Non li critica, né li disprezza; semplicemente li ignora. Non contraddice ciò che i sacerdoti e le religiose cercano di comunicare loro: semplicemente scarta ciò che risulta estraneo alla sua tradizione.
Celebrando il Natale e la Settimana Santa, con ogni probabilità i neri intendono celebrare l’uomo: la sua nascita, la sua vita, la sua morte. Cristo è l’immagine dell’uomo, e sono affascinati più dalla sua umanità che dalla sua divinità, più dalla sua morte che dalla sua risurrezione.
Due tipi di Sincretismo
Anche nell’ambito religioso il processo fu molto simile a quello socio-culturale: tra le istruzioni impartite dal clero, mediante istituzioni come il catechismo domenicale, e il controllo repressivo delle autorità civili e, posteriormente, del cosiddetto Santo Ufficio dell’Inquisizione, l’africano si vide sottoposto a una terribile pressione da parte dell’ambiente circostante, che influì sul suo credo religioso: di qui il nascere di un pronunciato sincretismo, ancora presente nella coscienza afroamericana. Tale sincretismo prosperò tanto in ambiente protestante che in quello cattolico, anche se in modo assai diverso.
Nell’ambiente protestante il nero non veniva accettato come membro della Chiesa se non dopo un’istruzione accurata e completa. In questo ambiente un’evangelizzazione approfondita portò alla scomparsa dell’elemento culturale africano. Lo schiavo reinterpretò il messaggio biblico filtrandolo attraverso la sua mentalità e le sue esigenze, creando un suo proprio cristianesimo.
In ambito cattolico, che si potrebbe definire più sociale che mistico, il nero invece capì molto presto che l’unica possibilità per ascendere nella scala sociale era quella di «formarsi un’anima di bianco». In questo ambiente, con un’evangelizzazione più superficiale, si mantennero più facilmente le caratteristiche culturali originarie, che produssero quel sincretismo di stampo africano presente nella religiosità popolare cattolica afrocolombiana.
Tra le sue varie forme, vale la pena menzionare la corrispondenza tra divinità africane e santi cattolici. In pratica, il nero riconosce che i santi cui rende culto sono la versione bianca delle sue divinità nere e lo giustifica teologicamente, affermando che fondamentalmente esiste una sola religione universale: quella che crede nell’esistenza di un Dio unico, creatore. E siccome questo Dio è troppo lontano dagli uomini, sono necessari degli intermediari, che per i protestanti sono gli angeli, per i cattolici sono i santi.
Degno di nota è pure il culto dei morti che diventa spazio di solidarietà e, nel suo nucleo essenziale è «la celebrazione della vita» che continua dopo la morte. Negli ambienti afroamericani questo culto ha lo scopo di accattivarsi la loro simpatia e di difendersi dal loro grande potere. È importante propiziarseli e riparare possibili offese. In tale celebrazione, la venerazione è sempre strettamente legata al timore, che è vero movente del culto degli antenati.
Il santo patrono
Emblematico è, soprattutto, il caso delle feste, e particolarmente in quelle patronali, che si trasformano in momenti privilegiati di ritrovo e comunicazione della popolazione nera: uno spazio autonomo, per comunicare con i propri antenati e con le divinità africane, scenario privilegiato per rafforzare la propria coesione.
La festa rappresenta la grande opportunità per celebrare la vita in gruppo. In essa ciò che più conta è il «saper socializzare». In questa occasione tutti si ritrovano e la gente si sente «comunità». Il nero non ama la solitudine, ama il gruppo, cerca la massa. Non ama il silenzio, ama il chiasso, l’allegria traboccante. Perché la festa sia tale ci deve essere molta gente… e molto chiasso.
Nella festa del santo patrono gli afroamericani trovano l’occasione per restituire al santo i favori che questi ha elargito durante l’anno. Un buon raccolto, una pesca abbondante, un certo benessere generale nel paese creano nella coscienza della gente la convinzione che il santo patrono abbia pensato a loro ed essi non esitano a manifestargli la loro riconoscenza nel giorno della festa patronale. Maggiore il benessere, maggiore sarà la festa. La gente dialoga con il santo patrono nel giorno della festa, soprattutto nella processione che costituisce l’atto religioso più idoneo ad esprimere i propri sentimenti. «Sentono» che il santo si è preso cura di loro e nella processione «glielo dicono», attraverso una ritualità che non può essere considerata pura esteriorità. Ma se durante l’anno il potere del santo patrono ha brillato per la sua assenza, la festa può giungere all’estremo opposto: porre il santo con la faccia contro il muro.
Senza memoria non c’è futuro
Da alcuni decenni gli afrocolombiani stanno dando notevoli segni di risveglio e presa di coscienza, di coraggiosa ricerca della propria identità culturale, religiosa e sociale, di timida lotta per recuperare la memoria storica, i valori etnici e le organizzazioni; tale movimento ha già ottenuto alcuni successi negli ambiti dell’educazione, della politica, della chiesa istituzionale e nelle comunità contadine.
Oggi, proprio in quanto popolo nero, essi hanno cominciato a organizzare il loro «esodo» verso la liberazione integrale e sentono la necessità e reclamano il diritto di continuare a ripercorrere le proprie esperienze spirituali ed espressioni liturgiche, radicate nella tradizione religiosa e culturale delle proprie comunità, cercando spazi di libertà per potersi esprimere come cristiani afroamericani.
Vengono così a galla le loro potenzialità, a volte messe a tacere ma mai eliminate, che lungo i secoli hanno permesso loro di sopravvivere e che oggi li stanno accompagnando lungo la via del Calvario verso la sicura risurrezione.
