Operazioni caschi bianchi

Servizio civile all’estero

Da quando è stata riconosciuta l’obiezione di coscienza al servizio militare ed è stato istituito il servizio civile nazionale, oltre 300 mila giovani hanno scelto di difendere la patria spendendo un anno di lavoro in un paese estero, in missione di pace non-armata e nonviolenta. Chi ha sperimentato tale servizio ne resta segnato per tutta la vita, continuando a impegnarsi in attività di promozione umana, a difesa della pace e dei diritti dei più deboli.

Li incontri quando proprio non te l’aspetti: negli slums, le baraccopoli africane, come nelle favelas brasiliane. A difendere i diritti delle donne in America Latina e delle minoranze etniche nell’Est Europa. Ma anche a tutelare foreste, avviare progetti di cooperazione allo sviluppo, o semplicemente condividere la dura quotidianità di bambini e adulti di strada, famiglie indigenti o vittime di guerre o violenze strutturali, senza colpe se non quella di trovarsi nel posto sbagliato. Sono i giovani italiani che decidono di partire per l’anno di Servizio civile volontario all’estero: 400 in questo 2012, almeno 5 mila da quando, nel 2001, è nato in via ufficiale il Scn, Servizio civile nazionale, che nonostante la dicitura «nazionale» prevede anche l’invio di ragazze e ragazzi fuori dall’Italia.

Da obiettori a caschi bianchi
Nessun controsenso: la difesa della patria si può promuovere anche così. «Oramai siamo in una nuova fase dell’idea di “difesa”: si tutelano gli interessi nazionali, non i confini. Lo fanno in primis gli stessi militari, con le cosiddette “missioni di pace” nei territori caldi come Afghanistan, Balcani, e fino a qualche tempo fa Iraq – sottolinea Nicola Lapenta, 41 anni, responsabile per il Servizio civile dell’associazione Comunità Papa Giovanni xxiii -. Quindi ancor più il discorso vale per un’azione non armata e nonviolenta come quella portata avanti dai giovani ex obiettori di coscienza, oggi volontari in servizio civile».
La differenza del tipo di impegno, rispetto a quello militare, è evidente; «non si difendono interessi legati a pozzi di petrolio o altre questioni geopolitiche; piuttosto, chi sceglie il servizio civile all’estero promuove il rispetto dei diritti umani e la trasformazione positiva dei conflitti di ogni genere» afferma Lapenta, padre di tre bambini, ma soprattutto uno dei primi obiettori di coscienza alla naia obbligatoria ad aver «superato il confine»: nel 1995, durante l’anno di servizio civile (che ha svolto in una casa famiglia della Comunità in Piemonte), partecipò, alla marcia pacifista indetta dai Beati costruttori di pace nella Sarajevo sotto assedio, capitale dell’attuale Bosnia, allora parte della ex Jugoslavia.
«Recarsi all’estero a quel tempo non era permesso agli obiettori, così io e altri ci siamo autodenunciati e siamo partiti: ci sembrava giusto dare il nostro contributo alla risoluzione nonviolenta del conflitto nei Balcani, attraverso l’interposizione diretta», spiega il responsabile servizio civile della Comunità Papa Giovanni xxiii.
Dalla presenza degli obiettori nella ex Jugoslavia, la storia dell’impegno civile dei giovani italiani ha scritto pagine sempre più colme di testimonianze e coraggio, fino ad arrivare alla legge 230 del 1998, che nel riformare l’obiezione di coscienza introduceva la possibilità di partire per l’estero, e «sanava» la situazione del centinaio di persone che, come Lapenta, si erano recati all’estero senza permesso durante il loro anno di servizio.
Nel frattempo, a questi giovani pionieri è stato dato anche un nome: Caschi bianchi. Una risoluzione dell’Onu del 1994 chiama così un possibile corpo civile di aiuto umanitario da inserire nei conflitti. Da allora in Italia il nome è stato dato in via informale ai giovani obiettori all’estero. «Fino al 2001 quando, con l’istituzione del Scn, un progetto promosso dagli enti Caritas italiana, Comunità Papa Giovanni xxiii, Focsiv-Volontari nel mondo e Gavci si è chiamato proprio “Caschi bianchi”, puntando sulla creazione di un vero e proprio corpo civile di pace» (per quest’ultimo aspetto vedi la pagina 48, dedicata al «Servizio civile nel mondo», ndr).

