«[L’architriclino] non sapeva di dove è [il vino] … Gesù, sapendo che era venuta la sua ora» (Gv 2,8; 13,1)
Gv 2,9: «Come poi l’architriclìno gustò l’acqua divenuta vino – e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori …».
Qualunque sia la simbologia dell’architriclino, che abbiamo trattato nella puntata precedente, la figura non è superflua, ma ha un significato nell’economia del racconto giunto a conclusione. è strano, infatti, che il quadretto nuziale non si chiuda in un clima festoso «in cui vissero tutti felici e contenti», ma resti nella perplessità del responsabile delle nozze che constata, anche se solo superficialmente, la diversità del vino perché non sapeva che veniva dall’acqua trasformata: «e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori, loro che avevano attinto l’acqua» (Gv 2,9).
Tra banalità e kairòs
Questo personaggio che l’evangelista cita ben tre volte in appena due versetti, è chiuso nello sbalordimento del suo stesso stupore e, pur provenendo dalla tradizione giudaica, non si accorge di nulla, «non sa» il «dove» del «vino bello». L’unica cosa che sa fare è confabulare umoristicamente con lo sposo, chiamato in causa solo a questo scopo. Al contrario «lo sanno» i diaconi/servitori», cioè coloro che erano alle dipendenze dell’architriclino. Egli rappresenta i responsabili della religione, l’autorità, e senza esagerare, possiamo anche dire, il sinedrio, cioè coloro che formalmente rappresentavano la volontà di Dio. «Tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo» sanno tutto sull’arrivo del Messia, sanno perfino che deve nascere a Betlemme, lo annunciano a Erode e ai magi (cf Mt 2,4-6), ma sono estranei ai movimenti di Dio, come se vivessero in un altro mondo. Sono talmente abituati a praticare la religione del dovere che si dimenticano della vita dove Dio esplode e si rende presente. Si ribaltano veramente i ruoli: quelli che dovevano sapere non sanno e quelli che non erano obbligati, invece, sanno: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52).
Un nuovo mondo sta cominciando, il mondo di Dio, capovolto in rapporto a quello della religione ufficiale che si ferma alle apparenze, alle convenienze, agli usi e tradizioni e perde di vista il cuore degli eventi, la loro origine, ma anche il loro senso. Chiusi nel principio uterino del «si è sempre fatto così» (per cui non c’è altra novità che il proprio passato), chiudono anche Dio nella prigione della propria mentalità meschina e retriva e lo incatenano alle micro prospettive della loro gretta vista che non sa mai oltrepassare il confine dell’ovvio e del consueto. Se l’architriclino fosse stato permeabile al dubbio o quanto meno all’interrogativo, di fronte a un fatto nuovo, qui «il vino bello» dato alla fine del banchetto, si sarebbe domandato come ciò potesse accadere e perché. Non si sarebbe semplicemente rassegnato, limitandosi a dare un buffetto allo sposo, ma avrebbe indagato fino a incontrare il «kairòs» della sua vita, fino a incontrare l’evento nuovo per eccellenza, Gesù, lo Sposo atteso che ha mutato l’acqua in vino.
Il povero sposo, vera figura occasionale e insignificante, colui che sarebbe dovuto essere insieme alla sposa, il protagonista della festa, invece, interpellato sembra di stare lì «a sua insaputa», in funzione pleonastica alla dinamica del racconto: c’è solo per permettere all’architriclino di stupirsi, banalizzando se stesso e la stessa figura dello sposo. La sua presenza fugace nel finale ha quasi lo scopo di mettere in risalto la sua assenza che ha dominato tutto il racconto. Lo sposo è altrove, anzi è un Altro.
Sapere, conoscere e vedere
L’evangelista sottolinea in un inciso che l’architriclino «non sapeva da dove» venisse il vino «bello». Il tema «sapere/non sapere» è caratteristico di Gv e ha sempre attinenza con la personalità di Gesù, la sua missione, la sua natura e il suo rapporto con il Padre, che diventa la discriminante della sua relazione con la religione ufficiale e con il «sapere» comune della religione che si ferma alla superficialità.
