Ricostruire la comunità
Piccola storia di riscatto dal basso
Mentre un piano globale per la ricostruzione non esiste, piccole realtà locali, legate alla solidarietà, riescono a produrre cambiamento. È il caso della fondazione haitiana promossa da un missionario scalabriniano veneto. Siamo andati a trovarlo.
L’arrivo a Port-au-Prince è sempre qualcosa di emozionante e affascinante. Forse già per il nome, ma sicuramente per la storia straordinaria e terribile di questa città. E infine, per gli eventi degli ultimi anni, dal terremoto del 12 gennaio 2010 in poi. Qualcuno la voleva rasa al suolo e i suoi abitanti irrimediabilmente persi, ed è questo che i mass media del mondo intero ci hanno presentato. E invece no. Port-au-Prince, o meglio il suo popolo, resiste, sopravvive, brulica di attività di ogni genere. Dal piccolo commercio al traffico di stupefacenti, dalla costruzione di case, alla composizione di splendide poesie, alla scultura di simboli vudù sulla latta raddrizzata dei bidoni di benzina.
Una vita sempre «border line», come se tutto dovesse crollare da un momento all’altro, come se la tensione sociale dovesse far scoccare la scintilla di disordini incontenibili. Come se la terra dovesse tremare ancora.
La realtà quotidiana è il traffico caotico e incontrollato, contro il quale lottano i suoi abitanti, inventandosi scorciatornie e orari improbabili per andare e tornare dal lavoro.
La città è così ben descritta dalla corrente letteraria del «realismo meraviglioso» fondata dagli haitiani Jaques Romain e Jaques Stephen Alexis: il meraviglioso, il fantastico, qui diventa realistico, vero, cioè accade.
La cronaca di oggi ci riporta un aumento di banditismo cittadino, attacchi e uccisioni a scopo di rapina. In questo periodo è di moda l’assalto a mano armata con la motocicletta. Qualche mese fa andavano di più i rapimenti a scopo di estorsione.
Spostare i disperati
A Port-au-Prince si lavora un po’ ovunque per rimuovere le macerie con camion e ruspe e il panorama cittadino è molto cambiato negli ultimi dodici mesi. Chi ha potuto ha iniziato a ricostruire con i propri mezzi la casa crollata. Altri si sono accontentati delle costruzioni «temporanee» distribuite dalle Ong umanitarie. Ma non esiste una pianificazione complessiva.
Negli ultimi tempi le tendopoli (o «campi», come li chiamano qui) che occupavano le principali piazze e aree libere della città, a partire dalla zona dell’aeroporto internazionale per arrivare alle belle Place Saint Pierre e Place Boyer di Pétion-ville, sono state sgomberate, tornando alla quasi «normalità» precedente al terremoto.
Salendo per la strada Canapé Vert per Pétion-ville sulle pendici scoscese delle montagne che sovrastano la città, sono sempre più evidenti nuovi quartieri di semplici casette arroccate una sull’altra. Sembra quasi che aumentino, occupando i pendii verso l’alto, di giorno in giorno, in una zona totalmente esposta agli smottamenti causati dalle delle frequenti alluvioni.
Ma il grande sbocco dei disperati che hanno perso tutto durante il terremoto e che ora sono sloggiati dalle piazze e dai campi di calcio cittadini è la Plaine du cul de sac. È in questa pianura ricca d’acqua, al lato Nord della capitale, nella forbice tra la strada nazionale n. 1 verso Gonaives e la n. 3 verso Hince, che la città si sta espandendo. Nel Sud non è possibile, il comune di Carrefour è già congestionato, a Est ci sono le montagne e a Ovest il mare. A partire dal disegno politico di creare la più grande tendopoli, il Camp Corail (campo Corallo), prevista inizialmente per 9.000 persone, ora in questa vasta zona si sono «accampati» con rifugi di vario tipo e privi quasi di servizi, oltre 47.000 sfollati.
È qui, al limite del comune di Croix-de-Bouquets, che incontriamo un’interessante esperienza di reale ricostruzione dal basso.
In questi luoghi a metà degli anni Novanta padre Giuseppe Durante, della congregazione degli Scalabriniani, era stato inviato per aprire una nuova missione. Padre Giuseppe, originario di Montebelluna (Tv) veniva da esperienze di lavoro negli Usa, in Messico e poi con gli immigrati haitiani in Repubblica Dominicana.
Nella zona chiamata «Santo», padre Giuseppe aveva costruito un primo seminario per gli scalabriniani. Ad esso aveva, negli anni, aggiunto una clinica e una scuola per il quartiere.