Progetti per costruire la pace 
Quel progetto c’è ancora oggi e riguarda la maggior parte dei volontari all’estero del servizio civile, circa due terzi del totale. Nel 2012 i Caschi (chiamati “bianchi” per distinguerli dai “blu” delle stesse Nazioni Unite, che hanno compiti simili ma impugnano un’arma da usare a seconda del bisogno) sono sparsi in quasi tutti i continenti: «Paesi dell’ex Jugoslavia, Gibuti, Guinea, Sierra Leone, Argentina, Guatemala, Thailandia, Sri Lanka: ecco alcuni dei Paesi in cui sono presenti oggi con i nostri progetti – elenca Diego Cipriani, capo dell’Ufficio servizio civile di Caritas italiana -. Si occupano, dando man forte alle presenze locali del nostro ente, di ragazzi di strada, promozione dei diritti umani, riconciliazione delle parti in conflitto. La loro presenza è fondamentale, sono un punto di riferimento per la popolazione locale».
Il cornordinamento fra le quattro organizzazioni promotrici dei Caschi bianchi fa sì che il progetto sia ben strutturato: «A ben vedere rappresenta l’essenza dello stesso servizio civile: si tratta di una presenza preziosa nel prevenire e trasformare i conflitti, ovvero nel costruire la vera pace, attraverso la nonviolenza» aggiunge Primo Di Blasio, referente per la Focsiv (Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontariato). Le sue parole trovano conferma nelle recenti dichiarazioni del ministro per la Cooperazione e l’integrazione Andrea Riccardi: «Perché così pochi posti per l’estero? Ne servirebbero molti di più, la mediazione è una componente fondamentale della società, che vede una crescita dei conflitti sociali».
Discorsi e intenzioni a parte, la concretezza parla da sé anche nel caso della Focsiv: 1.250 giovani partiti dal 2001 a oggi, 200 in servizio quest’anno in nazioni, tanto per citae alcune, come Cina, India, Albania, Mali, Congo, Rwanda, Colombia, Venezuela, tutti a sostegno di progetti di organizzazioni non governative italiane o locali; in Benin l’ente si è appoggiato finora alla presenza dei missionari cappuccini.
«Gli ambiti di intervento sono il socio-sanitario, la tutela ambientale, la difesa dei diritti, lo sviluppo sociale, ad esempio, promuovendo il turismo comunitario e le associazioni di artigiani locali» illustra Di Blasio. Come se non bastasse, i Caschi bianchi svolgono anche attività giornalistica dal basso, scrivendo articoli per il portale antennedipace.org. «Sono come delle antenne, pronte a diffondere quello che vedono verso tutti» aggiunge Lapenta, la cui Comunità Papa Giovanni xxiii (presente in ampie zone del mondo, dai Territori palestinesi allo Zambia, dal Tanzania alla Russia, dal Brasile al Bangladesh), si occupa anche, dall’Italia, di raccogliere i contributi dei giovani in servizio e inserirli sul portale telematico.
Inoltre, nonostante che per il servizio civile in generale sia un periodo molto arduo, data la paventata chiusura dei progetti nel 2013 se il governo non riuscirà a reperire altri fondi, dal 2011 è partito un nuovo progetto sperimentale in Albania, promosso dal Comitato Dcnan, Difesa civile non armata e non violenta, di cui fan parte gli enti promotori del servizio civile all’estero: si chiama “Oltre le vendette” e vuole aiutare la ricomposizione pacifica dei violenti conflitti famigliari che flagellano il Paese balcanico. Non solo Caschi bianchi, comunque; il servizio civile all’estero si compone anche di altre realtà altrettanto valide: dai progetti di Ipsia, ong delle Acli, a quelli di enti locali, su tutti il Comune di Torino; il bacino di scelte al quale una ragazza o un ragazzo possono attingere è ampio.