Per almeno 121 volte ricorrono nel IV vangelo il verbo «òida – conosco/so» e derivati. A questo verbo bisogna prestare attenzione perché esprime un universo semantico di straordinaria portata anche teologica.
Si tratta di un verbo irregolare perché nel NT si trova solo in alcuni tempi: il perfetto secondo indicativo (che ha valore di presente: «conosco/so»); il piuccheperfetto secondo indicativo (che ha valore di imperfetto: «conoscevo/sapevo»); l’imperativo nelle sole seconde persone («sappi – sappiate»); il congiuntivo presente, escluse le terze persone («che io sappia»); l’infinito («sapere») e il participio (sapendo).
Il verbo si forma dalla radice «[e]id-» da cui proviene il tempo aoristo del verbo «horàō – io vedo», da cui deduciamo che c’è corrispondenza tra «sapere/conoscere» e «vedere». La conoscenza, cioè la sperimentazione di un fatto, di una persona, di un evento, di un sentimento è la visione di essa a un livello profondo: contemplare e sperimentare, vedere e toccare sono la stessa cosa perché procedono dalla stessa fonte che è la conoscenza vissuta, la sapienza. Mai, infatti, nella Bibbia la conoscenza e la sapienza sono eventi astratti, avulsi dall’esperienza, al contrario, essi sono la centralità dell’esistenza che si snoda tra visione e sperimentazione, tra contemplazione ed evento visibile. Conoscere è vedere la realtà nella sua essenza interiore e intima. Non a caso in ebraico il verbo «yadàh – conoscere» indica anche l’atto sessuale tra uomo e donna: la sperimentazione vitale che è l’amore vissuto è l’atto di conoscenza più profondo della esperienza umana.
L’architriclino «non sapeva» perché era perduto nella superficialità di un evento nuovo che non ha saputo leggere, gustare, vedere e assaporare in tutta la sua pregnanza e sapienza. Egli si limita ad assaporare il gusto ovvio, ma non riesce ad andare al «senso» di quel gusto «bello» che avrebbe dovuto aprirgli le porte del cuore alla comprensione della storia antica che pur conosceva, come vedremo. Egli è fermo all’epidermide di ciò che appare e non s’interroga sul gusto interiore che quel vino porta in sé come messaggio-anticipo di un tempo nuovo. Non sapendo gustare la novità che cambia il corso di quello sposalizio, egli perde di vista e gusto anche il suo passato e la storia da cui proviene. Le apparenze non solo spesso ingannano, ma sovente, molto sovente, sono la negazione della verità e della stessa realtà che vorrebbero svelare.
«Sapere», discriminante della salvezza
Due capitoli più avanti, al bordo del pozzo di Giacobbe, una donna di Samaria, estranea e nemica, pur nella diffidenza del momento si lascia interrogare dall’uomo nuovo che le sta di fronte e accetta di dialogare con lui, lei samaritana con un giudeo e per giunta uomo: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa» (Gv 4,25). La donna considerata reproba è proietata verso il Messia che ancora non vede, è pronta ad accoglierlo, a differenza dell’architriclino, emblema dei responsabili della religione ufficiale, che invece si ostina nella sua chiusura: «Non sapeva di dove veniva». Anche il paralitico alla porta delle Pecore, guarito sulla parola di Gesù «non sapeva chi fosse» (Gv 5,13); ma quando, poco dopo lo incontra e lo riconosce, corre dai capi Giudei a riferire di «sapere chi è» ed essi invece di cogliere l’evento di novità, tramano persecuzione contro di lui perché si fermano a difendere «il sabato» (Gv 5,14-18). Gli uomini di qualsiasi chiesa sono più interessati a salvare lo «status quo» delle loro istituzioni che generalmente si identificano con i loro privilegi, piuttosto che aguzzare la vista per cogliere «i segni» di un tempo nuovo che avanza e non torna mai indietro.
