Star male da mangiare
Cause e conseguenze dell’obesità
Al problema della fame nel mondo si aggiunge l’obesità, che tocca un miliardo di persone.
Nei paesi ricchi ma anche in quelli poveri.
L’Italia è al primo posto in Europa per persone in sovrappeso. Le cause sono quello che mangiamo e il nostro modo di vivere. E l’obesità scatena una lunga serie di malanni.
Da sempre la fame nel mondo assilla l’umanità e tuttora muoiono di fame complessivamente più di 7,6 milioni di bambini in età prescolare ogni anno. Eppure a questo problema, ben lontano dall’essere risolto, se ne è aggiunto un altro, insospettatamente presente ovunque, anche nei paesi in via di sviluppo: l’obesità.
Secondo i dati dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), il numero di persone in sovrappeso nel mondo è di oltre un miliardo (di cui 300 milioni francamente obese), decisamente superiore a quelle che soffrono la fame, cioè 925 milioni (rapporto Fao del 2010). Una vera e propria epidemia.
Oltretutto l’Oms stima una crescita dell’obesità del 50% nei prossimi 10 anni. In alcuni paesi occidentali, come gli Stati Uniti, si calcola che solo una persona su tre sia normopeso, ma troviamo dati preoccupanti anche in Messico, Egitto e Sudafrica con più della metà degli adulti in sovrappeso, cioè con indice di massa corporea (Imc) pari o superiore a 25. L’Imc è il rapporto tra il peso espresso in chili e il quadrato dell’altezza espressa in metri. Negli stessi paesi un quarto della popolazione è obesa (Imc pari o superiore a 30). In quasi tutti i paesi dell’America Latina, in buona parte del Medio Oriente e del Nord Africa almeno un quarto degli adulti è sovrappeso. Ormai iniziano a fare i conti con questo problema anche paesi molto poveri come l’Uganda e la Nigeria.
Situazione Italia
Secondo i dati del ministero della Salute, l’Italia è al primo posto in Europa, con il 36% delle persone in sovrappeso. Un altro dato allarmante dell’Oms riguarda il tasso d’incremento dell’obesità infantile, che è in continua crescita. Complessivamente i bambini rappresentano la metà degli individui stimati in sovrappeso ed in particolare 40 milioni di loro sono clinicamente obesi nel mondo. Nel nostro paese, secondo un’indagine promossa dal ministero della Salute e condotta tra i bambini di 9 anni, in alcune città campione di Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, Campania, Puglia e Calabria, il 23,9% è in sovrappeso ed il 13,6% è obeso. Questa indagine inoltre ha evidenziato una maggiore prevalenza dell’obesità nelle città del Sud (16% a Napoli), rispetto a quelle del Nord (6,9% a Lodi).
Il problema dell’obesità si è ovunque acuito negli ultimi 20 anni, complici la sempre maggiore disponibilità di cibo e le innovazioni tecnologiche, che ci evitano una buona parte dei lavori faticosi.
Ma se questa situazione è più facilmente comprensibile nei paesi ricchi, viene da chiedersi cosa stia succedendo in quelli più poveri. In questo caso possiamo parlare di «transizione alimentare», cioè il passaggio dalla denutrizione all’iperalimentazione avvenuto in meno di una generazione. Chi si reca attualmente in paesi come Messico, Cina, India, Filippine può osservare situazioni molto diverse rispetto ad una ventina di anni fa: è aumentato enormemente il consumo di bibite, i ragazzini passano molte ore davanti alla tv, gli adulti si spostano sempre più in motorino anziché a piedi e il cibo viene comperato al supermercato, dove abbondano dolcificanti, oli di semi e cai a basso costo, conseguenza del business agroalimentare.
Inoltre è aumentata l’urbanizzazione. Peraltro si riscontra un aumento dell’obesità anche nelle aree rurali. Il Messico è forse il paese in via di sviluppo più colpito dall’epidemia di obesità: nel 1989 le persone in sovrappeso erano meno del 10% della popolazione, mentre l’obesità conclamata era praticamente inesistente. In un’indagine nazionale del 2006, il 71% degli uomini ed il 66% delle donne sono risultati in sovrappeso o obesi, una situazione molto simile a quella riscontrata negli Stati Uniti.