Andata…
Ma come funziona il loro «reclutamento»? Un ragazzo dai 18 ai 28 anni può fare domanda per il servizio civile, estero compreso, almeno una volta all’anno, in occasione del bando dell’Unsc (Ufficio nazionale servizio civile). La procedura è semplice: entra in contatto con l’ente referente del progetto e invia la propria candidatura. Il colloquio è garantito, il posto ovviamente no, soprattutto se il numero delle domande dei candidati è molto superiore alle richieste pervenute dai vari enti.
Dal 2001 al 2005 questo rischio non c’è stato, e a grandi linee quasi tutti potevano partire. Poi con il passaparola e soprattutto i racconti dei primi Caschi bianchi, si è arrivati a un boom di richieste che continua ancora oggi, quando viene selezionata circa una persona su tre, ovvero, su una media di 500 posti, arrivano agli enti 1.500 domande. «Io sono stato ripescato per Santiago del Cile, dove sono arrivato nel dicembre 2006: era la prima volta che lasciavo l’Italia per così tanto tempo – spiega Federico Pinnisi, oggi 31enne e ritornato nella sua città d’origine, Novara -. Dopo la selezione, abbiamo avuto una formazione di quasi due mesi, per prepararci a quello che avremmo trovato all’estero».
È questa la differenza con un’esperienza di volontariato canonica: chi parte per il Servizio civile ha un bagaglio formativo alle spalle che gli consente di reggere l’urto iniziale dell’arrivo in un luogo diverso dalla quotidianità di casa propria e, nello stesso tempo, gli permette da subito di agire dando concretezza al proprio mandato. Nei 45-60 giorni di formazione normale, si alternano incontri con esperti, laboratori, esperienze di condivisione diretta in ambienti e con persone con disagio. Nel caso di Pinnisi, partito come Casco bianco per la Comunità Papa Giovanni xxiii, ha significato alcune settimane in una casa famiglia. «La formazione previa alla partenza garantisce ai giovani quelle competenze di base utili a gestire un conflitto, imparando a interporsi fra le parti in causa – riprende Lapenta -, si tratta di avere la giusta “equivicinanza”, parola che si distingue da “equidistanza”, perché significa porsi vicino a tutte le parti, cogliendone le difficoltà, e facilitare il dialogo senza schierarsi per favorire nessuno».
Una volta formato, il giovane ha il giusto tempo per salutare parenti e amici, prima di lasciare l’Italia per almeno dieci mesi. La coscienza che sia una scelta temporanea, molto diversa, ad esempio, dall’impegno missionario, è ben presente, ma il distacco è sempre un momento forte, soprattutto a quell’età. «Ho faticato a staccarmi da famiglia e amici, a capire la lingua una volta là, pur avendo studiato prima un po’ di spagnolo, a passare da una città di 100 mila abitanti a una metropoli di 7 milioni di persone… – continua Pinnisi -. Poi in poco tempo sono diventato autonomo, e in qualche modo cercavo di mimetizzarmi con i cileni, calandomi nella loro realtà».
La sua storia è comune a quasi tutti i ragazzi in servizio all’estero. In particolare, lui ha vissuto a stretto contatto con i bambini di strada, lavorando anche in un doposcuola di Santiago (la parola “lavorando” è giusta, il servizio civile prevede un’indennità di circa 850 euro al mese per l’estero, il doppio del nazionale: è per questo che si parla di lavoro volontario, non di puro volontariato) e promuovendo l’obiezione di coscienza tra i giovani cileni, nel cui paese il servizio militare è ancora obbligatorio.
«All’estero ti senti completamente immerso nella realtà in cui vivi, a 360 gradi, perché vivi in condivisione diretta con chi ha bisogno: è un’esperienza che lascia il segno» riporta Sara Rovati, appena tornata, dicembre 2011, da una comunità per minori dello Zambia. «Fare il Casco bianco significa, da una parte, spogliarsi di tutto: dalle abitudini ai beni materiali, al cibo, alle amicizie, e ripartire da zero in un contesto differente; dall’altra, si entra in luoghi di violenza e si deve cercare di dare una mano a risolvere i conflitti quotidiani: ci si sente parte di un ingranaggio più grande che diffonde una cultura di pace, partendo dalla condivisione, dal rispetto, dalla multiculturalità», osserva Marco Bianchi, casco bianco in Bolivia nel 2005. Le sue parole colgono in pieno lo spirito di questa particolare forma di servizio civile, che con umiltà cerca di entrare in un ambiente nuovo ben sapendo di essere di passaggio.
«Noi poi torniamo a casa, ma le persone con cui abbiamo a che fare restano lì: i protagonisti del cambiamento non siamo noi ma loro, e noi con loro – specifica Pinnisi, approfondendo ulteriormente il ragionamento -; vivere il servizio civile all’estero ha voluto dire confrontarmi con le mie paure, i pregiudizi, chiedermi il senso delle cose, ammettere il senstimento di impotenza a cui noi occidentali siamo poco abituati, presi dalla nostra idea di onnipotenza risolutrice».

