Resistenza e dignità

Gli indigeni del Cauca

Sono pochi, ma combattivi. Nel Cauca, il movimento indigeno, nato dalla lotta di Manuel Quintín Lame, ha pagato il suo impegno con una lunga serie di morti. I più conosciuti sono padre Alvaro Ulcué (1984) e Cristobal Secue Tombé (2001). Ma il tributo di sangue continua ancora oggi. La guerriglia, i paramilitari e la forza pubblica non gradiscono un’opposizione, che fa della resistenza nonviolenta la propria forza.

In Colombia, su una popolazione totale di 47 milioni di abitanti, gli indigeni sono un milione e 400mila1. «Molti sostengono – racconta padre Roattino – che gli indigeni siano l’unico gruppo sociale che protesta e che si fa sentire». Questo vale soprattutto per gli indigeni del Cauca, appartenenti in maggioranza all’etnia nasa. Le loro mingas suscitano sempre molto clamore. «In effetti – conferma il missionario -, riescono a mobilitare 15-20 mila persone in marce di 4-5 giorni per arrivare fino a Bogotà. Hanno visibilità, anche se poi questa non produce frutti per quanto riguarda la risposta dello Stato. Le firme sono fatte su accordi che vengono regolarmente disattesi dalle autorità. Tuttavia, le mingas sono fondamentali per generare coscienza e solidarietà a livello nazionale».

L’oggetto del contendere è sempre lo stesso: la terra. Per i bianchi, essa è soprattutto una questione economica. Per gli indios, è innanzitutto una questione mistica: la terra è madre. Da difendere a costo della vita.
In Cauca, uno dei primi a parlare di diritti indigeni sulla terra è Manuel Quintín Lame (1880-1967), indio di padre nasa e madre guambiana. La sua lotta inizia combattendo il sistema del terraje. Questo prevede che i coloni (ex schiavi) paghino ai latifondisti un «affitto» costituito in parte da prodotti agricoli, in parte da giorni di lavoro gratuito. Non riuscendo ad ottenere risultati, Lame si fa più ardito iniziando a chiedere la restituzione della terra ai legittimi proprietari, gli indigeni. Una lotta impari, soprattutto per le terre più produttive, quelle in pianura. Tutte le volte in cui gli indios nasa si sono spinti verso le «terre basse», in mano al latifondo o ai paramilitari, è sempre finita nel sangue. Come ricordano il massacro di López Adentro (1984) o quello del Nilo (1991). Ma da anni il problema è anche sulle «terre alte» (conosciute come «tierras quebradas»), in mano agli indigeni, che sono state invase dagli attori del conflitto armato (la guerriglia, l’esercito, i paramilitari) e, più recentemente, dalle imprese multinazionali.
«Oggi – spiega padre Roattino – la vera ricchezza è data dalla enormi riserve di acqua. Si parla di migliaia di sorgenti idriche, centinaia di lagune. Quest’acqua beneficia tutta l’industria della Valle del Cauca e le grandi coltivazioni di canna da zucchero, ma gli indios – unici a poter accampare diritti – non ricevono nulla. Ed anzi rischiano di vedersi espropriati se non stanno all’erta».

Dopo la morte di Manuel Quintín Lame, nel febbraio del 1971 nasce il «Consiglio regionale indigeno del Cauca» (Consejo regional indígena del Cauca, Cric). Ma la lotta degli indigeni della regione trova nuovo impulso quando – è l’anno 1973 – sulla scena appare Álvaro Ulcué Chocué, il primo sacerdote di etnia nasa della Chiesa cattolica colombiana. Padre Roattino ha conosciuto bene padre Alvaro, avendo lavorato con lui dal 1982 al 1984 nei resguardos di Toribio, Jambaló e Taquejó. «Alvaro non soltanto ha marcato un’epoca, ma ha segnato in profondità la coscienza indigena».
Il sacerdote nasa voleva svegliare, scuotere l’indio che la colonia aveva umiliato e standardizzato. Voleva «decolonizzare la mente» degli indios. In primis, riappropriandosi della lingua madre, tratto essenziale dell’identità indigena.
«Una volta – racconta padre Ezio – mi convocarono quelli del Das, Departamento Administrativo de Seguridad. Uno dei punti su cui i servizi segreti vollero interrogarmi era proprio la lingua. “Padre, dicono che lei parli la lingua indigena. Dunque, chi non la conosce non può capirla”. Volevano dirmi: “Lei nasconde delle cose”. Il potere voleva controllare, ma per farlo basta fare una cosa: imparare la lingua. Cosa non facile invero, anche all’interno dei nasa. Un giorno feci salire in auto una ragazza di 15-16 anni che veniva da Cali e andava al suo villaggio. Le chiesi in lingua nasa: “Come stai?”. Lei mi rispose: “Buongiorno, padre”. In spagnolo. “Scusa – le dissi -. Ma tu non sei indigena?”. E lei: “Mia madre era indigena”. Che tradotto significava: per me non è più così».

Nel gennaio 1984 gli indigeni recuperano (non occupano) un latifondo a Corinto: la Hacienda López Adentro, una «terra bassa». Vi rimangono per circa un anno. Il 9 di novembre arrivano i militari che distruggono tutto: 300 ettari di coltivazioni, case e macchinari. Il giorno dopo, 10 novembre 1984, muore padre Alvaro Ulcué, ammazzato a Santander de Quilichao da 2 sicari. «Non fu una coincidenza – spiega padre Roattino -, ma un avvertimento: gli indios si erano spinti troppo in là. Quindici anni dopo sarebbe toccato a Cristobal, altro leader indigeno molto impegnato e deciso nell’azione del recupero delle terre».
Cristobal Secue Tombé viene assassinato il 25 giugno 2001, nel municipio di Corinto. Da allora è stato (è) uno stillicidio. Secondo dati ufficiali di Somos defensores2, nel 2010 in Colombia sono stati assassinati 32 difensori dei diritti umani. Di questi, 11 erano indigeni, di cui ben 8 del Cauca.

Sono passati 500 anni dalla Conquista: l’indio di oggi non è più quello di ieri. «Alcuni leader – spiega Roattino – vorrebbero tornare al passato, dimenticando che anche l’indio è nel 2012. Non si può dire: “Sii indio”. Ci sono indios che non vogliono essere tali. Non si può obbligare, imporre. Occorre dire: “Sii indio, se vuoi”. Personalmente, vedo 3 tipi di indio: c’è quello tradizionale che vuole essere la fotocopia del passato, c’è quello moderno che critica le tradizioni e c’è l’indio nuovo. Quest’ultimo è quello che ha una radice antica, che prende dal passato senza però dimenticare il tempo in cui vive». Un tempo segnato dalla strenua difesa della terra e della propria identità. Lungo questa difficile strada si sono incamminati i 120 mila indigeni del Cauca. A dispetto delle Farc, dei paramilitari e dello Stato colombiano.

Paolo Moiola

Note
1 – La cifra è quella dell’ultimo censimento (anno 2005) effettuato dal Departamento administrativo nacional de estadistíca (Dane). Secondo la stessa fonte, gli afrocolombiani sono poco meno di 4,3 milioni.
2 – Rapporto 2010 di Somos Defensores.

Paolo Moiola

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