Figlio della savana

Intervista con il cardinale Polycarp Pento, arcivescovo di Sar es Salaam

Nato nel 1944 in un villaggio della diocesi di Sumbawanga, Polycarp Pengo fu ordinato prete nel 1971; laureato in teologia morale all’Alfonsiana (Roma), fu rettore del seminario maggiore di Segerea (1978-83); consacrato vescovo di Nachingwea nel 1984, fu trasferito nella diocesi di Tunduru-Masasi (1986) e poi a quella di Dar Es Salaam (1990) come coadiutore del card. Rugambwa, a cui succedette nel 1992. Fu creato cardinale nel 1998.

Il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam e presidente del Simposio delle Conferenze episcopali d’Africa e Madagascar (Secam) è stato uno dei protagonisti della II Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi (Roma, 4-25 ottobre 2009). Sintesi di tale Assemblea è l’esortazione apostolica postsinodale Africarne Munus, un documento che «darà alla Chiesa nuovo slancio per costruire un’Africa riconciliata nel cammino della verità, giustizia, amore e pace, e al Tanzania uno stimolo nuovo per una fede più matura» afferma il cardinale.

Cardinale Pengo, fra gli eventi significati della sua vita, certamente vi spicca il giorno in cui fu nominato arcivescovo di Dar Es Salaam. Quali furono, allora, i suoi sentimenti e quali sono oggi?
Entrai in servizio effettivo come arcivescovo di Dar Es Salaam nel 1992 e avevo una grande paura. Mi dicevo: «Polycarp, tu sei un figlio della brughiera e della savana! Che cosa farai in una grande e modea città? Come ti accoglierà la gente?».

La gente l’ha accolta bene e continua a farlo.
È vero. E di questo ringrazio il Signore.

Si dice che i tanzaniani, religiosamente, si dividano in tre gruppi uguali: il 33 per cento sono i cristiani e altrettanti sono i musulmani e i seguaci delle  religioni tradizionali. Qual è il rapporto fra cattolici, luterani, anglicani, «salvati», ecc.?
Il rapporto fra i cristiani cattolici, luterani e anglicani è buono. È molto migliorato rispetto a qualche decennio fa. Oggi, ad esempio, nell’ospedale governativo «Muhimbili» di Dar Es Salaam i cristiani condividono la stessa cappella, pur conservando le loro differenze dottrinali. Invece, con i «cristiani salvati» (walokole) abbiamo grossi problemi.  Questi vanno a caccia dei loro fedeli nelle varie chiese e imbrogliano le persone religiosamente e psicologicamente. Assai meglio è relazionarsi con i musulmani, perché conosci bene il loro pensiero. Quanto al numero, i dati citati sono superati, perché i cattolici da soli coprono il 27 per cento della popolazione e superano i musulmani.

Circa l’islam, Lawrence Mbogoni scrisse: «Durante gli anni 1985-95 gruppi di musulmani disprezzarono con asprezza i cristiani; il disprezzo culminò il 13/02/1998 allorché 2 cristiani furono uccisi e molte abitazioni distrutte»1. Eminenza, oggi qual è il rapporto fra cristiani e musulmani?
I disordini del decennio 1985-95 furono causati da diversi giovani musulmani, disoccupati, mandati a studiare l’islam fondamentalista in Egitto o in Arabia Saudita. Al loro ritorno in Tanzania, manifestarono la loro ostilità verso i cristiani saccheggiando molti negozi di carne suina a Dar Es Salaam e compirono altre distruzioni. Oggi non si registrano più atti del genere. Tuttavia l’ostilità verso i cristiani persiste. Non mancano gli insulti. La polizia sente tutto e sa tutto, ma non interviene. La mia paura è che i cattolici, che ora sopportano tutto in silenzio, un giorno perdano la pazienza. E allora saranno guai, purtroppo.

Il 2011 è stato un anno significativo per il Tanzania, perché ha celebrato 50 anni di indipendenza. Secondo il giornale «Mwananchi», lei commentò l’evento in questi termini: «Nei 50 anni passati abbiamo avuto dei successi. Ora dobbiamo darci da fare affinché, quando celebreremo il centenario della nostra indipendenza, non si dica: era meglio al tempo dei colonialisti». E aggiunse: «La nostra nazione nasconde gruppi di traditori, egoisti, capaci anche di uccidere i loro compagni pur di acquisire potenza e ricchezza»2. Eminenza, queste sono parole pesanti. Forse troppo pesanti, o mi sbaglio?
Sì, sono parole pesanti. Però ritengo che sia mio dovere denunciare con verità e chiarezza la situazione difficile del Tanzania. L’uomo della strada, di fronte a tante prevaricazioni subite, ha bisogno di una parola forte, affinché si cambi rotta. Altrimenti, potrebbero succedere grossi guai anche in Tanzania.

Da poco è uscito il documento di Benedetto XVI «Africarne Munus», che riguarda il Sinodo dei vescovi africani (Roma, 4-25 ottobre 2009). La Chiesa in Africa sta affrontando problemi cruciali che possono scoraggiare. Nel documento il papa scrive: «Scongiuro la Chiesa universale a guardare l’Africa con occhi di fede e speranza»3. Eminenza, che cosa consiglia al Tanzania?
In Tanzania noi cattolici dobbiamo rendere più matura e concreta la nostra fede cristiana. Troppi cattolici vivono ancora secondo la fede tradizionale-pagana, che non è la fede cristiana. Ad esempio: di fronte a una difficoltà (riguardante soprattutto la salute), il tanzaniano a chi si rivolge? Si rivolge al «curatore tradizionale» (che spesso è anche stregone). Questo è un segno chiaro che non si è ancora cristiani, che la fede è ancora pagana. Non abbiamo assunto la rivoluzione-liberazione di Gesù Cristo. E non dimentichiamo che  Gesù non ci ha salvati percorrendo la strada della ricchezza, del prestigio e delle comodità. Inoltre non ha ucciso nessuno, ma si è lasciato uccidere, dopo aver sofferto una morte atroce. Questo è il dono della sua salvezza. È nostra responsabilità accoglierla così com’è. Non imbrogliamoci né imbrogliamo con tante parole. Non cadiamo nella tentazione di ricambiare i torti patiti, anche di fronte ai musulmani. Costruiamo la fede su Gesù Cristo che perdonò tutti, morì in croce e, dopo tre giorni, risorse.

Anni fa lessi un articolo di un missionario, intitolato «Io sono uno straniero nella casa di mio Padre» (I am a stranger in my Father’s house). Perché il missionario, anche dopo tanti anni di lavoro, si sente ancora mzungu, cioè un «diverso», un pesce fuori dall’acqua?
Questo fatto rattrista un poco. Però non è un dato comune. Molti missionari si sentono a casa loro nella cultura del Tanzania o di altri paesi. Conosco missionari della Consolata e di altre congregazioni che rifiutano di ritornare in patria, che dicono: ora i miei fratelli sono questi e non quelli del paese in cui sono nato, che non mi conoscono nemmeno per nome.

Francesco Beardi

1    Cfr. Lawrence E. Y. Mbogoni, The Cross versus The Crescent (Religion and Politics in Tanzania from the 1880s to the 1990s), Dar Es Salaam 2004, 171-184.
2    Mwananchi, Agosti 14, 2011.
3    Africarne munus, Esortazione postsinodale di Benedetto XVI, 2011, 5.

Francesco Beardi

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