… e ritorno
Peccato che, più velocemente di quel che ci si aspetti, i 12 mesi del servizio finiscano; giusto il tempo di abituarsi alla nuova vita, ed è già ora di passare il testimone al casco bianco che verrà dopo di te: si è utili, ma non indispensabili.
A un certo punto, quindi, si devono fare i conti con il ritorno in Italia. E qui inizia il bello: «A volte è più dura della partenza, sei cambiato, devi rifarti una vita», aggiunge ancora Pinnisi. Lui, dopo alcuni ritorni in Cile («perché le amicizie rimangono, ma vanno coltivate») ha oggi trovato impiego nel sindacato della Cgil, oltre a dedicarsi al volontariato in parrocchia e per Cascina G, progetto di un prete novarese per la promozione dell’impegno giovanile. Bianchi, invece, si occupa di progettazione per Banca Etica. Sono due esempi delle molteplici strade che prendono gli ex volontari di Scn all’estero, una volta superato lo spaesamento iniziale del rientro. C’è chi, fra gli altri, è diventato giornalista anche per quotidiani nazionali, chi è entrato a pieno titolo nello staff di Amnesty Inteational; parecchie decine hanno scelto la cooperazione internazionale e sono ripartiti per altri paesi.
Ancora, ci sono coloro che hanno deciso di tornare al lavoro esercitato prima della partenza, oppure sono ancora alla ricerca, soprattutto chi è tornato da poco. «All’estero mi sono innamorato della patria, mi ha rivelato un ragazzo appena tornato in Italia: questa è finora la frase più bella che abbia mai sentito», ammette il responsabile servizio civile della Focsiv. C’è infatti un filo rosso che unisce le migliaia di esperienze, ed è sottolineato da tutti i responsabili degli enti: la passione per il sociale in tutte le sue forme e il continuare a essere casco bianco in ogni situazione, nonostante sia terminata l’esperienza propriamente detta. «Con i vicini di casa, con i propri figli, i parenti, gli amici, sul lavoro o nell’associazione per cui fai volontariato: ovunque puoi portare avanti la tua missione», argomenta Chiara Perego, che nel 2004 è stata anche lei a Santiago del Cile e oggi è tornata nella sua Brianza, dove si occupa sia di economia solidale che di musicoterapia. Prima con i Caschi bianchi del suo scaglione, poi con altre persone che si sono man mano unite negli anni, essa ha fondato nel 2006 l’associazione Paciamoci onlus, per promuovere la risoluzione nonviolenta dei conflitti interpersonali, a scuola come in altri ambiti quotidiani. «Abbiamo scoperto che anche in Italia c’è molto bisogno di mediare fra le parti in conflitto, a volte da un semplice torto subito si generano catene di violenza che durano anni e possono non venire mai superate», aggiunge Perego.
C’è di più: dal 2011, almeno un centinaio di Caschi bianchi partiti con la Papa Giovanni xxiii ha deciso di tornare a fare gruppo, creando il movimento della «Ricostituente»: ogni 2 giugno, in occasione della Festa della Repubblica, si trovano per un momento di formazione, confronto e azione diretta nonviolenta, e nel resto dell’anno cercano di agire in gruppi locali. «Il presupposto è che si rimane caschi bianchi a vita – conclude Bianchi -; di certo i ritmi frenetici della nostra vita in Italia non aiutano, ma paradossalmente la vera sfida è di portare avanti gli ideali con cui operavi all’estero proprio qui in Italia».

Daniele Biella

Daniele Biella

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