Il racconto delle nozze di Cana (32)
Gv 2,7-8: 7Dice loro Gesù: «Riempite di acqua le giare!» e le riempirono fino all’orlo.
8E dice loro: «Adesso cominciate ad attingere e portatene all’architriclìno».
Essi quindi portarono.
Ci siamo fermati per tre puntate di seguito su Gv 2,6, che è il cuore del racconto. Tutto il brano converge su questo versetto, da cui apprendiamo che le giare sono di pietra, sono giacenti e infine hanno senso unicamente in vista della purificazione; sono anche inattive perché vuote. Le giare sono di pietra come le tavole della Toràh, pesanti come le prescrizioni dei 613 precetti, senza forza interiore come un pedagogo senza alunni. Esse sono espressione di una religiosità inflazionata ed esteriore, con uno scopo ormai perduto per strada: la purificazione resta l’obiettivo, ma è impossibile da raggiungere perché sono vuote. Ancora una volta il versetto ha l’intento di condurre il lettore al contesto del Sinai, «il principio» di Israele come popolo in un mondo e in una speranza nuovi (la terra promessa).
La possibilità e la realtà
C’è ancora un’indicazione, apparentemente secondaria, che indica la «portata» delle giare: due o tre metrète ciascuna, di cui abbiamo parlato abbondantemente nelle puntate precedenti e nelle due dedicate al vino (febbraio e marzo 2010). Qui richiamiamo solo il senso di fondo: la misura metrète corrispondeva a circa 38,88 litri di liquido, per cui moltiplicando per due si ha una capienza di 77,76 litri e per tre si ha una capacità di 116,64 litri ciascuna; le sei giare insieme dunque potevano contenere liquidi tra 466,56 e 699,84 litri, una cifra enorme. L’evangelista ci avverte che stiamo per assistere a qualcosa di insperato, perché la penuria espressa dalla madre che constata la mancanza di vino ora sta per trasformarsi in una sovrabbondanza senza limiti: «Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20).
È ovvio che questi numeri non sono da intendersi alla lettera, ma nel loro significato simbolico di «quantità considerevole», di sovrabbondanza incontenibile. La quantità in eccesso contrasta con la penuria di vino con cui ha inizio lo sposalizio. Nel regime di alleanza antica, «venne a mancare il vino»; con l’arrivo del Signore/Messia Gesù non solo la misura è colma, ma l’abbondanza è così tanta che c’è spazio e possibilità per chiunque voglia entrare nella nuova alleanza, che ora ha inizio come riscatto di quella antica, che non viene abolita, ma totalmente rinnovata, perché riportata alle sue condizioni originarie, quando ai piedi del Sinai, il popolo, «tutto» il popolo di Israele nascente, si purificò per due giorni per essere pronto a ricevere la Toràh come codice d’identità e prospettiva di libertà.
Gv 2,6 ci dice che le giare «erano contenenti» una quantità straordinaria di acqua, ma non ci dice se erano piene o vuote; ci dice solo la possibilità della quantità, non che fossero già piene. Avere la possibilità non significa contenere la realtà: uno ha la capacità e la possibilità di scalare la montagna, ma finché non si mette in movimento e comincia a salire, la montagna resterà solo un desiderio irrealizzato.
Gv 2,7 fa un passo avanti. Il comando del Signore, «Disse loro Gesù: “Riempite le giare di acqua”», toglie il velo e manifesta la verità: le giare sono realmente vuote. Esse potevano offrire una quantità di acqua senza misura, invece erano inutili perché «vuote», incapaci di rispondere anche al desiderio di purificazione. Sono là, ma sono come morte, senza vita e senza acqua, cioè senza significato e prive di speranza futura.
La religione giace per terra
La struttura dei due versetti è basata sullo schema letterario «comando/esecuzione» o «ordine/realizzazione»: Gesù ordina e gli addetti eseguono. In questo schema si usa due volte il verbo «ghemìzō-io riempio». Al comando di Gesù: «Riempite», i servi/diaconi: «Riempirono». All’ordine seguente: «Portate» corrisponde l’esecuzione: «Portarono».
