S.S.S.
AI LETTORI
Molti anni fa, prima di entrare in seminario, mi diedero un libro da leggere. S’intitolava
«I fioretti di p. Cencio». Era la biografia di p. Vincenzo Dolza, pioniere del Meru in
Kenya. Lessi e rilessi quel libro con tanta allegria e partecipazione, fin quasi a saperlo a
memoria. Ogni tanto, oggi, un ricordo riemerge. Due sono tornati con insistenza in una
notte insonne d’aprile – insonne perché ai primi di maggio riprendono le scuole in Kenya e le
scuole vogliono contanti, non promesse -: la storia dei «Canada» e dei «Canapia» e le sue
famose lettere agli amici con scritto un solo e grande «S.S.S.» e firmate «Cencio».
Avendo ricevuto una volta la visita di un cacciatore canadese di passaggio, divennero subito
amici. Questi, vedendo l’estrema povertà del padre, si offrì di aiutarlo. P. Cencio gli spiegò che
erano fatti l’uno per l’altro, perché uno proveniva dal «Can-a-dà» (colui che da, in piemontese)
e, l’altro era cittadino di «Can-a-pia» (colui che prende). Invece l’«S.S.S.» significava semplicemente
«Sono Senza Soldi»; plastica espressione per indicare il suo stato di perenne indebitato a
causa della generosità con cui si dedicava ai poveri (vedi foto p. 65, MC 12/2011). P. Cencio aveva
imparato bene dall’Allamano che il missionario deve essere un canale per quel che riguarda i
soldi e una conca nel suo rapporto con Dio. Quel vecchio libro dovrebbe far parte dei testi di
formazione nei seminari missionari e probabilmente farebbe del bene anche a molti politici
nostrani.
Non sono sicuro di aver imitato p. Cencio nell’essere una conca di santità, ma quanto all’altro
aspetto, un po’ ci ho provato. Quando sono partito per il Kenya nel 1988, non ho cercato soldi,
perché non li consideravo una priorità. Sognavo l’evangelizzazione pura: catechesi, formazione,
testimonianza, camminare con la gente, imparare da loro ed essere «povero con i poveri».
È andato tutto bene fino a quando non mi sono scontrato faccia a faccia con la povertà, anzi no,
con i poveri, quelli veri, di carne e ossa, con nome e cognome, una faccia, una storia, un odore.
Incontri fatti spesso solo di un semplice sguardo, un gesto, pochissime parole, o scontri fatti
anche di storie lunghissime che puzzavano pure d’imbroglio, forse goffo tentativo di coprire con
un po’ di orgoglio una dignità umiliata dalla miseria. Da allora sono diventato anch’io un
«canapia», non per me, non ne ho bisogno, ma per quelli che, volente o nolente, mi accompagnano
sempre – «i tuoi poveri, i tuoi bambini» -, anche quando vado a mangiare una pizza con gli amici.
Perché vi scrivo questo? Il binomio «missione=soldi per i poveri» è talmente solido nella
mente di tanti buoni cattolici da indurre gruppi missionari a definirsi tali più per quanto
raccolgono in favore del loro progetto che per come vivono la missione. Ci sono poi molti
missionari che sono diventati quasi «prigionieri» dell’aiuto ai poveri, a causa della crisi
economica, ormai mondiale, che ha impoverito i donatori, riducendone le risorse, e peggiorato
la situazione dei poveri con l’aumento dei prezzi e del costo della vita, e sta rendendo impossibile
sostenere programmi e progetti come scuole, orfanotrofi, ospedali e adozioni che esigono
continuità. L’equilibrio di un tempo è saltato e la crisi è pagata soprattutto da chi è già povero.
E il missionario si sente tra l’incudine e il martello.
La crisi di cui tutti parliamo e soffriamo evidenzia un sistema che non ha più l’uomo al centro,
ma il profitto per il profitto; un sistema che premia la speculazione (a vantaggio di pochi) e
penalizza il lavoro di chi, in fondo, è trattato peggio di uno schiavo; una monetizzazione del
tutto (anche dell’uomo), dove l’azzardo finanziario (ormai democratizzato dal «gratta e vinci»)
conta più del sudore della fronte e gli algoritmi di banche e fondi d’investimento mandano a
K.O. nazioni intere.
Che senso ha in questa situazione un missionario che scriva agli amici un «S.S.S.»? Forse è
uno che, nonostante tutto, ha ancora fiducia nell’uomo perché ha fede in Dio, il Dio fatto uomo
in Gesù Cristo. Crede ancora che nel cuore di ogni persona, anche quella in difficoltà, ci sia
una capacità di compassione e di solidarietà inesplorata e inestinguibile, una capacità d’amore
che nessuna crisi economica può uccidere, perché imparata dal Figlio di Dio, un Dio dalla
parte dei poveri.
Gigi Anataloni
Gigi Anataloni