(Cana 37) Cana di Galilea e i luoghi del cuore innamorato

«Mio Signore e mio Dio!»
(Gv 20,28) Gv 2,11: «Mentre faceva questo principio dei segni Gesù in
Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e credettero in lui i suoi
discepoli» (Tàutēn
epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs
en Kanà tês Galilàias kài ephanèrōsen
tên dòxan autoû kài epìsteusan eis autòn hoi mathētài
autoû
).

Tecnicamente, Gv 2,11 conclude il racconto del «segno di
Cana», anzi del «principio dei segni in Cana della Galilea», il racconto delle
nozze dove i personaggi svolgono ruoli che hanno significati «altri», rispetto
a una lettura superficiale. Manca la sposa, mentre lo sposo appare solo per
essere rimproverato; assume una funzione importante, anche se negativa,
l’architriclino che pur partecipando a una occasione unica (kairòs), non è in
grado, come spesso accade all’autorità ufficiale, di cogliere la portata
profetica e cristologica dell’evento: è presente «fisicamente» alle nozze, ma
il suo cuore è distratto dalla differenza superficiale tra i «due vini». Con
questo versetto redazionale, prima conclusione del narratore, veniamo a sapere
qual è stato lo scopo del racconto, perché è l’autore stesso che ce lo comunica
affinché possiamo custodirlo come un momento importante.

Il testo difficile

Dal punto di vista della critica testuale, cioè della ricostruzione
del testo greco attraverso i papiri e gli altri manoscritti più antichi, il
versetto ha tre varianti importanti: il testo che noi riportiamo è attestato
dalla maggioranza dei manoscritti sia maggiori che minori. Considerata la
natura divulgativa del nostro studio tralasciamo le due varianti che hanno un
cambiamento di posizione tra le prime due parole (prima variante) e la
sostituzione di un aggettivo con un altro (seconda variante) che ci
porterebbero a considerazioni troppo tecniche per chi non è attrezzato
scientificamente. Ci limitiamo a dire che le due varianti, anche se la seconda
è molto antica, sono «miglioramenti stilistici» e quindi cercano di
«aggiustare» il testo.

Noi scegliamo, secondo la migliore regola esegetica, il
testo più difficile, certamente più vicino all’originale. Per capire il senso
di questo versetto, che, a nostro parere, è il più importante di tutto il
brano, bisogna soffermarsi sulle singole parole, dove sono collocate, e,
infine, sul loro significato nel contesto di tutto il vangelo di Giovanni prima
e di tutta la Bibbia in secondo luogo.

Abbiamo già anticipato che il versetto è di mano del
redattore finale, che così rivela il suo pensiero sul significato di quanto
precede: solo ora veniamo a sapere che nel racconto di Cana vi è un concentrato
fantastico di teologia giovannea. In questo versetto, infatti, troviamo cinque
parole che esprimono cinque temi che attraversano tutto il vangelo di Giovanni,
costituendone la spina dorsale: «Principio (richiama l’archètipo)/segno-segni/manifestare/gloria/credere».

Centellinare la Parola respirandola

Chi pensava di leggere un racconto edificante, arrivato al
versetto 11 deve ricredersi e ricominciare daccapo, centellinando parola per
parola, respiro per respiro. Normalmente le traduzioni vanno per le spicce,
come la Bibbia-Cei (1974): «Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di
Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui»; la
nuova edizione (2008) cerca di aggiustare, ma senza osare troppo: «Questo, a
Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua
gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Si vede dietro la fatica di fare
concordare il testo greco con un significato accessibile a prima vista, ma non
sempre è possibile. Tentativi lodevoli, ma insufficienti.

La Bibbia-Cei (2008) aggiunge anche una nota al versetto per
spiegare ulteriormente che: «Questo… fu l’inizio dei segni: non solo il primo
dei segni, ma il modello di tutti (questo è il significato della parola greca
tradotta con inizio). Difatti il miracolo di Cana ha rivelato la divinità (gloria)
di Gesù e ha aperto ai suoi discepoli il significato delle opere prodigiose
(che Giovanni preferisce chiamare segni)».