Pure il cieco nato dapprima non sa di dove sia Gesù che lo ha guarito (cf Gv 9,12), ma di un fatto è certo: egli ha sperimentato, ha visto che prima «ero cieco e ora ci vedo» (Gv 9,25). I capi vorrebbero convincerlo che Gesù è un peccatore, ma egli sta fermo sull’unica conoscenza di cui dispone: la sua esperienza contro la quale nessun ragionamento, nessun principio religioso può avere la meglio perché egli da quaranta meno un anno era cieco e ora ha di nuovo la vista. Egli stesso è la prova che la sua conoscenza di Gesù non può fermarsi all’apparenza e alle esigenze della religione, ma va oltre l’inimmaginabile: se lo ha guarito ci deve essere qualcosa di grande che sfugge a lui, ma sfugge in modo drammatico anche «ai Giudei», a coloro cioè che avrebbero dovuto indirizzarlo a leggere l’evento vissuto e a dargli un nome. Essi invece, che si credono sapienti perché «gestiscono Dio» e s’illudono di conoscerlo solo perché conoscono a memoria i passi della Scrittura, «non sanno» nulla di Dio: si può essere efficienti uomini di religione ed essere al tempo stesso lontani da Dio perché religione e Dio sono incompatibili. La religione esige la pratica, Dio richiede la fede. La religione si nutre di rituali ripetitivi e morti, la fede vive di conoscenza e gusto dell’esperienza di Dio. La religione è esteriore, Dio vive e si rivela solo nell’intimità del profondo. Lo stesso avviene per Marta di fronte alla morte del fratello Lazzaro (cf Gv 11,22.24).
a) Frequenza e pratica non danno garanzie
«Anche Giuda il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli» (Gv 18,2). La consuetudine non è motivo sufficiente di conoscenza: si può frequentare lo stesso luogo per una vita, si può «andare» sempre in chiesa, si può «dire» da una vita il breviario, si può stare da una vita e oltre in un monastero, in un convento, in una parrocchia, si può essere cioè consuetudinari abituali e fedeli, praticanti a orario fisso, ma ciò non significa che si sperimenta colui che «sta in quel luogo». Per conoscere «quel luogo» come «tòpos», cioè come spazio di incontro e di esperienza bisogna aprirsi all’inverosimile e all’imponderabile, essere disposti a lasciarsi abitare dal «kairòs – evento propizio» per potere assaporare la Shekinàh che viene a posare la sua dimora in mezzo a noi. In questo contesto, pregare è illimpidirsi lo sguardo per vedere e vedere è abituarsi a sperimentare per giungere a una comunione fisica che immerga nella contemplazione di eventi e fatti inauditi e anche sperimentati. Se davanti a noi passa il calice del vino «bello» e ci limitiamo a dire che è «molto buono», senza cogliee la personalità di chi quel vino ha portato, allora possiamo anche essere specialisti, tecnici della religione, senza necessariamente sapere cosa significhi essere credenti nel e col cuore. Si può essere religiosi aridi, ma mai credenti senza sentimento.
b) Il desiderio del «mio Signore»
Maria di Màgdala è un esempio della fede che si consuma nell’esperienza/conoscenza: ai due personaggi misteriosi che stanno a guardia del sepolcro vuoto, confessa «non so dove l’hanno posto … il mio signore» (Gv 20,13). Il suo desiderio di conoscenza del «luogo» non è legata al «posto», ma esclusivamente alla sua relazione con il «mio Signore». In questa affermazione affettiva c’è l’esperienza di un’intimità assoluta che esprime lo strazio di non sapere dove sia l’amato. Maria è la donna del cantico che cerca disperata il suo amato e impazzisce finché non lo avrà trovato. è il suo cuore a essere senza «luogo» perché privo del suo amore: «Il mio Signore». Il dolore è così intimo e profondo che anche la presenza di Gesù «in piedi» dietro di lei non è sufficiente perché, quando il cuore è desolato dall’assenza dell’amato o dominato dal desiderio di trovarlo perché carico di paura per averlo perduto, si perde la cognizione del tempo e della conoscenza, della speranza e della stessa esperienza: «Non sapeva che fosse Gesù» (Gv 20,14).
c) Non rassegnazione, ma pienezza di vita
Anche Gesù nel quarto vangelo è esperto di conoscenza/sapienza perché il fondamento della sua esperienza e della sua visione è il Padre che testimonia per lui (cf Gv 5,32; 8,14), essendo «il luogo» fondamentale e intimo della propria identità. Il Padre è «il dove» del Figlio (cf Gv 7,28) che non ammette menzogna perché la relazione di vita è fondata sulla verità e sulla Parola (cf Gv 8,55; 12,50) che si esprime nella missione (cf Gv 7,28). Gesù, sapendo ciò che c’è nel cuore di ciascuno (cf Gv 2,25) sa anche chi è aperto alla fede che porta al discepolato e chi si chiude in sé fino al tradimento che oscura ogni conoscenza perché accentrato sull’interesse proprio (cf Gv 6,64; 13,11.18).