«Subito dopo il terremoto – racconta padre Giuseppe – il nostro seminario era diventato il punto di riferimento per la gente dell’area. Con alcune persone sensibili abbiamo creato un comitato di quartiere e iniziato la distribuzione di acqua tramite autocistee. Poi abbiamo distribuito degli aiuti arrivati dagli Usa e dalla Regione Lombardia. Anche il Pam (Programma alimentare mondiale) ci ha dato dei viveri e abbiamo organizzato un magazzino. Gli alimenti in parte erano rubati all’arrivo ed era anche pericoloso distribuire quelli che restavano: si diventava obiettivo di assalti. In questo ci hanno aiutato dei gruppi giovanili, come il Kiro, presente in quasi tutte le parrocchie».
Il missionario inossidabile, con gli occhiali perennemente appannati, sembra non essere cambiato negli ultimi quindici anni.
Le attività di prima emergenza sono durate circa tre mesi, i campi da calcio del centro degli scalabriniani erano diventati delle tendopoli. Poi il parroco di Croix-de-bouquets e due laici sono andati a parlare con padre Giuseppe per proporre un’iniziativa più sul lungo periodo.
«Abbiamo pensato di creare una fondazione di diritto haitiano».
È nata così la Fondation haitienne pour le relèvement et le développement (Fhrd, Fondazione haitiana per il cambiamento e lo sviluppo) la cui missione è lo sviluppo del quartiere. Erano passati quattro mesi dal sisma. Oggi la fondazione ha un comitato di amministrazione di nove persone, tutte haitiane tranne padre Giuseppe, che ne rimane presidente, anche se preferirebbe prendee un po’ le distanze. «Come scalabriniani abbiamo sempre appoggiato la fondazione e, in un certo senso, siamo un po’ garanti dell’uso dei fondi che arrivano per le attività».
Una casa vera
La fondazione si è concentrata subito sul bisogno primario: la casa. «Volevamo aiutare la gente a rifarsi un’abitazione decente», non le baracche in compensato o plastica distribuite dalle Ong inteazionali e pagate quanto le case permanenti, che sono ormai parte dell’habitat haitiano delle zone terremotate. Un business questo che, con i soldi degli aiuti, ha favorito fabbricanti statunitensi, importatori dominicani e costruttori troppo spesso stranieri ad Haiti.
«Abbiamo realizzato dei prototipi di casette in blocchi di cemento e cemento armato, antisismiche, coperte di lamiera». Visitiamo le costruzioni non lontano dalla missione: una sala con angolo cucina, due camere decenti, un bagno: quanto basta per un’abitazione dignitosa per una famiglia. Con un primo aiuto di Caritas Italiana, Croce rossa e alcuni volontari italiani esperti in costruzioni, la fondazione ha realizzato il primo «villaggio» di 18 casette recintate da un muro di protezione: il «villaggio Colombe», inaugurato il 29 novembre 2011.
«È stato il primo quartiere permanente costruito a Port-au-Prince e ha suscitato molto interesse». Continua padre Giuseppe. «Inizialmente è stato difficile avere dei fondi, ma quando i finanziatori hanno constatato che siamo in grado di realizzare quanto promesso, si sono presentati in molti».
Cooperativa di inquilini
La novità, oltre alla costruzione semplice ma funzionale e accogliente, è il concetto di «comunità integrale» che la Fondazione vuole realizzare. «La Fondazione è responsabile della costruzione e della gestione del villaggio. Le famiglie beneficiarie, scelte su una lista di coloro che, nella zona, hanno perso tutto e sono più bisognose, si costituiscono in cornoperativa di residenti. La cornoperativa elegge tra i membri un responsabile di villaggio. Per Colombe è una signorina molto in gamba. La Fondazione nomina una persona che si occupa di quel villaggio. Le due figure collaborano per dirimere i conflitti e rispondere alle necessità che possono sorgere. Sono responsabili di quello che succede. Abbiamo sperimentato che con questo sistema c’è molta partecipazione».
Le case poi, se tutto funziona, sono riscattate dagli inquilini: «Un’abitazione ci costa circa 10.000 dollari (7.700 euro, ndr.) escluso il costo della terra: ottimo prezzo per Haiti». La Fondazione produce i propri blocchi di cemento (è questo il mattone di base usato sull’isola) e può contare, in parte, su lavoro volontario. «Ogni famiglia paga un “affitto” di 400 dollari all’anno e in 10 anni la casa diventa di sua proprietà». Un contratto è stipulato tra gli inquilini e la Fondazione, con il quale i primi accettano anche le regole per abitare nel villaggio, una sorta di regolamento condominiale. «La terra, invece resta della Fondazione, perché vogliamo avere sempre la possibilità di un certo controllo su quanto succede nel villaggio. Altrimenti il rischio è che costruiscano altre strutture in modo disordinato o vendano la casa. Se vogliono uscire dal progetto la Fondazione rifonde quanto hanno pagato fino a quel momento. È una garanzia della durata, ovvero che le case non siano vendute, saccheggiate, danneggiate». Il villaggio ha acqua corrente potabile (il che è un lusso a Port-au-Prince) ed elettricità. Gli inquilini devono essere in grado di pagare i consumi.