Tutte le traduzioni, anche in altre lingue, che qui
risparmiamo, si fermano alla grammatica tradizionale greca secondo la quale il
primo verbo, «epòiēsen –
fece», essendo un tempo aoristo, deve tradursi con il passato remoto o in
alcuni casi anche con il passato prossimo.

Verbi e traduzioni «diaconi» della Parola

Le versioni Cei rendono «fece» con «fu» e «diede», sempre al
tempo aoristo/passato remoto, esattamente come gli altri due verbi: «ephanèrēsen-manifestò» (Gesù) ed «epìsteusan-credettero»
(i discepoli). Noi invece pensiamo che sia meglio applicare la linguistica
testuale che guarda la funzione dei verbi (la parte più importante in un
testo), scopriamo allora che il loro significato dipende dal posto in cui essi
sono collocati e quindi bisogna valutare di volta in volta. Nel nostro caso,
vediamo che «epòiēsen –
fece», il primo aoristo, è preceduto da un pronome dimostrativo «tàutēn – questa», il quale a sua
volta è riferito a «archên – principio» che in greco è femminile: «Tàutēn epòiēsen archên».

Abbiamo quindi la seguente costruzione greca: «Tàutēn epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs» che tradotta, fuori dal contesto, in se
stessa, alla lettera e mantenendo le stesse posizioni delle parole che hanno in
greco, suona: «Questo fece (il) principio dei segni Gesù in Cana di Galilea».

La parola «inizio», usata dalla traduzione della Cei, è
fuorviante perché esprime un valore temporale, mentre al contrario «principio»
richiama una prospettiva globale e senza tempo. Le nozze di Cana non sono solo
il «primo» segno cronologico, ma il «segno fondamentale», quello che apre gli
occhi della fede verso ciò che accadrà da cana a Gerusalemme.

Il versetto 11 è composto da tre frasi o proposizioni,
perché vi sono tre verbi, che però non sono sullo stesso piano: il primo «epòiēsen – fece» è preceduto da un
altro termine, cioè dal pronome dimostrativo «tàutēn questa/questo», per cui il verbo, pur essendo
al tempo aoristo, che è il tempo primario della narrazione, è declassato a
tempo secondario. Gli altri due, invece, mantengono la struttura narrativa primaria,
che è propria del greco, e infatti sono preceduti tutti e due dalla
congiunzione «kài – e», che è uno dei segnali greci per indicare il verbo
aoristo nella posizione importante e quindi deve essere tradotto con il passato
remoto: «kài ephanèrēsen…
kài epìsteusan – e manifestò/rivelò… e cominciarono a credere». Alla luce di
queste osservazioni, la traduzione del versetto «deve» essere la seguente:

«Mentre faceva questo principio dei segni,
manifestò Gesù in Cana di Galilea la sua gloria
e cominciarono a credere in lui i suoi discepoli». 
La fede ha un principio e un inizio

L’autore intende porre l’accento su «manifestò» e
«cominciarono a credere»: le due informazioni che vuole comunicare al lettore,
perchè le più importanti e fondamentali di tutto il racconto. A differenza
dell’architriclino, rappresentante della religione ufficiale, che è cieco e
sordo, il lettore deve essere pronto a cogliere e «vedere» la manifestazione,
cioè la rivelazione di Gesù nella trama degli eventi ordinari che in se stessi
possono apparire insignificanti, mentre sono portatori di un senso nascosto e
nuovo che solo chi è predisposto sa cogliere. Per questo, ed è il secondo
messaggio, i discepoli «cominciarono a credere», perché la fede è conseguenza
di una visione e di una esperienza.

