Al cospetto di Al Shabaab

Somalia: 21 anni di guerra

In un contesto di anarchia e assenza di istituzioni le Corti islamiche cercano di gestire la giustizia. I«Signori della guerra» le contrastano. Gli Usa promuovono l’invasione della Somalia da parte dell’Etiopia. Il movimento Al Sahabaab reagisce. Ideologicamente vicino ad Al Qaeda, ne dichiara l’affiliazione. Ma oggi perde terreno…

I media li chiamano i «talebani del Coo d’Africa». E, in effetti, con i miliziani afghani hanno molto in comune: la fede incrollabile in un islam radicale, la forza militare, i legami con il network di Al Qaeda, un certo sostegno della popolazione. Come i loro cugini afghani sembrano nati dal nulla e, per lungo tempo, sono parsi invincibili. Le milizie Al Shabaab, oggi messe alla corda da un’avanzata delle truppe governative supportate dagli eserciti di Kenya ed Etiopia e dal contingente dell’Unione africana, sono indubbiamente stati i protagonisti della scena somala negli ultimi sette-otto anni. Ma chi sono, quale modello di islam professano? E chi li sostiene?
LE ORIGINI
Non esiste una data di nascita ufficiale del movimento Al Shabaab. Molti analisti concordano però sul fatto che il primo nucleo sorge, intorno al 2004, all’ombra delle «Corti islamiche». Le Corti islamiche sono un fenomeno piuttosto complesso. Nascono nella seconda metà degli anni Novanta rette da autorità religiose e sostenute economicamente da uomini d’affari. L’obiettivo che si pongono è di amministrare la giustizia dando sicurezza al popolo e all’economia di Mogadiscio, in un contesto come quello somalo caratterizzato dall’anarchia e dalla totale assenza di istituzioni politiche e giudiziarie. Le Corti islamiche nascono però a macchia di leopardo sul territorio e solo nel 2005 si trasformano in un movimento unitario con una struttura simile a quella di un movimento politico. Quelli sono mesi molto difficili per la Somalia. Nelle regioni centro meridionali una coalizione di «Signori della guerra» (i capi delle milizie claniche somale), finanziati dagli Stati Uniti, dopo 16 anni di guerra tra loro, iniziano a combattere l’integralismo religioso islamico. Uccidono autorità religiose e persone legate all’islam, ma ne approfittano anche per regolare i conti tra di loro. Ne scaturisce una guerra senza quartiere e devastante, soprattutto per la popolazione civile. Per riportare l’ordine, le Corti islamiche organizzano proprie milizie e attaccano i Signori della guerra, sconfiggendoli.
A livello internazionale (e in particolare negli Stati Uniti) le Corti islamiche vengono però viste come l’avanguardia di Al Qaeda. Gli Stati Uniti, memori degli insuccessi del 1992, non osano intervenire militarmente ma, allo stesso tempo, non possono tollerare la creazione di possibili basi logistiche per il terrorismo islamico nel Coo d’Africa. Decidono così di finanziare l’intervento dell’Etiopia, fedele alleato di Washington e preoccupata anch’essa dell’instabilità somala.
Nel 2006 scatta l’offensiva etiope in Somalia. L’avanzata delle truppe di Addis Abeba travolge le Corti islamiche. Le milizie si disgregano e i leader fuggono all’estero. Chi rimane sul campo è il movimento Al Shabaab. Sono un piccolo gruppo (all’origine non più di 300 uomini) che rappresenta l’ala più militante delle Corti. I giovani combattenti non solo fanno dell’essere rimasti sul campo a combattere gli etiopi un grande argomento di mobilitazione popolare, ma riescono, in qualche modo, a prendere le fila della resistenza.
Il background di questi ragazzi non è religioso. Certo, frequentano le moschee, ma la loro formazione è più che altro militare (e come potrebbe essere altrimenti in un paese che da anni conosce solo la guerra e l’anarchia?). Sono ben addestrati, ben armati e molto determinati. Sarà l’atteggiamento della comunità internazionale, che ha sempre privilegiato lo scontro al dialogo, l’intransigenza al confronto, a far maturare in loro l’integralismo religioso. Con il tempo infatti abbracciano in modo sempre più convinto l’islam salafita. Quell’islam caratterizzato da una rigidità dottrinale e che propugna la «guerra santa», jihad, contro gli infedeli (non solo i cristiani, ma anche i musulmani sufi che sostengono una versione più dialogante dell’islam).
Nel gennaio 2009, con il ritiro delle truppe etiopi, si crea però un vuoto perché le forze armate di Addis Abeba non vengono sostituite con quelle del governo di transizione. I miliziani di Al Shabaab tornano così all’attacco e occupano le principali città del Centro Sud. Nei territori controllati creano vere e proprie amministrazioni locali e impongono la legge islamica, la sharia.
Nuovi attori
Nell’autunno 2011 scatta però una nuova offensiva anti shabaab. Le truppe del contingente Amisom (la missione dell’Unione africana in Somalia) e delle forze armate keniane ed etiopi attaccano le roccaforti del movimento e ne mettono in fuga i miliziani. Affrontare un’offensiva da più fronti non è semplice per un’organizzazione, tutto sommato ristretta, come quello degli Al Shabaab. Non solo, ma nel frattempo gli integralisti hanno perso gran parte del consenso popolare e a Mogadiscio le istituzioni si rafforzano (tanto che il 10 settembre Hassan Sheikh Mohamoud viene eletto presidente somalo, il primo dopo 21 anni di anarchia). «La loro popolarità – spiega Mario Raffaelli, presidente di Amref ed ex inviato speciale per il Coo d’Africa dei governi italiani – è iniziata a scemare lo scorso anno quando, durante la grande siccità che ha colpito il paese, i leader del movimento hanno impedito l’arrivo di aiuti alla popolazione da parte delle Nazioni Unite e delle Ong inteazionali. Detto questo va però aggiunto che i miliziani di Al Shabaab sono una galassia composita che ha ancora una forza militare di tutto rispetto e, molto probabilmente, continueranno a combattere, anche se con strategie diverse. Invece che su scontri in campo aperto, si concentreranno sugli attentati con le bombe o sugli assassinii mirati. Già oggi Mogadiscio di giorno è tranquilla, ma di notte è infrequentabile».