«Abbiamo una lista con centinaia di domande» ricorda il missionario. E i finanziatori, visto il successo del villaggio Colombe, si sono fatti avanti.
Un secondo villaggio di 28 case è in costruzione, mentre sono previsti altri due villaggi di 70 e 80 abitazioni. «Anche la Croce rossa italiana ha chiesto alla Fondazione di costruire il proprio villaggio di 200 case!». E qui si pone un problema: perché si rischia di superare le forze della Fhrd per soddisfare tutte le richieste. E questo ha aperto una riflessione intea.
Dalla casa alla comunità
«La Caritas italiana all’inizio ci ha dato il costo di 10 case, e volevamo farle dove la gente ha perso la propria per causa del terremoto. Ma c’era il problema della proprietà della terra, che qui non è mai certa. Inoltre c’erano i dubbi legati al trasporto del materiale da costruzione in diversi quartieri, con il rischio elevato che venisse rubato. Allora io ho proposto di fare le case raggruppate, in un cantiere unico, recintato, protetto. Su una terra acquistata con documenti sicuri. È stata una scelta indovinata: abbiamo comprato la terra qui, e la gente che era nelle tende è venuta ad abitarci».
E intorno si sviluppa il concetto di comunità: «Dare la casa, e poi? È nata l’idea che i bambini potessero usufruire della scuola e della clinica. Abbiamo anche chiesto alla Croce Rossa che potesse fare un centro giochi, biblioteca, sala computer, campo sportivo. È nato un “villaggio urbano”. Inoltre un gruppo di suore brasiliane stanno impostando con la gente un progetto di “economia solidale”: hanno iniziato diversi corsi e vogliono puntare su orti e allevamento di piccoli animali.
L’idea è dunque passata dalla costruzione della casa alla costruzione della comunità, con assistente sociale, servizi, protezione. Un’idea che ha avuto molto successo: c’è sicurezza, continuità». Il padre è umile e dalle sue parole non traspare neppure un filo di vanità per queste realizzazioni, che localmente, stanno dando ottimi risultati.
Lavoro e dignità
Un altro aspetto fondamentale sta contribuendo a migliorare le condizioni di vita a Santo: «Si è creato lavoro: abbiamo 130 operai, nella costruzione, nella fabbricazione dei mattoni, e cucine. È diventata fonte reddito. La relazione con la comunità è molto buona».
Questi ultimi sono i «progetti produttivi» che padre Giuseppe elenca con orgoglio, pur non nascondendo le difficoltà: «La Fondazione ha realizzato anche un panificio che oltre a impiegare personale, contribuisce al reddito delle famiglie attraverso le madri che vendono in giro i sacchetti di pane. E qui famiglia vuol soprattutto dire mamma con figli, perché gli uomini sono latitanti. Talvolta, in una giornata, una madre riesce a guadagnare anche più di un operaio. Per il futuro stiamo realizzando una fabbrica di pasta e una cucina industriale».
L’Agenzia scalabriniana per la cooperazione allo sviluppo onlus (www.ascs.it) di Milano, appoggia il progetto con volontari e cooperanti di lungo periodo, come Mirco Camilletti, che da oltre un anno è impegnato sul terreno. «Ci hanno anche messi in contatto con industriali milanesi, i quali ci mandano queste macchine che utilizziamo per il panificio».
Un importante aiuto per la costruzione dei villaggi e la formazione lo stanno dando i volontari «storici». Sono amici di padre Giuseppe e professionisti di Montebelluna che da 16 anni vengono a passare alcuni mesi a Santo, mettendo a disposizione le loro competenze e formando giovani haitiani: Martino, Bruno, Tarcisio, Antonio, Florio, Diego, Giuseppe.
Lasciato il villaggio Colombe, a poca distanza siamo in un cantiere dove file di casette sono in costruzione. Sarà il villaggio «Montebelluna – Bassano». Qui diverse squadre sono al lavoro e l’attività è frenetica: chi prepara il cemento, chi intonaca, chi monta le strutture.
«La gente ci differenzia dalle Ong. Qui la persona religiosa, nell’immaginario popolare, è molto importante. Per questo godiamo di un certo prestigio, ci fanno le confidenze, soprattutto come missionari. Anche perché sanno che non facciamo i nostri interessi». E conclude: «Questa relazione con la gente mi ha dato delle soddisfazioni personali, inoltre stiamo rispondendo ai bisogni reali. Per questo io mi sento bene».
Marco Bello