Cana (31): La gioia è la vera purificazione cristiana
Gv 2,6 (c): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra],
contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»
Abbiamo già detto che Gv 2,6 è il cuore della narrazione (cf MC 9 -2009); riproponiamo per comodità lo schema dell’intero racconto di Cana per ricordare la sua struttura circolare: partendo dall’inizio e dalla fine tutto converge verso un centro, qui verso le giare di pietra, finalizzate alla purificazione, come l’arrivo al monte Sinai è finalizzato al dono della Toràh scritta su tavole di pietre, momento supremo di rivelazione che deve essere preparato degnamente attraverso la purificazione del popolo.
2,1Cana di Galilea, nozze, madre, 2Gesù, i suoi discepoli.
3Manca il vino; intervento della madre.
(4)5I servitori/diaconi invitati a ubbidire.
6Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei, collocate
[per terra], contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri).
(7)8I diaconi attingono (= ubbidiscono) e «conoscono».
10Il vino buono [bello] conservato; intervento dell’architriclino.
11Cana di Galilea, la gloria manifestata e la fede dei discepoli.
Se Gv 2,6 è il centro del racconto, dobbiamo prendere atto che il matrimonio è solo un’occasione esteriore e non l’obiettivo dell’evangelista; che la madre ha una doppia funzione: di rappresentanza del passato e di passaggio al nuovo; che i discepoli svolgono il ruolo che fu del popolo d’Israele ai piedi del Sinai e che le giare/tavole di pietra, svolta la loro funzione di purificazione, devono cedere il passo alla Toràh dello Spirito che proviene dall’umanità del Signore.
Le giare di pietra nella tradizione rituale
Siamo di fronte a una rilettura di tutta la storia della salvezza, riproposta in chiave nuova, di fronte a una situazione completamente nuova. La novità per eccellenza è data dalla presenza del Figlio, chiave di volta sia dei segni sia del contenuto. «Il Messia entra nelle antiche nozze, nel popolo che vive sotto l’antica alleanza, ma come invitato. Non appartiene ad essa, è soltanto ospite, e così pure i suoi discepoli, che fanno gruppo con lui. La madre vive all’interno dell’alleanza antica; Gesù e i suoi no. La presenza di Gesù sta per mettere in moto la scena» (J. Mateos-J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 138). Ecco la novità che non riguarda più la purificazione esteriore, ma l’ordine e il confine della coscienza e responsabilità morale.
Le giare sono di pietra e non di coccio; sono quindi molto preziose perché esigono una lavorazione laboriosa e lunga che le rende anche care da un punto di vista economico. Le giare sono «di pietra» e il termine greco «lìthinai» è unico in Gv (tecnicamente si dice è un hàpax legòmenon, detto una sola volta). Esse rispondono alle esigenze per la purità prescritte nel libro del Levitico, capitolo 11, dove però non si parla di materiale «di pietra», ma di «utensili di legno o di «vaso di terra» (cf Lv 11,32-33). È la tradizione giudaica che dichiara espressamente: «I vasi di pietra (kelè ‘abanìm) non ricevono impurità» (Ghemaràh del Talmud di Babilonia, Shabbàt 96a; cf anche Mishnàh, Teharòt – Cose pure, Iadaìm – Mani, I,2; Kelìm – Oggetti, X,1). Su questo punto tra i rabbini sorprendentemente non sorgono discussioni per cui si deve ritenere che fosse una tradizione abituale e pacificamente accettata da tutti fino alla distruzione del tempio nel 70 d.C.
Gli scavi archeologici dell’ultimo secolo e mezzo (1870-1970), hanno portato alla luce molti e grossi recipienti di pietra, la cui tecnica di lavorazione deve essere andata perduta per mancanza di trasmissione, dovuta alla diaspora dopo la distruzione del tempio e all’impossibilità di usare recipienti così ingombranti per la loro pesantezza (cf J. Gonzalez Echegaray, Arqueología y evangelios, Navarra 1994, 199-201).
Oggi possiamo recuperae l’uso, nonostante siano trascorsi oltre due mila anni di silenzio. Se si vuole, possiamo dire che l’archeologia dà una testimonianza indiretta della veridicità del Vangelo, quanto meno che il racconto di Cana è verosimile con gli usi e le leggi di purità in uso presso gli ebrei al tempo di Gesù.