Traduciamo il terzo verbo «kài epìsteusan» con «cominciarono
a credere» e non con «credettero» perché pensiamo che l’aoristo greco, qui,
abbia valore «ingressivo», cioè descrive l’inizio di un’azione che è in cammino
e che sarà lungo prima di giungere al suo compimento. D’altra parte Gv parla di
«l’inizio dei segni» e ci sembra esagerato dire che i discepoli «credettero» al
primo colpo, senza alcun processo o elaborazione. Anch’essi si aprono al «vino
nuovo» interrogandosi sui fatti, come Cana, e si affidano all’alleanza del
Sinai che ritrovano e rinnovano nella persona di Gesù. D’altra parte, in
Giovanni, la figura del «discepolo/discepoli» oltre al significato dei seguaci
«storici» di Gesù, ha il significato del «discepolo-tipo», cioè del credente di
ogni tempo che s’incontra con la personalità di Gesù di Nàzaret il «rivelatore»
del Padre.

Non miracolo, ma segnale per non smarrirsi

Nello studio della Bibbia nel suo insieme o di un brano o di
un versetto non si può andare subito al significato «spirituale» per cogliee
subito il frutto. La Parola di Dio rifugge dalla fretta, pressappochismo,
superficialità e spiritualismo. Essa esige spazio, tempo, studio prolungato,
sapore, gusto… in una parola, la Bibbia esige «perdere tempo» come l’amore.

Come i nostri lettori avranno percepito, se hanno avuto la
pazienza di arrivare a questo punto, la riflessione sul versetto undici non è
conclusiva, ma è tutta centrata sulle questioni letterarie e in parte anche
sintattiche. Qualcuno potrebbe dire che sono superflue; se così fosse, passi
pure avanti, anzi ad altro, perché la Bibbia non fa per lui: legga fumetti o
faccia enigmistica. Noi riteniamo che la Bibbia debba essere assaporata nella
sua struttura letteraria, grammaticale e sintattica: più l’approccio è
scientifico e più si riesce a penetrare, attraverso il significato ordinario
delle parole comuni, il senso nascosto che lo Spirito può svelare a coloro che
lo cercano per le vie indicate dall’autore e quindi dallo stesso Spirito, e più
nutre l’anima.

Quando «si legge» la Bibbia o si riflette su un brano della
Scrittura, alla fine bisogna essere «stanchi» perché ascoltare, studiare e
vivere la Parola è lavorare nel e per il Regno di Dio. Altre volte abbiamo già
detto che per i rabbini ebrei, lo studio della Parola di Dio equivaleva al
sacrificio compiuto nel tempio di Gerusalemme. Sarebbe lo stesso per noi dire
che equivale alla celebrazione comunitaria dell’Eucaristia. Ecco perché è
necessario «stare sul» versetto 11, perché da esso dipende la comprensione di
tutta la narrazione. Vogliamo evidenziare la grandezza e la lungimiranza del
redattore finale che, scegliendo le frasi e mettendole in un certo ordine, ha
pensato a noi che le avremmo lette oggi, domani, sempre. Prendiamo in esame la
frase in se stessa, fuori del suo contesto, per approfondie il senso
cristologico. L’autore ha posto in greco il pronome dimostrativo «questo»
all’inizio di frase, cioè in posizione enfatica, di rilievo, addirittura prima
del verbo che così è relegato in seconda linea. Il pronome dimostrativo «tautēn – questa/questo» concorda per
attrazione con «principio» che in greco è femminile e in italiano è maschile.
In questo modo, l’autore ingloba tutto ciò che precede e comprende l’intero racconto.
Tutto quello che è avvenuto a Cana di Galilea è «un principio», cioè il
fondamento, la prospettiva, la chiave di lettura di tutto ciò che segue.

Non è casuale che l’autore nel IV vangelo non usi mai il
termine «miracolo», ma sempre e solo il lemma «segno». Non si tratta, infatti,
di descrivere interventi superiori, ma di indicare la direzione della fede
verso cui incamminarsi: bisogna stare attenti ai «segni» e i «miracoli» sono
«segnali» per non smarrirsi.

Anche la geografia segna la via di Dio

Quanto abbiamo appena detto, lo constatiamo anche dalla
citazione geografica «in Cana di Galilea». L’espressione nella morfologia greca
si analizza come due complementi: a) di stato in luogo (in Cana) e b) genitivo
corografico (di Galilea). Questo genitivo, in greco, vuole sempre l’articolo «della
Galilea», che in italiano però non si mette e quindi non diciamo, alla lettera,
«in Cana della Galilea», ma correttamente traduciamo con «Cana di Galilea».