Egli conosce/sa anche riconoscere i figli di Abramo (cf Gv 8,37) in vista della conoscenza delle necessità del popolo di Dio che ha fame e deve essere sfamato (cf Gv 6,6), pur conoscendo la possibilità dello scandalo che non elimina, ma mette in conto perché lo conosce e quindi lo previene (cf Gv 6,61).
Egli conosce/sa anche l’ora suprema della sua morte che s’identifica nel tempo dell’unità col Padre che esprime la totalità dell’amore «fino alla fine», per cui conoscenza e sapienza s’identificano nell’amore e nella relazione esperienziale col Padre (cf Gv 13,1.3).
Gesù conosce gli eventi della sua vita e non si lascia vivere da ciò che accade, ma ciò che avviene diventa il teatro della sua coscienza e della sua consapevolezza: è lui che guida gli avvenimenti che accadono e non li subisce mai passivamente (cf Gv 18,4). Anche in punto di morte, egli non perde la sua consapevole conoscenza, ma proprio per questo «sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura» (Gv 19,28), effonde il suo Spirito come in una nuova creazione (cf Gv 19,30). La sua conoscenza/sapere qui raggiunge il suo vertice e spalanca le porte alla Scrittura, cioè al criterio di valutazione della vita e degli eventi che la costellano. Anche la morte acquista senso perché sottomessa alla conoscenza del compimento della Scrittura, diventando così «pienezza» di vita.
L’acqua vino di Cana
e l’acqua sangue del Nilo
C’è un abisso con l’atteggiamento dell’architriclino che, se si fosse lasciato interrogare dal «vino bello» giunto sulla sua tavola, avrebbe scoperto che esso portava «il vangelo» della novità e, invece di dedicarsi a commentare l’ovvio, si sarebbe interessato a capire «il perché e il modo» di ciò che è accaduto. Forse avrebbe chiamato «i diaconi» e avrebbe chiesto informazioni supplementari e allora, scoprendo che l’acqua era stata trasformata in vino, non gli sarebbe stato difficile riandare, con la memoria storica dell’esperienza di fede d’Israele, al «principio» della storia, quando il suo popolo poté sperimentare l’irruzione di Dio assistendo al mutamento dell’acqua del Nilo trasformata in sangue: «Prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta» (Es 4,9). L’acqua/sangue del Nilo è anticipo di un altro sangue: quello che avrebbe salvato la vita degli Ebrei, chiusi nelle loro capanne, mentre l’angelo della morte passava nella notte di Pasqua, facendo strage di primogeniti in terra d’Egitto (cf Es 11,4-7). Avrebbe saputo e capito che il «segno» antico era solo prefigurazione del segno nuovo e questi diventava la chiave per capire ciò che stava per cominciare e proiettarlo in un significato storico salvifico di portata universale. Con le nozze di Cana infatti comincia un tempo nuovo, il tempo del Regno, il tempo del Messia.
L’architriclino, nonostante presieda lo sposalizio, vive invece avulso dalla Parola di Dio vissuta come appello alla coscienza e alla conoscenza, perché è impantanato nella quotidianità della religione come bisogno gratificante per cui non riesce a vedere oltre il confine della sua esperienza piccola e insignificante che banalizza anche il «Mistero» di Dio e la rivoluzione del suo «Vangelo». Seduto al banchetto con compagni di ubriacatura, si limita a chiamare lo sposo e rilevare che nella sala nuziale è entrato un vino «altro», di cui però lui non riesce a percepire la personalità e il senso. Ancora una volta, ieri come oggi, Dio passa, si ferma e compie «segni» travolgenti, ma la religione della tradizione e dell’ovvio usuale non se ne accorge, lasciandolo passare invano.
(34 – continua)
Paolo Farinella