Dalla penitenza alla gioia
L’acqua che contenevano era quella «per la purificazione dei Giudei» (katà ton katharismòn tôn Iydàiōn). In greco si usa la preposizione propria katà che esprime una relazione tra due soggetti/oggetti. Dal punto di vista delle giare si sottolinea il fine: giare per/destinate alla purificazione; se invece si vuole mettere in rilievo il secondo termine, che è «purificazione», allora si sottolinea la necessità, l’obbligo della loro presenza: giare di pietra necessarie per la purificazione. Sia l’uno che l’altro versante esprimono la funzione delle giare, sottolineata ancora di più dal fatto che erano «collocate/giacenti [per terra]». Le giare sono sei e non sette, cioè sono in numero imperfetto (= 7-1), perché indicano che l’obiettivo per cui esistono, cioè la purificazione, è per sua natura imperfetta (cf J. Mateos-J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 141).
San Paolo esprime questo stesso pensiero dicendo che la Toràh non ha in se stessa la forza di realizzare la comunione con Dio perché il suo compito era pedagogico, di accompagnamento a Cristo: «Ma prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi e rinchiusi sotto la Legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo» (Gal 3,23-25; cf 1Cor 4,15; Rm 4,14-15; 7,7-25).
Gesù non dà eccessiva importanza alle norme di purità; anzi, le contesta spesso e volentieri in tutta la sua vita (cf Mt 23,25-28; Mc 7,1-15; Lc 11.39), perché esse sono «di pietra»: impongono pesi che schiacciano, mentre la proposta di Gesù è un «giogo dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,30).
Quando la legge, qualsiasi legge, specialmente quella morale è astratta e non tiene conto delle condizioni oggettive delle persone, è un impedimento enorme che ostacola la vita piuttosto che sostenerla. Il bisogno costante di purificazione, l’ansia, anzi l’ossessione della colpa, che oggi potremmo chiamare il senso di colpevolezza, non porta da nessuna parte, toglie solo la gioia della vita che non viene vissuta più come dono, ma come condanna. Sono le giare di pietra che stanno lì piene di acqua, pronte per la purificazione, ma inefficaci, inutili, immobili: «giacenti». Come la confessione per molti cattolici: ci si confessa sempre per ricominciare d’accapo. Questa loro inutilità è trasformata dalla presenza del Signore che le riempie di vino giornioso, perché con l’avvento del Signore Gesù è la gioia la sorgente della purificazione e dell’incontro (cf M. Morgen, Le festin des noces de Cana, 142).
Ascesi o esultanza di vita?
Secoli di ascesi ci hanno allontanato dal cuore del Vangelo e ci hanno scaraventato nell’abisso della desolazione: la persona votata a Dio doveva entrare nell’inferno della mortificazione, della rinuncia, del sacrificio; tutto era tetro e contro Dio, tutto era peccato, e quindi bisognava confessarsi sempre, spesso: si passava la vita tra esami di coscienza e fustigazioni, tra penitenze e mortificazioni che umiliavano l’uomo «fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore… coronato» (Sal 8,6). Essere cristiani significava quasi essere ossessionati, rinunciatari, mortificati.
Gesù sostituisce l’acqua della purificazione con il vino dell’esultanza, perché il «Vangelo» è, anche etimologicamente, «una notizia che porta gioia» e allegrezza. Il «Vangelo» è la Persona stessa di Gesù che viene a sedersi alla mensa della nostra vita per celebrare con noi le nozze dell’alleanza.
In questo contesto si capisce ciò che intende l’autore della prima lettera di Giovanni: «In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,19-20), perché «Dio è Agàpē» (1Gv 4,8.16) e giudica meglio del nostro cuore, cioè della nostra coscienza (cf Rm 2,15; Ef 1,18).
La staticità immobile delle giare distese per terra emerge nitida e forte, quasi ad imprimere bene nella mente del lettore che la Toràh «di pietra» è diventata così pesante e inamovibile da schiacciare sotto il proprio peso chiunque se ne fosse fatto carico.
Il profeta Ezechiele lo aveva previsto e descritto:
«25Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, 26vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. 27Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36,25-27).
Per il profeta la pietra è simbolo di un cuore senza amore, ossessionato dall’osservanza religiosa, ma incapace di amare e di respirare la libertà dei figli di Dio. È necessario un trapianto cardiaco per estirpare l’immobilità pietrificata della Toràh che si riduce a un’osservanza esteriore e sostituirla con un afflato di sentimenti (spirito) che incontra la Toràh come motivo di affetto e relazione che esigono due cuori innamorati in movimento reciproco dell’uno verso l’altro.
I rabbini del dopo esilio avevano codificato la Toràh in una serie di 613 precetti da osservare per essere un buon giudeo. È l’estensione a dismisura non tanto della legge morale, ma della ossessione per la casistica che non lascia nulla al caso o alla determinazione della libertà personale, ma tutto è previsto, stabilito e codificato.