Nel testo greco per il primo comando si usa un imperativo aoristo, che è un’azione senza tempo, puntuale, in quanto la si descrive finita in se stessa nello stesso istante in cui è enunciata. L’aoristo greco infatti non mette in relazione un «prima» e un «poi» o una qualità dell’agire; esso esprime semplicemente l’azione e l’imperativo espone un comando chiuso, una volta per sempre, perentorio: «Riempite», come a dire «riempite una volta per tutte», cioè definitivamente. Si tratta di un’azione unica e non ripetitiva.
Per la prima esecuzione da parte degli incaricati si usa sempre il tempo aoristo, ma questa volta il modo indicativo con valore narrativo: «Essi poi riempirono», collocato in posizione enfatica, cioè preminente, perché descrive l’azione compiuta dai servitori sulla linea principale del racconto, che noi rendiamo in italiano con il passato remoto: «Riempirono». Questo ci dice che l’azione dei servitori è essenziale alla comprensione del racconto nel suo insieme, perché ciò che fanno (riempire le giare e portare il loro contenuto) è sullo stesso piano di ciò che opera Gesù.
Per l’autore è importante l’azione dei servi/diaconi anche perché si trova rafforzata dalla preposizione impropria «èōs – fino», seguita a sua volta da un avverbio «ànō – sopra/in alto/in cima», che in italiano rendiamo con «fino all’orlo» per dare l’idea dell’abbondanza traboccante.
Il verbo «ghemìzō» significa «riempio» un recipiente vuoto, come i canestri riempiti dagli apostoli di pane avanzato (cf Gv 6,13), oppure la spugna «riempita» (impregnata) di aceto e offerta a Gesù morente (cf Mc 15,36), come la sala del convito che «si riempie» di tutti gli esclusi che rimpiazzano gli invitati che non si sono presentati (cf Lc14,23; vedi anche per altre circostanze Ap 8,5; 15,8; Mc 4,37). Questo verbo mette in evidenza la drammaticità della realtà: le giare che avevano un compito sublime di purificazione per preparare all’incontro con il Dio dell’alleanza, erano non solo deposte per terra e quindi inerti, senza forza, ma anche vuote di quell’acqua che è sorgente di santità rituale.
Nel momento in cui Gesù entra in scena per svelare il progetto nuovo del Padre, trova una situazione devastata e povera, trova la desolazione: il vuoto e l’abbandono. Si celebrano le nozze di finzione perché non manca solo il vino della presenza del Messia, ma anche l’acqua obbligatoria per ogni atto liturgico.
Lo sposalizio a cui partecipa anche la madre che si preoccupa di una sposa mai nominata e di uno sposo quasi inesistente, tutti appartenenti al mondo precedente che è il mondo della religione «giacente per terra», senza anima e senza prospettiva (senza vino), protagonisti di una religione che è finzione senza valore, un «sacramento» della religiosità delle anime morte. Il rito svuotato della vita è solo una rappresentazione del nulla.
L’ubbidienza creativa del servizio
La Chiesa, «sacramento» della relazione storica tra Dio e il mondo (Lumen Gentium 1), diventa un’inutile giara di pietra quando si ostina a difendere il passato come modello del futuro, senza rendersi conto che il vino nuovo del Messia non può essere contenuto in otri vecchi (cf Mc 2,22). Spesso si ha l’impressione che chi dovrebbe guidare il popolo di Dio verso il Regno, il quale è sempre davanti a noi, preferisce giacere per terra, inerte a difendere l’esistente che non c’è più, ma di cui ci si illude, immaginando una religione dei «valori», un sentimento di vaghezza religiosa dal sapore civile, in cerca di alleanze spurie, che la rendono sempre più «vuota», importante agli occhi del mondo del potere, ma inutile agli occhi del Dio incarnato, il quale cammina al passo dell’umanità con fatica e con speranza. Giovanni nel racconto delle nozze di Cana ci dà una chiave di lettura per essere anche oggi sulla stessa lunghezza d’onda del Gesù descritto negli eventi dello sposalizio. L’ordine che egli dà è colto ed eseguito non dai «servi», ma dai «diàkonoi – diaconi».
