3. Francesco Saverio

4 chiacchiere con…

Avere di fronte Francisco Xavier, meglio conosciuto da noi come San Francesco Saverio, significa trovarsi davanti al più missionario degli uomini intrepidi e al più intrepido dei missionari di tutti i tempi. Del resto la sua storia personale rimane forse la parabola luminosa più incisiva degli annunciatori del Vangelo. Iniziamo il nostro colloquio con lui.

Come nasce la tua vocazione missionaria?
Inizio col dire che sono un discendente di una nobile casata della città di Xavier, nella provincia di Navarra, ridotta alla miseria per la confisca di tutti i beni a opera di Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, dopo la vittoria conseguita sugli abitanti della zona che volevano una loro autonomia contando sull’aiuto della Francia. Dopo questa catastrofe per sfuggire a un futuro incerto mi rifugiai in Francia, iscrivendomi alla facoltà di teologia della prestigiosa Università della Sorbona di Parigi. Lì incontrai Iñigo de Loiola o come dite voi italiani: Ignazio di Loyola, il quale dopo essere stato ferito in battaglia, passò tre lunghi mesi immobile a letto, durante i quali leggendo diversi testi spirituali e in modo particolare il Vangelo, decise di cambiar vita. Anch’egli però desiderava accrescere la sua cultura, in quanto vivevamo tempi contrassegnati da conflitti religiosi che andavano acuendosi ogni giorno di più. Fui letteralmente conquistato dal modo di fare d’Ignazio; la sua fama di uomo d’arme convertito in discepolo mansueto di Cristo e, allo stesso tempo, il suo desiderio di combattere con le armi della ragione e dell’intelligenza gli eretici del tempo, mi attirarono sempre più nella sua orbita e con me altri giovani che sentivano il bisogno di rinnovare la Chiesa rinnovando se stessi.

Mi sembra un ottimo programma, soprattutto perché oggi molti desiderano cambiare la Chiesa senza mettersi minimamente in discussione, che avvenne dopo?
Mi tremano i polsi al solo pensarci: il 15 agosto del 1534, Ignazio, io e altri cinque giovani andammo nella chiesa di Saint Pierre di Montmartre dove ci impegnammo a vivere in povertà e castità, fondando così la Società di Gesù, in quanto volevamo essere pellegrini in Terra Santa o nel caso ciò non fosse stato possibile metterci a completa disposizione del papa.

Erano nati i Gesuiti se capisco bene.
Certo! Ignazio optò per il termine Società di Gesù in quanto due grandi santi che lo avevano preceduto, san Domenico e san Francesco, avevano dato origine a due ordini religiosi che presero il nome dei loro fondatori, Domenicani e Francescani per l’appunto. Ignazio non voleva che la nostra Compagnia fosse segnata dal suo nome, voleva che tutto riconducesse a Gesù Cristo nostro Salvatore. 

E com’è che sei finito in India, nelle Molucche, in Giappone e per un pelo non hai messo piede in Cina?
Le cose andarono così: nel 1540, Giovanni III re del Portogallo, chiese al papa, che in quel tempo era Paolo III, di inviare dei missionari per evangelizzare i popoli delle nuove colonie che i portoghesi avevano appena conquistato nelle Indie Orientali. Il Papa indicò la Compagnia di Gesù a cui affidare questo compito e sant’Ignazio scelse me come responsabile dell’attività missionaria nei nuovi territori.

Il viaggio deve essere stato lungo e faticoso immagino.
Non me ne parlare! Adesso prendete un aereo e dopo qualche ora sbarcate in qualsiasi capitale del mondo, ma a quel tempo i viaggi erano tutti via mare, con navi sospinte dal vento, io partii da Lisbona nella primavera del 1541 e arrivai a Goa in India nel maggio dell’anno successivo.

