A ognuno la sua sfida
Intervista a padre Francesco Beardi
A distanza di 35 anni, padre Francesco Beardi è tornato in Tanzania un anno e mezzo fa; dopo una breve esperienza pastorale è stato chiamato a lavorare nel Centro di Animazione missionaria di Bunju (Dar Es Salaam) e a dirigere la rivista in swahili Enendeni (Andate), un lavoro in cui è maestro e in una posizione privilegiata per osservare le sfide della società e della chiesa in Tanzania.
Che cosa hai provato tornando in Tanzania? Cosa ti ha sorpreso di più?
Risiedo in Tanzania da 15 mesi: troppo poco per esprimere giudizi e fare bilanci. Pertanto le mie considerazioni sono impressioni. Quanto scrivo oggi, domani potrebbe essere diverso, senza escludere che possa aver preso qualche grosso granchio…
Sono ritornato in Tanzania dopo 35 anni di assenza. Lasciai il paese nel 1976 e vi rimisi piede nel 2011. La mia prima presenza durò dal 1973 al 1976.
Sapevo che il reinserimento in Tanzania sarebbe stato complesso. Così è stato e così è: a cominciare dalla lingua swahili, che si è arricchita di tanti e nuovi vocaboli. Fra questi, changamoto (sfida). Per me tutto è «changamoto» a 360 gradi, perché il tanzaniano pensa, parla e agisce a «modo suo», in modo… sorprendente.
La prima sorpresa sono proprio i tanzaniani, oggi circa 44 milioni, mentre nel 1976 erano 14 milioni. Con loro ho la possibilità di «rinascere», passando però attraverso «le doglie del parto» dell’incontro-scontro culturale.
Sorprendente è il numero dei loro giornali quotidiani. Negli anni ‘70 erano due, oggi una ventina. Ma molto più sorprendente è qualche voce critica della stampa. «Ci siamo stufati della propaganda dei politici che non vogliono il cambiamento» titolava, il 23 marzo 2011, il quotidiano Mwananchi. The Citizen, il 12 dicembre 2011, stigmatizzava: 32 milioni di euro sono «sfumati» nella celebrazione del cinquantesimo dell’indipendenza della Tanzania (1961-2011). Le sorprese continuano: ad esempio, la pubblica denuncia di incesto subito da una figlia da parte del padre (programma radiofonico del 23-24 febbraio 2011). «Ai miei tempi» fatti del genere venivano sepolti nell’omertà generale.
Omertà che avvolge ancora l’aids. L’uomo della strada non ne parla. Qualcuno, incalzato da eventi tragici, incomincia ad alludervi come «malattia di questi giorni». La stampa si sofferma sulla vicenda di qualche sieropositivo, senza tuttavia raccontare come si contrae il virus. Però qualcuno incomincia a dire: «Sconfiggeremo l’aids se muteremo i nostri costumi sessuali».
Ricordo, infine, la nozione di «ovvio». Ciò che per me è «ovvio» non sempre lo è, e nella stessa misura, per il tanzaniano. L’«ovvio tanzaniano» è changamoto!
Come vedi il futuro della Tanzania?
Pensando al futuro, non bisogna avere fretta né, tanto meno, invocare colpi di bacchetta magica di fronte ai mali che affliggono la società tanzaniana. Ciò vale per tutti i paesi in ogni angolo del mondo. Chi può dire che la crisi economica italiana e mondiale finirà domani o dopo domani?
Personalmente scommetto nel futuro positivo della Tanzania. La buona volontà c’è; le risorse pure: gas naturale, ferro, oro, pietre preziose, uranio. Grandi le possibilità nel settore turistico. Per non parlare della risorsa di sempre: l’agricoltura, anche se in balia della pioggia. Però la ricchezza delle ricchezze sono i 44 milioni di tanzaniani e tanzaniane (soprattutto). Moltissimi sono giovani, che studiano.
Recita un proverbio swahili: elimu ni mali (la conoscenza è un capitale). Non basta il canto, il tamburo, la danza. Bisogna leggere, pensare, capire, scrivere e «formarsi»: soprattutto alla stregua del Vangelo. Carestie, guerre e aids sono emergenze crudeli. La «formazione» è prevenzione e cura di ogni miseria. Anche della «stregoneria».
Della stregoneria che dici?
Qual è il flagello dell’Africa subsahariana? La povertà generalizzata o la ricorrente siccità? La corruzione politica o la mancanza di progettazione? Oppure l’aids? «L’aids» sembrerebbe la risposta più immediata e pertinente oggi. Invece no. La grande calamità dell’Africa (e della Tanzania) è la stregoneria. Oggi come ieri. Lo sostiene Gabriel Ruhumbika, scrittore tanzaniano in Janga sugu la wazawa (La piaga contagiosa degli indigeni), un romanzo in swahili sulla stregoneria nella Tanzania contemporaneo e nella società africana in generale (vedi pag. 24). Il fenomeno non riguarda solo la gente comune, i disperati che voglio allontanare dalla loro vita il malocchio e la sfortuna; ma a consultare gli stregoni sono gente istruita, persone responsabili del mondo politico e finaziario, e perfino preti e suore, in cerca di un futuro migliore, di prestigio e ricchezza.
Il libro di Ruhumbika è stato scelto dal ministro dell’Educazione in Tanzania come testo di letteratura swahili per la scuola secondaria: speriamo che, oltre a insegnare la lingua nazionale, contribuisca a sconfiggere questo fenomeno irrazionale, ma molto radicato nella cultura africana. Ma ci vuole pazienza e costanza, anche da parte della Chiesa.
Come si sta muovendo la Chiesa locale?