In greco «servo» si dice «doûlos» e indica uno stato di sottomissione, di bassezza, di inferiorità e quindi di appartenenza a qualcuno come proprietà. La Bibbia-Cei nella versione del 1974 traduceva infatti con «servi», mentre la nuova traduzione Cei (2008) cerca di rendere il termine greco e traduce con «servitori», che è un passo avanti. Crediamo che avrebbe potuto fare uno sforzo maggiore e tradurre alla lettera con «diaconi», rendendo il testo greco nello splendore semantico del termine che evoca un mondo liturgico, quasi ci trovassimo nel tempio di Gerusalemme.
L’evangelista infatti evoca realmente una dimensione quasi liturgica, comunitaria: c’è il Messia che porta la novità di Dio e c’è la comunità-sposa senza vino e senza sposo; gli addetti della religione non possono portare nemmeno l’acqua, perché le giare sono vuote e quindi non si può accedere alla presenza di Dio. Dio e il suo popolo sono estranei l’uno all’altro: un muro di impurità li separa. Il popolo si consola con un vino scadente che, per giunta, finisce presto e coloro che dovrebbero rimediare (architriclìno, responsabili) sono inattivi, privi di forze, di fantasia, di potere e di autorità. Essi sanno solo meravigliarsi che la realtà non corrisponde ai loro desideri e sono sempre pronti a rimproverare, mai disponibili a mettersi in discussione: «Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!» (Lc 11,46).
Entra in scena Gesù e tutto si muove: la madre si mette da parte, lo sposalizio prende vita, le giare si riempiono d’acqua «fino all’orlo», i servi diventano diaconi/servitori di culto e liturgia, il vino dell’alleanza ridona la vita. Il monte Sinai è di nuovo in mezzo, nel cuore dell’umanità che è in cerca di senso.
I diaconi si rendono forse conto che sta per succedere qualcosa di nuovo, per lo meno d’insolito, e vanno oltre l’ordine ricevuto. Gesù aveva detto loro di riempire le giare, ma essi le riempiono «fino all’orlo» e l’evangelista lo mette in risalto; essi prendono l’iniziativa «collaborativa», si assumono la responsabilità di partecipare interpretando il comando oltre le parole: i diaconi vanno allo spirito del comando e non si fermano alla lettera, «perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2Cor 3,6).
La loro ubbidienza è responsabilità, non pedissequa accondiscendenza passiva, che si ripiega su se stessa e si nasconde davanti all’ubbidienza formale deresponsabilizzante. Essi, i diaconi della nuova alleanza, ubbidiscono alla Parola, ma con atteggiamento libero ed eseguono con fantasia. Per usare una iperbole, si può dire che peccano per eccesso (cioè per sovrabbondanza d’amore), non per difetto (cioè per atteggiamento di grettezza) e questa è la caratteristica degli uomini e delle donne liberi che vivono la relazione con Dio e con gli esseri umani con amore e per amore.
Il discepolo supera la lettera e s’immerge nello spirito
Usando il termine «diàkonos – diacono/servitore» e non «dûlos – servo/schiavo», Giovanni pone lo schema «comando – esecuzione» sul piano della relazione affettiva, ristabilendo così una dimensione emotiva e sentimentale della liturgia, che non può essere solo eseguire dei riti «come prescritti», ma una esultanza di gioia per un rapporto d’amore.