Sicuramente, tanto nei paesi meno sviluppati che in quelli ricchi, l’obesità prevale tra le persone povere e con un basso livello di istruzione.
Parallelamente alla crescita del numero degli obesi, in Messico è cresciuto quello degli individui ammalati di diabete di tipo 2 (o dell’adulto), che fino a 15 anni fa era pressoché inesistente, mentre ora ne soffre quasi un sesto della popolazione.
Tutti i mali dell’obesità
La situazione messicana rispecchia quella a livello mondiale: agli inizi del 2000 c’erano circa 170 milioni di individui affetti da diabete di tipo 2, mentre si prevedono 366 milioni di malati nel 2030, secondo l’andamento attuale. L’obesità, oltre che al diabete di tipo 2, risulta associata a una pletora di ulteriori problemi sanitari (che si riscontrano sempre più spesso anche tra gli obesi in età giovanile) come il rischio di sviluppare aterosclerosi, disordini neurodegenerativi, patologie dell’apparato respiratorio, alcune forme di cancro, sindrome metabolica (intesa come un complesso di condizioni legate all’obesità).
La sindrome metabolica è direttamente correlata a un aumentato rischio cardiovascolare, la principale causa di morte tra gli obesi. Certamente per l’insorgenza del diabete di tipo 2 è importante la predisposizione genetica, tuttavia vi sono parecchie evidenze che lo stile di vita e in particolare l’obesità svolgono un ruolo cruciale.
È emblematica, in tal senso, la storia degli indiani Pima, originari del Messico e migrati circa 2000 anni fa in Arizona, dove riuscirono a rendere fertile una zona desertica. Questa popolazione è geneticamente predisposta al diabete di tipo 2, tuttavia vivendo per secoli con una dieta ricca di fibre e di carboidrati complessi e povera di grassi, è riuscita a vivere a lungo priva della malattia. Agli inizi del ´900 gli americani colonizzarono quella zona, deviarono il corso di un fiume e resero nuovamente desertica l’area occupata dai Pima, che vennero risarciti dal governo americano con foiture di zucchero, farina e lardo. Le abitudini alimentari di questa popolazione variarono bruscamente, con il risultato che essi si ritrovarono con la più elevata prevalenza mondiale di diabete di tipo 2, in associazione all’obesità, cioè l’85% della popolazione. Analizzando gli indiani Pima rimasti in Messico, con le antiche abitudini alimentari, la prevalenza del diabete è risultata di poco inferiore al 10%.
Del resto, l’obesità favorisce un’alterazione del normale funzionamento del segnale dell’insulina, a livello cellulare, che si traduce nell’insulino-resistenza caratteristica del diabete di tipo 2. L’insulina è un ormone ipoglicemizzante prodotto dalla porzione endocrina del pancreas. Tale ormone stimola le cellule ad assumere il glucosio dal sangue (da cui la riduzione della glicemia) e a utilizzarlo per la produzione dell’energia utilizzata nelle molteplici funzioni cellulari.
È stato rilevato che l’80% dei pazienti diabetici è obeso e che la correlazione tra le due patologie è ancora più forte quando l’obesità è di tipo addominale. Entrambe le patologie risultano associate ad un incremento della disponibilità alimentare e ad una riduzione dell’attività fisica.
Problemi di comunicazione
L’organismo umano è programmato per fare fronte alle scarsità alimentari, per cui non è capace di rispondere adeguatamente a disponibilità praticamente illimitate di fonti caloriche, né all’enorme risparmio energetico derivante dall’utilizzo di macchinari, che ci evitano i lavori più faticosi. Il nostro corpo immagazzina l’energia in eccesso nel tessuto adiposo, che sarebbe meglio considerare come «organo adiposo» poiché capace di produrre ormoni propri, in particolare la leptina, una molecola che informa il cervello sul contenuto in grasso delle cellule adipose. L’informazione giunge all’ipotalamo, una parte del cervello che presenta il «centro della sazietà» e il «centro della fame». Altre informazioni importanti per la regolazione del livello energetico giungono al cervello da stomaco, fegato ed intestino.