Come fu l’impatto con la realtà asiatica?
Per certi versi traumatico: a Goa vidi i portoghesi che pensavano solo a fare affari e ad arricchirsi, poco interessati all’annuncio del Vangelo. Dovetti pertanto richiamare i portoghesi a un atteggiamento più consono al messaggio cristiano e allo stesso tempo iniziai a dedicarmi ai derelitti e ai poveri che vivevano in quella città. Dopo qualche anno mi trasferii alle Molucche, dove i portoghesi avevano impiantato delle colonie e anche lì rimasi due anni.

Che traguardi raggiungesti?
Intanto cominciai a testimoniare con i miei compagni l’amore di Dio verso tutti gli uomini, a qualunque razza, lingua e popolo essi appartenessero. Venni a contatto con persone provenienti da altri paesi e mi resi conto che Goa doveva essere un trampolino di lancio verso nuovi orizzonti.

Con la lingua come te la cavavi?
Male purtroppo! Iberico di nascita parlavo sia lo spagnolo che il portoghese, essendo vissuto in Francia parlavo anche il francese e avendo fatto gli studi in latino lo conoscevo alla perfezione, me la cavavo discretamente anche con l’italiano, ma come puoi ben capire erano tutte lingue neolatine. Per parlare con la gente del posto avevo sempre bisogno di un interprete; in una città di mare non è difficile trovare al porto persone che parlano diverse lingue: lì incontrai anche alcuni giapponesi che affascinati dal messaggio evangelico mi proposero di andare ad annunciare la Buona Notizia nel loro paese, il paese del Sol Levante.
 
Quindi decidesti di partire per il Giappone. E là cosa successe?
L’incontro con la realtà nipponica modificò radicalmente il mio modo di evangelizzare: incontrai un popolo nobile e fiero e capii che Dio ci aveva già preceduti con l’azione dello Spirito. Approdato a Nagasaki, chiesi di incontrare lo Shogun, e per mostrargli in tutta povertà lo spirito del Vangelo, decisi di andare a Kyoto in veste povera e dimessa, ma non venni ricevuto. Imparai la lezione e, indossando quanto di più raffinato mi ero portato dall’Europa, chiesi di incontrare l’influente principe di Yamaguchi. Questa volta venni accolto cordialmente e ottenni il permesso di risiedere e di annunciare il Vangelo in quella città.
Ci furono conversioni?
Sì. La gente era colpita da questo Dio che poteva chiamare Padre, pieno di tenerezza verso l’umanità peccatrice, un Dio che desidera salvare gli uomini più che condannarli; negli anni che passai a Nagasaki diverse persone chiesero di essere battezzate. Feci ogni sforzo per far crescere la piccola comunità cristiana che si era formata e offrire loro un’istruzione catechistica che potesse incidere nella loro vita.

Come mai dal Giappone decidesti di partire per la Cina?
Per i Giapponesi, i Cinesi erano i maestri indiscussi di ogni scibile. Dato che i bonzi si opponevano sempre alla mia predicazione, dicendo che se la religione cristiana fosse stata vera, i cinesi l’avrebbero già conosciuta, decisi di andare in Cina per iniziare l’opera di evangelizzazione.

Però in Cina non ci sei arrivato
No! Dopo anni di intenso apostolato, di lunghi viaggi via mare, di fatiche inenarrabili, consumato anche da malattie contratte in quel periodo, ero molto debilitato, ma non per questo rassegnato a non arrivare in Cina. Riuscii ad avere un passaggio su una nave diretta a Canton, giunto però all’isola di Sancian capii che era arrivata la mia ora. Difatti lì si concluse il mio impegno missionario; negli occhi avevo l’immagine del paese a cui più di ogni altro desideravo accedere. Il mio desiderio di portare in Cina il Vangelo fu però raccolto da altri miei confratelli, tra cui il vostro Matteo Ricci, i quali qualche tempo dopo riuscirono a installarsi alla corte imperiale di Pechino, ponendo così le basi per un’azione di evangelizzazione di cui oggi vediamo spuntare i germogli.

I tempi del Signore non seguono le nostre stagioni, vero?

I suoi frutti però arrivano sempre a maturazione.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera

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