Movimento «glocal»
«Secondo gli esperti occidentali – osserva Matteo Guglielmo, analista di Limes -, il movimento avrebbe due anime: quella più legata alla rete di Al Qaeda, che ha quindi interessi più inteazionali o transnazionali (mujhiruun, gli esiliati), e quella più legata al territorio (al Ansar). Questa divisione, secondo alcuni, sarebbe una sorta di spaccatura insanabile. In realtà, credo che pur esistendo due anime, dobbiamo riferirci a esse non come a due componenti in lotta, ma come a due correnti che convivono all’interno dello stesso movimento con una loro dialettica. Dire che ci sarà una spaccatura all’interno di Al Shabaab, mi sembra esagerato». I rapporti con Al Qaeda comunque ci sono e sono ben radicati. Al Shabaab non fa mistero di rifarsi ideologicamente proprio al movimento di Osama bin Laden. Alcuni personaggi del gruppo somalo, come Fasul che è stato ucciso di recente, hanno avuto contatti frequenti e intensi con la rete del fondamentalismo islamico. Ciò non significa che i somali prendano ordini dal network fondamentalista o da esso in qualche modo dipendano. Semmai è Al Qaeda che, per condurre la sua battaglia, ha bisogno di stringere rapporti stretti con gruppi come quello degli Al Shabaab che sono più legati al territorio. «Al Shabaab – spiega Lorenzo Vidino, esperto di islamismo del Politecnico di Zurigo – opera sul territorio in modo non diverso da movimenti quali Boko Haram in Nigeria, Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico) e Ansar Dine in Mali (vedi altri articoli del dossier, ndr). Questi gruppi sono simili dal punto di vista ideologico: tutti condividono una visione jihadista dell’islam. Ognuno di essi ha però una propria storia, basata su circostanze locali e una propria leadership. Al Shabaab, per esempio, combatte in Somalia contro etiopi (per il momento le truppe di Addis Abeba hanno confermato la loro presenza anche dopo la morte, avvenuta il 20 agosto, del premier Meles Zenawi), Amisom ed esercito governativo, ma collega questa lotta a quella globale per l’affermazione dell’islam. Lotta nella quale Al Qaeda rappresenta, a loro dire, l’unico difensore globale dei musulmani contro l’attacco dell’Occidente e degli infedeli. È questo il legame profondo che li unisce alla rete di bin Laden».
Non solo islam
L’ideale islamico non è però l’unico collante che tiene insieme Al Qaeda e Al Shabaab. Dominando alcune zone della Somalia, Al Shabaab ne controlla anche le risorse. L’affiliazione quindi è utile ad Al Qaeda anche per ottenere mezzi economici per le iniziative a livello internazionale.
Ma da dove provengono queste risorse? Una parte consistente delle entrate dei miliziani arriva dallo sfruttamento del porto di Chisimaio. Un hub importantissimo che viene utilizzato soprattutto per l’esportazione del carbone. Quel carbone che è uno dei più grandi business della Somalia ed è prodotto disboscando le regioni meridionali, con un fortissimo impatto ambientale. «Molti fondi – sottolinea Matteo Guglielmo – arrivano anche dalla diaspora somala.
La diaspora li finanzia non tanto perché intende sostenere un movimento fondamentalista islamico, ma piuttosto perché le rimesse passano attraverso società che sono sostenute dai clan. Se il clan appoggia Al Shabaab, allora parte dei soldi delle rimesse andrà a finire al movimento islamico. La Somalia è il paese che al mondo riceve più rimesse, ciò significa che ad Al Shabaab arrivano risorse continue e consistenti per finanziare le proprie attività».
Il rapporto di Al Shabaab con i clan è però controverso. Ufficialmente negano e condannano la struttura clanica tipica della Somalia e sostengono di essere un movimento sovraclanico. «Tuttavia – continua Guglielmo – sono molto bravi a manipolare i clan cioè a servirsene per gestire il potere. Da sempre Al Shabaab arma e rinforza i clan più deboli. Così si radica sul territorio e, allo stesso tempo, tiene sotto controllo i clan maggiori che possono rappresentare un rischio. Quindi se ufficialmente nega i clan, da un punto di vista pragmatico li utilizza.
È anche questa la forza di Al Shabaab. Ed è anche per questo motivo che non può essere considerato un movimento “importato”, ma un’organizzazione profondamente somala».
A livello internazionale è invece difficile risalire ai finanziatori del movimento. Nessun Paese ufficialmente sostiene Al Shabaab. I paesi del Golfo però sono da sempre vicini ai movimenti che si ispirano all’islam di matrice wahabita e salafita. Quello stesso islam professato da Al Shabaab. È quindi probabile che finanziamenti arrivino dalla Penisola araba. Non tanto però dai governi, quanto dalle fondazioni del Golfo che, dagli anni Novanta, operano in Somalia nei settori sanitario, educativo, religioso.
Finanziamenti che continueranno ad affluire anche in futuro. Garantendo ad Al Shabaab quei flussi economici indispensabili a continuare la sua battaglia.

Enrico Casale

Enrico Casale