La Chiesa gode di prestigio e di autorevolezza. Però preti e vescovi sono troppo assillati dal problema «soldi» per le loro attività. Le collette di denaro diventano sempre più frequenti: anche tre in una sola messa. I cattolici capiscono e rispondono bene, ma incominciano a essere stanchi, perché la vita è costosa, dato il costante aumento del prezzo dei generi alimentari.
Pure le feste religiose (ordinazioni di sacerdoti, consacrazioni di vescovi, giubilei, ecc.) sono esageratamente dispendiose. Non mancano i fedeli che si indebitano per partecipare a una celebrazione. Tuttavia c’è un aspetto positivo: di fronte a un’iniziativa della comunità, i cattolici non si tirano indietro, perché sanno che «la chiesa siamo noi».
In genere i messaggi dell’episcopato cattolico sono incisivi anche politicamente. Nel presente dibattito per la nuova costituzione politica, i vescovi ammoniscono: «Alcuni leaders politici, invece di impegnarsi a scrivere una costituzione che difenda i beni e i diritti di tutti, specialmente dei bisognosi, cercano di tutelare solo il loro interesse; inoltre, introducono nella nuova costituzione idee contrarie al piano di Dio».
Cosa ne pensano il cardinale Pengo e padre Massawe?
Attento e critico verso le forze politiche è, soprattutto, il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam. Nel 2011, in occasione del cinquantenario di indipendenza del paese, dichiarò: «Durante questi 50 anni abbiamo ottenuto numerosi successi. Ora dobbiamo far sì che, quando celebreremo i 100 anni, non si dica: “Era meglio al tempo dei colonialisti!”. Oggi la nazione conta gruppi di traditori, egoisti, vanagloriosi, pronti anche a uccidere chi si oppone ai loro progetti» (cfr. Mwananchi 14-8-2011; MC. maggio 2012).
A proposito del cinquantenario, non meno forte è padre Lello Massawe, superiore dei missionari della Consolata in Tanzania, che dichiara: «In questi giorni, prima della festa dei 50 anni, sentiamo ripetere dalla radio e dalla televisione: “Abbiamo avuto coraggio, siamo capaci, andiamo avanti”. Sono parole frutto di una politica sporca. Io non vedo alcuna verità in esse. Abbiamo avuto il coraggio di far che cosa? Abbiamo avuto il coraggio di mungere la gente, abbiamo avuto il coraggio di rubare ai poveri più di quanto abbiamo loro dato per aiutarli ad uscire dalla povertà» (cfr. la rivista Enendeni, dicembre 2011).
Il rapporto con gli altri cristiani: luterani, anglicani, «salvati» (walokole)…
È un tema molto significativo per noi missionari. Cito ancora il cardinale Pengo, da me intervistato. Il presule ritiene che il rapporto fra cattolici, luterani e anglicani sia buono. Ad esempio, le «tre Chiese», nell’università di Dar Es Salaam, pregano nella stessa chiesa, come pure condividono la cappella dell’ospedale Muhimbili, sempre a Dar. Ma con il gruppo dei «salvati» (walokole) il discorso cambia: costoro vanno a caccia di fedeli dappertutto, da una chiesa all’altra, ingannando le persone. «Meglio il rapporto con i musulmani, perché sappiamo come sono».
Parliamo, allora, dei musulmani…
Molti musulmani rivendicano dallo stato la costituzione del «tribunale islamico» secondo la legge coranica. Però il presidente Jakaya Kikwestern, musulmano, ha risposto: «Se volete questo tribunale, costituitevelo voi stessi. Lo stato non può intervenire nei problemi religiosi delle varie religioni». Però tanti musulmani non accettano questa posizione e ritornano alla carica nello stesso parlamento.
Ciò che maggiormente preoccupa, secondo il cardinale Pengo, è il disprezzo verso i cristiani. Alcuni musulmani insultano i cattolici apertamente, anche di fronte alle forze dell’ordine, che fingono di non sentire. I cattolici, pro bono pacis, sopportano tutto in silenzio senza reagire. Fino a quando?
Che cosa fai a Bunju?
A Bunju opero nel Consolata Mission Centre, a metà strada tra Dar Es Salaam e Bagamoyo, con altri tre confratelli.
Il Centro viene additato come un faro che illumina presente e futuro, tutto e tutti. E veramente tutti ne usufruiscono: uomini e donne a livello personale o in movimenti, professori e studenti, catechisti e seminaristi, vescovi e preti. Tante le suore. Tantissimi i giovani, con prezzi scontati. La luce che il faro sprigiona è pure ecumenica, giacché il Centro ha aperto i cancelli anche a non cattolici: ai luterani, per esempio. Non mancano ambientalisti né leaders politici, tra cui musulmani.
Dopo una complessa gestazione, nel 2008 i missionari della Consolata diedero alla luce il Consolata Mission Centre: per pregare, pensare e cambiare. È un Centro che parla all’intera Tanzania, con la «missione» sempre protagonista.
Il Centro ospita pure la redazione della rivista Enendeni (Andate), di cui sono direttore. È modesta nella veste tipografica, ma si impegna ad essere propositiva nei contenuti, specialmente in tema di formazione evangelica, di giustizia e pace. L’editoriale di marzo scorso recita: «Se manchi di giustizia verso l’altro, le tue preghiere, i tuoi digiuni e le tue offerte della quaresima sono ipocrisia…».
È, però, paradossale che un mzungu (straniero), dallo swahili quasi indecente, diriga una rivista in tale lingua… Ancora una volta sono di fronte a un changamoto, una sfida: rinascere in Tanzania a quasi 70 anni, con i capelli bianchi e la schiena già incurvata dalle intemperie della vita.
Tuttavia ringrazio la Madonna Consolata.
Romina Remigio