Esodo di cristiani
Intervista a padre Artemio Vitores, custode in Terra Santa
I cristiani in Terra Santa sono passati dal 19,4% (nel 1948) all’1,4%
della popolazione. E l’esodo continua. Cosa succederebbe se anche l’ultimo cristiano lasciasse Gerusalemme? Qual è oggi il significato della Custodia dei Luoghi Santi?
Lo abbiamo chiesto al vicario della Custodia in Terra Santa, padre Vitores.
Artemio Vitores Gonzáles è padre francescano, ricopre la carica di Vicario Custodiale e fa parte della più antica istituzione cattolica di Gerusalemme, la Custodia di Terra Santa. Spagnolo, padre Artemio vive a Gerusalemme da più di quarant’anni e insegna alla facoltà di teologia della Città Santa.
Da quando i francescani sono presenti in Palestina? Come nasce la Custodia di Terra Santa?
«San Francesco arrivò in Terra Santa nel 1219. Si mise subito in contatto con i musulmani che controllavano l’area, considerati nemici dai cristiani. Era un periodo difficile, un periodo di guerra. Francesco venne ricevuto dal nipote di Saladino, che regnava sulla Città Santa dopo essere stata conquistata dallo zio nel 1187. Il sultano rimase colpito dal frate che rifiutò i doni in oro e argento e che, al contrario dei crociati, non veniva per far la guerra. Dopo quest’incontro il regnante permise ai frati della corda di rimanere in Terra Santa. L’ordine si stabilì a Gerusalemme dove sarebbe rimasto fino al 1291 quando, dopo la conquista di Akko, la situazione per i cristiani diventò troppo difficile, e furono costretti a lasciare la zona. Ma ben presto i francescani tornarono, questa volta con i crociati e con il beneplacito del re di Aragona e del re di Napoli, e da quel momento iniziò la Custodia di Terra Santa: prima al Santo Sepolcro e al Cenacolo, poi a Betlemme. Dal 1187, quando Saladino conquistò Gerusalemme, al 1555, gli unici cattolici in Terra Santa furono i frati, forse qualche pellegrino, qualche mercante, ma non una comunità».
Quindi la Custodia è quel che rimane delle crociate?
«In occasione della sua visita in Terra Santa, Giovanni Paolo II sintetizzò la presenza francescana con parole simili a queste: “In momenti difficili per la cristianità in Terra Santa, quando i cristiani erano simili a Cristo, cioè portavano una croce, la provvidenza ha voluto che ci fossero i figli di Francesco per interpretare in modo evangelico il loro desiderio di venire a vedere i luoghi fonte della nostra salvezza. I francescani sono venuti qui non come crociati, ma come crocifissi”».
Cosa rappresenta Gerusalemme? Perché da secoli i potenti del mondo se la contendono?
«Gerusalemme è il cuore del mondo cristiano, è il cuore del mondo ebraico e in parte anche di quello musulmano. Una città che attrae tutti. Il cristianesimo si riassume in due luoghi; alle mie spalle il Santo Sepolcro, dove Cristo è morto per i nostri peccati ed è risorto per la nostra salvezza, e un po’ più in là alla mia sinistra il monte Sion, il Cenacolo. Sono, per così dire, i due polmoni del mondo cristiano».
La presenza cristiana nella Città Santa è in diminuzione. È un fenomeno preoccupante?
«Per capire bisogna parlare di cifre. Nel 1948 fu fondato lo Stato d’Israele, in quei giorni i cristiani a Gerusalemme erano tutti palestinesi e rappresentavano il 19,4% della popolazione. Dopo 64 anni l’intera comunità cristiana rappresenta l’1,4% e i cristiani sono divisi in 12-13 gruppi. Se a questa percentuale di residenti si aggiungono i domiciliati stranieri, si può arrivare al 2,5%. Questo però non deve trarre in inganno, in quanto anche io dopo 41 anni devo rinnovare il permesso di soggiorno ogni anno. Vivo con una spada di Damocle sulla testa, in quanto da un anno all’altro possono non rinnovarmi il permesso senza alcuna motivazione. In Italia o in Spagna dopo 5 o 10 anni un lavoratore straniero ottiene la residenza. Gerusalemme deve essere una città aperta, la madre di tutti, non l’amante di uno. Gerusalemme è anche una città cristiana, soprattutto una città cristiana, perché Maometto non è nato qua, né c’è morto o vissuto. Neanche Mosè è mai stato qui, mentre Gesù è morto qui ed è risorto lì di fronte».
Come hanno fatto i francescani a mantenere nei secoli la loro presenza?
«I frati sono riusciti a restare qui seguendo quanto ha detto Gesù nel Vangelo, “siate semplici come colombe e astuti come serpenti”. Per aprire la stamperia che c’è sotto il nostro convento ci sono voluti 15 anni di pressioni dell’impero austro-ungarico nei confronti dei turchi, e anche solo l’ampliamento di una chiesa richiede 50 anni di attesa per ottenere i permessi necessari. Abbiamo aspettato 10 anni il via libera del governo israeliano per la costruzione di alcune abitazioni su un nostro terreno, e dopo ce ne sono voluti altri quattro per ottenee l’abitabilità. Qui anche un santo può perdere la pazienza, ma questo non ci scoraggia. Anche se la mia può sembrare superbia, posso dire che se qui sono passati gli imperi, i frati sono rimasti. Io sono qui da 41 anni e ho conosciuto sei guerre e due intifade».