È sufficiente osservare la celebrazione delle «Messe» (volutamente non diciamo «Eucaristia», termine troppo impegnativo!) ormai, con buona pace del Concilio Vaticano II, ridotte a pure pratiche di pietà, spesso individuali e di prammatica: bisogna «dire la Messa» tutte le mattine, mezz’ora e via; la domenica, massimo tre quarti d’ora, altrimenti la gente si stufa e non viene più; nella celebrazione si va avanti per forza d’inerzia e, via una Messa, avanti l’altra: una a ogni ora e a ciascuna sono presenti fisicamente una manciata di praticanti.
La Chiesa in questo modo è ridotta a una stazione di servizio, in cui l’atto d’amore travolgente che è memoriale dell’atto d’amore totale di Dio, rinnovo dell’alleanza per il mondo, dono permanente del monte Sinai nel cuore della storia, presenza del Calvario e del risorto incuneato nel cuore del Regno, atteso eppure già sperimentato, il Cristo spappolato sulla croce… tutto nel tritacarne di una Messa anonima, trascinata, cantilenata, abitudinaria, macinata con trascuratezza, velocità, come una qualsiasi pratica di pietà individuale!
«Disse ai diaconi», espressione forte di chi ha saputo distinguere tra «servitù e amicizia»: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Nel vangelo di Giovanni spesso Gesù si rivolge ai suoi discepoli, o ai discepoli ipotetici che ne accetteranno l’avventura, con parole di grande stima e dignità: «Se uno mi vuol servire (diaconêi) mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo (diàkonos). Se uno mi serve (diaconêi), il Padre lo onorerà» (Gv 12,26). La terminologia non è di dipendenza, ma di sequela: Gesù non è alla ricerca di schiavi e la Chiesa non è una massa anonima di gente che deve solo ubbidire; Gesù instaura relazioni di vita, basate sul discepolato («mi segua»), dove lui ha una proposta e i diaconi/amici la condividono, partecipando con la propria adesione libera e matura. Oggi si parlerebbe di «cristiani adulti». Come le pecore seguono «il Pastore bello» per ascoltare la sua voce, così gli amici/diaconi si mettono al servizio di Gesù perché il vino dell’alleanza possa arrivare a tutti gli invitati alle nozze, cioè a tutta l’umanità.
Il servo esegue, il diacono ama
I diaconi di Cana, esercitano la loro diaconìa ubbidendo creativamente al comando di Gesù: «L’obbedienza dei diakonoi di Cana a Gesù è il prototipo della diakonia nuova che d’ora in poi dovrà caratterizzare i discepoli di Gesù» (De la Potterie, Le nozze messianiche [1986], 101). In altre parole, i diaconi delle nozze di Cana non sono coreografici, cioè funzionali al racconto, ma figure centrali e anche simboliche, profetiche, perché essi anticipano già all’inizio del vangelo quello che saranno i discepoli, quando giungeranno a scoprire l’«ora» suprema della croce, della morte/esaltazione. Allora «il discepolo e la madre» si riceveranno reciprocamente perché dati in affido l’uno all’altra dall’alto e custodiranno il segreto di Dio che è l’amore senza condizione, l’amore senza contraccambio, cioè il servizio, la diaconìa motivata solo ed esclusivamente dall’amore a perdere.
Il servo è esecutore materiale e resta tale, perché è costretto a ubbidire esteriormente senza adesione del cuore: il servo non è obbligato ad amare il padrone che lo sfrutta. Al contrario, il diacono è il custode della parola e del comando del Signore, che accoglie con disposizione interiore di ascolto e di venerazione, perché sa che quella parola non è indirizzata a lui, ma attraverso di lui deve andare a quelli che verranno dopo: il diacono/amico è il depositario del mistero d’amore di Dio che egli deve spezzare per tutte le genti; egli sperimenta in sé quello che deve offrire a coloro ai quali è mandato perché il profeta può annunciare solo ciò che ha prima sperimentato e vissuto.
Solo nel contesto dell’amore libero e liberante si possono esprimere l’amicizia e la diaconìa che esigono come presupposto la disposizione interiore di accoglienza e di condivisione.
(32 continua)
Paolo Farinella