È probabile che nelle persone obese esista un difetto di comunicazione tra gli organi suddetti e il cervello, con conseguente attivazione del «centro della fame».
Certamente l’enorme diffusione dei supermercati tanto nei paesi ricchi, quanto in quelli poveri ha reso facilmente disponibili in grande quantità e a costi relativamente bassi bevande dolcificate, cibi industriali, cibi di origine animale e oli di semi, cioè sostanzialmente alimenti ad alta densità energetica. Poiché il corpo umano regola l’appetito in base al volume di cibo introdotto, piuttosto che in base alle corrispondenti calorie, è evidente che la grande disponibilità di cibi altamente calorici è già di per sé un primo passo verso la diffusione dell’obesità.
Quest’ultima, secondo il rapporto Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) Obesity and the economics of prevention: fit not fat (2010) comporta una riduzione della vita di 8-10 anni per una persona gravemente obesa, e il rischio di morte prematura aumenta del 30% ogni 15 chilogrammi di peso in eccesso.
L’obesità comporta degli elevati costi sociali. Sempre secondo il rapporto citato, nei paesi dell’Ocse (a cui appartiene anche l’Italia), l’eccesso di peso è responsabile dell’1-3% della spesa sanitaria (5-10% negli Stati Uniti), ma questa spesa è destinata a salire con l’aumento delle patologie correlate all’obesità.
Spesso quest’ultima è caratterizzata dalla presenza di fame compulsiva, una sorta di dipendenza dal cibo del tutto simile a una tossicodipendenza.
Sia in un caso che nell’altro è stato infatti osservato un aumento dei livelli serici di dopamina dopo avere assunto il cibo o la droga. La dopamina è un neurotrasmettitore che conferisce una sensazione di benessere ed è coinvolta nei meccanismi di ricompensa e di motivazione comportamentale. Quindi il cibo, in particolari circostanze, può rappresentare una droga e, per giunta, non solo legalizzata, ma necessaria per la sopravvivenza, per cui diventa molto più difficile stae alla larga.
Fortemente responsabile dell’impennata dell’obesità mondiale è il cosiddetto «cibo-spazzatura» (i vari fast food, snack, preparazioni alimentari industriali, che ci fanno risparmiare tempo in cucina), particolarmente ricco di zuccheri semplici e di grassi saturi, e povero di frutta, di verdura e di cereali integrali. L’industria alimentare fa affari d’oro, grazie alla pubblicità martellante e al basso costo di questo tipo di cibo, il cui valore nutrizionale, inteso non soltanto come apporto calorico, bensì di vitamine, di oligoelementi, di grassi polinsaturi (utili per contrastare l’aterosclerosi) come gli omega-3, è decisamente molto basso.
Tra l’altro va detto che un target molto importante della pubblicità di prodotti alimentari sono i bambini al di sotto degli 8 anni, nei quali viene creata una vera e propria dipendenza psicologica dai cibi ad alto contenuto di grassi e di zuccheri, in modo da indirizzae le scelte future.
Secondo uno studio apparso su Nature, gli alimenti ricchi di grassi e di zuccheri creano la stessa dipendenza del fumo. Si intuisce, in tutto questo, l’enorme giro d’affari dell’industria alimentare prima e di quella farmaceutica dopo. E naturalmente di quella pubblicitaria.
Per contrastare l’obesità, in attesa di conoscere meglio i meccanismi biochimici, che ne sono alla base, valgono i vecchi buoni consigli del medico: alzarsi da tavola con ancora un po’ di appetito e fare gioalmente un po’ di attività fisica (lasciamo a riposo l’auto e l’ascensore, per esempio). E poi diamo la preferenza a frutta, verdura, cereali e grassi polinsaturi vegetali o presenti nel pesce grasso, piuttosto che a carne, grassi saturi di origine animale, zuccheri raffinati e pane bianco.
Rosanna Novara Topino