È immaginabile la Terra Santa senza cristiani?
«Nel 1967 i cristiani a Betlemme erano il 70% della popolazione, oggi non sono che il 12%. Questo vuol dire che se non cambiamo qualcosa la Terra Santa rimarrà senza cristiani. È un’eventualità molto triste, sarebbe un disastro. Paolo VI ci ha ricordato che se sparissero i cristiani, i luoghi santi diventerebbero musei.
I musulmani hanno appoggi politici ed economici, che vengono dagli altri paesi arabi. Gli ebrei hanno l’appoggio politico del governo, senza dimenticare che Israele è lo Stato ebraico, uno Stato confessionale. Mentre noi cristiani non siamo sostenuti che dalle nostre comunità. Le nazioni cattoliche, come l’Italia o la Spagna, non ci aiutano, bensì sostengono i governi israeliano e palestinese. In particolare l’Europa aiuta i palestinesi, ma le istituzioni di Ramllah sono quasi tutte in mano a musulmani. I cristiani in questa terra sono arabi, parlano arabo, ma non sono musulmani, e questo agli occhi di alcuni li fa sembrare traditori, perché rompe l’unità del popolo palestinese».
Nonostante questi dati allarmanti, in Israele non ci sono persecuzioni nei confronti dei cristiani come invece avviene in Egitto.
«Peggio ancora dell’Egitto c’è stato l’Iraq, dal quale, si calcola, sono scappati 1,5 milioni di cristiani. Qui in Palestina dal 1948 sono 350mila i cristiani che sono scappati altrove. Non c’è mai stata persecuzione nel senso radicale del termine. Sono in atto, però, molte persecuzioni “burocratiche” e complicazioni economiche.
Dopo il 2000 la seconda Intifada portò un periodo di grave crisi: per 5 anni non si è visto un pellegrino. A Betlemme, dove il turismo è la prima fonte di occupazione, i palestinesi hanno sofferto una forte recessione, con tassi di disoccupazione superiori al 60%. Per questi la soluzione era venire in Israele per lavorare, ma il muro ha toccato ancora più profondamente la comunità locale. Se prima della costruzione del muro si poteva circolare con facilità, ora i permessi sono difficili da ottenere e possono essere revocati in qualsiasi momento. La scelta di lasciare questa terra è stata obbligata per molti cristiani».
Come si può arginare questa diaspora cristiana dalla Terra Santa?
«Bisogna creare e sostenere la comunità, per noi frati la priorità è fornire ai cattolici un lavoro. I francescani hanno agito secondo l’idea che non bisogna dare il pesce al bisognoso, ma insegnargli a pescare. Quindi da decenni la comunità ha imparato a fare i souvenir di legno di ulivo o di madreperla, e iniziammo a esportarli verso l’Europa e l’America. Ma non basta riempire la pancia, bisogna pensare anche alla testa, quindi i francescani hanno istituito le scuole. Per quattro secoli i Turchi hanno dominato la Terra Santa e l’hanno fatto partendo dal principio secondo cui mantenere i popoli nell’ignoranza rende possibile dominarli.
Un problema importante rimane quello abitativo. Secondo la legge islamica, e questo vale anche per gli ebrei, quando un paese è conquistato dall’Islam è terra musulmana: non può essere abitato se non dai musulmani. Se noi apriamo la Bibbia, Jahvé dice a Israele: “Questa è la terra promessa, caccia via tutti gli altri, essa è soltanto per voi”. I cristiani si trovano quindi tra due fuochi. Nei secoli i frati hanno cercato di aggirare queste limitazioni, ad esempio acquistando casa per tramite di un amico musulmano, col pagamento di un sovrapprezzo».
Questa situazione è la conseguenza solo di un problema interreligioso?
«È un problema politico, quindi un problema reale: qual è la capitale dello stato israeliano? È Gerusalemme, su questo non si discute. Poco tempo fa alle Nazioni Unite si discuteva di fare uno Stato Palestinese, e quale sarebbe stata la capitale? Gerusalemme. Per decidere chi ha diritto ad avere la capitale a Gerusalemme si considerano il numero di case e quindi delle famiglie. Siamo qui in circa 750mila abitanti, dei quali 520mila sono ebrei, 220mila sono musulmani e 12mila cristiani. Quindi gli ebrei dicono che a loro spetta la capitale, perché hanno il maggior numero di case e se non fossero abbastanza potrebbero costruie altre da un giorno all’altro. La stessa rivendicazione è avanzata dai musulmani, che riconoscono Gerusalemme come incedibile in quanto città santa dell’Islam.
Poco tempo fa abbiamo seppellito un nostro confratello, Fra Ovidio, e durante il corteo funebre siamo stati fermati da un israeliano ebreo, che si è lamentato della nostra celebrazione. Ha usato due argomenti contro di noi; nessun non ebreo può essere seppellito a Gerusalemme e non avremmo dovuto portare la croce. Ma non pensate che questi siano atteggiamenti nuovi: al tempo dei turchi quando moriva un frate bisognava pagare per fargli il funerale, e sul permesso c’era scritto che si poteva dare sepoltura a un “buon cane”».
Cosimo Caridi