È proprio la sua anima religiosa che permette al popolo nero di avere una cosmovisione che lo rende capace di dare significato alla realtà, di interpretare le esperienze personali e di gruppo in una prospettiva unitaria, di organizzare ciò che è frammentario e dargli dimensione globale.
Il processo storico degli africani in Colombia, con tutte le sue contraddizioni, con la sua carica di morte e sofferenza, con le sue lotte e resistenze, ha configurato una cosmovisione in cui la manifestazione spirituale è l’asse portante per comprendere la realtà.
Gli afrocolombiani hanno sviluppato una visione globale sull’essere umano, il mondo, Dio, gli spiriti e le energie che tutto pervade.
Questa visione integrale della realtà e i valori che la sostengono, sono stati affrontati, nel passato, con una pastorale riduzionista, che promuoveva solo alcuni aspetti dell’essere umano e della sua realtà: quella spirituale, trascurando quella materiale o viceversa; tale azione ha provocato una schizofrenia culturale con gravi conseguenze sociali e religiose.
Evangelizzare le espressioni della religiosità
Le popolazioni afrocolombiane hanno mantenuto fermamente la fede, l’hanno sviluppata nella quotidianità della loro vita contadina, l’hanno manifestata con spirito allegro e spontaneo, mediante una ricca serie di simboli e forme provenienti dalla loro cultura e mentalità, più che dalla tradizione universale cattolica. È naturale quindi che una pastorale autenticamente afro debba tendere a evangelizzare le manifestazioni culturali, le quali, a volte per mancanza di adeguato orientamento, hanno perso progressivamente il loro originario contenuto religioso e si sono ridotte a puro folclore.
Rientrano in questa categoria soprattutto le manifestazioni collettive della religiosità popolare, come le processioni e i balli religiosi, le «veglie» ai santi e ai defunti e le drammatizzazioni della nascita, passione e morte di Gesù a Natale e nel Venerdì Santo, che interessano e mobilitano tutto il paese.
Ma vi sono anche numerose manifestazioni individuali e domestiche che possono essere valorizzate nella pastorale. Tra le espressioni individuali si possono ricordare: farsi il segno della croce toccando la terra con una mano prima di uscire di casa; l’uso abbondante dell’acqua benedetta come terapia e elemento base per medicine casalinghe contro dolori e malattie varie; recita di speciali formule di preghiera in circostanze determinate; croci piantate sotto casa, specie se è edificata su palafitte e terreni paludosi, o davanti alla porta di ingresso, per scansare calamità reali o supposte, casi di malocchio ecc.
Le espressioni domestiche consistono in altarini, posti in nicchie o appoggiati alle pareti, ricoperti di immagini di santi e madonne, crocifissi e statuette, davanti cui si accendono lumini e si recitano diverse preghiere.
In tutte le espressioni religiose svolge un ruolo importante il canto accompagnato dai tamburi. I canti, come pure le ninne nanne e le poesie, costituiscono un ricco patrimonio culturale degli afroamericani e sono la quintessenza della loro religiosità.
Tutto ciò che è sacro è avvolto nel contempo da un alone di mistero. Ciò introduce l’afroamericano nel mondo del soprannaturale.
«partecipare» o «non partecipare»
Bisogna ammettere che il messaggio evangelico non è ancora riuscito a impregnare adeguatamente il gruppo culturale di origine africana, che possiede ricchissimi valori e conserva «i semi del Verbo» in attesa della Parola di vita. Come per tutta la Chiesa, la religiosità popolare afroamericana ha bisogno di essere rievangelizzata, colmando le lacune lasciate dall’evangelizzazione precedente.
Una di tale lacune è certamente il significato della domenica. Per l’afroamericano essa non rappresenta necessariamente il giorno dell’incontro religioso comunitario. La domenica è semplicemente il giorno del riposo e dello sport. Probabilmente questo dipende dal fatto che i primi missionari non approfondirono a sufficienza il significato religioso della domenica. L’evangelizzazione sottolineò più il mistero della Croce che della Risurrezione. E, forse, l’impossibilità di celebrare la messa per tutti per mancanza di sacerdoti, li indusse a non insistere inutilmente sul precetto domenicale.
Anche oggi, la messa non è considerata di fondamentale importanza presso gli afrocolombiani, forse perché è stata interpretata per troppo tempo come un atto di supplica, una preghiera efficace per comunicare con il mondo dei morti. Non è un caso che l’altare della veglia funebre nella casa del defunto sia una copia dell’altare della chiesa.
La difficoltà di capire i vari aspetti della messa ha provocato una reazione negativa nella gente. Ciò che per essa costituisce una seria difficoltà non è il mistero dell’eucaristia in quanto tale, bensì il fatto che questo, come altri misteri, venga celebrato in modo troppo freddo e formale, totalmente contrario alla sensibilità popolare.
Comprendere o non comprendere non costituisce per gli afroamericani un problema essenziale. Il problema è «partecipare» o «non partecipare». Nessun tipo di culto interessa agli afroamericani se si devono limitare ad ascoltare e a guardare passivamente, se non vi possono partecipare attivamente ed esprimersi liberamente.
Partecipare ed esprimere: è questa una questione fondamentale nell’espressione della loro religiosità. Per questo tra gli afrocolombiani assume tanta importanza la processione, che è un’autentica espressione di fede e di ringraziamento a Dio, il quale, mediante i suoi santi, elargisce vita e salute, clima favorevole e abbondante raccolto.
Vincenzo Pellegrino