L’espressione «Cana di Galilea» l’abbiamo già incontrata nel
primo versetto, Gv 2,1, quando l’autore ci ha dato la prima informazione: «Nel
terzo giorno uno sposalizio avvenne in Cana di Galilea». Se la stessa frase è
all’inizio e poi anche alla fine, concludiamo che l’intero racconto è uniforme;
esso, infatti, è contenuto – si dice tecnicamente – in una «inclusione», cioè
tra due espressioni uguali che formano una specie di cerchio che racchiude
tutto l’insieme. Siamo partiti da Cana di Galilea e siamo arrivati a Cana di
Galilea e andando avanti nella lettura del vangelo, la incontriamo ancora in Gv
4,46, all’inizio del racconto della guarigione a distanza del figlio del
funzionario regio. È lo stesso autore che connette i due racconti di Cana per
cui è evidente che c’è un legame profondo che bisogna rilevare: «Venne quindi
di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua (in) vino. E c’era un
funzionario regio il cui figlio era malato in Cafàao». La stessa espressione
ritroviamo alla conclusione del vangelo (Gv 21,2): «Erano insieme Simon Pietro
e Tommaso, detto “gemello”, e Natanaele, che era di Cana di Galilea e i figli
di Zebedeo e altri due dei suoi discepoli». La vita pubblica di Gesù si apre a
Cana, passa per Cana e termina a Gerusalemme, ma con la citazione di Cana di
Galilea: un modo letterario per dirci due cose.

La prima riguarda il «segno» di Cana che così riguarda tutto
il vangelo: in altre parole, non si può capire il vangelo in tutta l’integrità
se non si capisce «il principio dei segni» avvenuto a Cana. Il secondo riguarda
noi, lettori: la geografia è parte integrante della salvezza e della fede. I
luoghi, infatti, e i posti dove avviene ciò che ci riguarda non sono
indifferenti ed è nostro obbligo ritornare, come in pellegrinaggio, ai luoghi
dove abbiamo vissuto e «visto» e «manifestato» a noi e ad altri ciò che abbiamo
capito, intuito, desiderato, promesso.

Un pellegrinaggio giornioso

Spesso noi andiamo in pellegrinaggio ai santuari, a volte
con l’illusione di incontrare Dio, senza renderci conto che vi sono anche altri
«luoghi» importanti e altri «santuari» necessari per noi:

dove abbiamo incontrato l’amore,
dove abbiamo dato il primo bacio,
dove abbiamo concepito il figlio/a,
dove abbiamo sognato un ideale,
dove abbiamo percepito la chiamata,
dove abbiamo fatto la promessa di fede o matrimonio,
dove abbiamo pianto,
dove avremmo voluto morire,
dove abbiamo riso spensieratamente,
dove abbiamo incontrato un amico/amica,
dove abbiamo preso qualcuno per mano,
dove abbiamo asciugato lacrime di dolore,
dove abbiamo condiviso lacrime di gioia,
dove ci siamo abbandonati alla pateità di Dio,
dove abbiamo ricevuto un regalo inatteso,
dove abbiamo spezzato il pane dell’amicizia,
dove abbiamo ritrovato quanto avevamo smarrito,
dove abbiamo mutato la disperazione in pacificazione,
dove abbiamo vissuto la Shekinàh come Abramo,
dove abbiamo assaggiato il vino nuovo di un nuovo progetto
di vita con Dio,

dove abbiamo deciso di dare la nostra vita a perdere senza
chiedere in cambio nulla. Sorge spontanea una domanda: «Qual è la mia Cana di
Galilea dove ho visto e vissuto le nozze dell’alleanza?». Ritornare «al
principio» significa ritornare ad assaporare «il vino messianico», quello che
porta con sé il sapore dell’eternità e resta per sempre. Da principio alla
fine.

(37 – continua)

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Paolo Farinella