Dalla religione dell’obbligo
alla fede dell’amore
Al tempo di Gesù l’osservanza di tutti i precetti della Torah (Sir 51,26; Ger 2,20; 5,5; Gal 5,1) erano considerati un giogo pesante da portare. Il Talmud babilonese (trattato Makkoth 23b, tradizione di Rav. Simlai, amoraita del III sec. d.C.) insegna che la Toràh contiene 613 mitzvòt – precetti (ebr.: Tariàg mitzvòt) dei quali 248 sono mitzvòt asèh (comandamenti positivi, prescrizioni) e sono in numero uguale ai pezzi che compongono il corpo umano (ossa, nervi, ecc.); 365 sono mitzvòt taasèh (comandamenti negativi, divieti) e corrispondono ai giorni dell’anno solare. Il senso è semplice: la Toràh deve essere osservata con tutta la persona (248 ossa, nervi, ecc.) con un impegno che deve durare tutto l’anno (365 giorni; Cf Rav. Simlai, amoraita del III sec. d.C. in Makkot 23b.).
Le donne erano dispensate dall’osservare i precetti negativi per lasciare loro una certa flessibilità nel loro impegno familiare, mentre erano obbligate a quelli positivi. Tuttavia esse potevano, se volevano, osservare anche i precetti negativi.
Il numero 613 si ricava dalla ghematrìa: la parola Toràh in ebraico (T_W_R_H) ha un valore numerico di 611 (400+6+200+5), a cui devono aggiungersi i due pronomi personali con i quali Dio si presenta nel consegnare l’intera Toràh a Mosè sul Sinai (Es 20,2-3; Dt 5,6-7). La somma di 611+2 dà il risultato di 613.
I farisei pensavano che il popolo non potesse salvarsi perché incapace di osservare tutti i precetti prescritti. Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh per scoraggiarlo (Talmud, Berakot 30b).
Il giogo però indicava anche la fatica quotidiana dello studio della Toràh che equivale all’osservanza di tutti i comandamenti presi nella loro totalità (Cf Mishnàh, Pèah/Angolo, 1,1; Talmud, Shabàt 127a).
Giovanni nel prologo parla di «Lògos» al singolare, che è una magnifica contrapposizione all’inflazione delle «parole» che dominava il suo tempo. La «pienezza del tempo» si caratterizza per il fatto che la Parola per eccellenza, la Toràh, la creazione e i comandamenti non sono altro che anticipi, prolessi dell’unica Parola che è il Figlio di Dio, il quale non ha più bisogno di molte parole per manifestare il volto di Dio; ma ora è lui stesso, il Figlio prediletto, che diventa Parola. Per questo sul monte Tabor, la voce celeste ordinerà di ascoltarlo (cf Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35).
In questo contesto si situa la necessità di una purificazione costante, a motivo della quale le case dovevano essere attrezzate con recipienti di acqua, come attesta anche l’evangelista Marco:
«1Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. 2Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate, – 3i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi 4e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie, oggetti di rame -, 5quei farisei e scribi lo interrogarono: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”» (Mc 7,1-5).
Anche l’autore della celeberrima Lettera dello pseudo-Aristea (sec. II a.C.) che narra la leggenda della traduzione in greco della Bibbia ebraica, osserva che i settanta sapienti mandati da Gerusalemme in Egitto, quotidianamente «secondo poi la consuetudine dei Giudei… dopo essersi lavate le mani nel mare» (Lettre d’Aristée …232), compivano la purificazione prescritta. Lo stesso facevano gli Esseni di Qumran: prima di pranzo «immergono/bagnano il corpo in acqua fredda e dopo questa purificazione» prendono posto alla comune «mensa considerata come un luogo santo» (Flavio Giuseppe, GG II,8,5).
Le giare di pietra
profezia dell’umanità di Dio
La purificazione è essenziale nell’ebraismo perché ogni azione e luogo può contaminare e rendere inabili al culto liturgico, a celebrare lo Shabbàt e la preghiera. In Marco, che abbiamo appena citato, i farisei rimproverano Gesù perché «alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate» (Mc 7,2). Gli stessi Giudei, prima della festa di Pasqua salgono a Gerusalemme per purificarsi e potere essere adatti alla celebrazione: «Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi» (Gv 11,55) e quando chiedono la condanna di Gesù da parte di Pilato «non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (Gv 18,28).
Gesù porta un’altra logica perché non è più la purità legale o rituale che conta, ma la purezza del cuore, cioè la trasparenza della coscienza che si nutre della Parola di Dio, cioè del Lògos, cioè di Dio stesso: «Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato» (Gv 15,3).
La purificazione avviene attraverso l’acqua, tema centrale in tutto il quarto vangelo: il capitolo quarto descrive l’incontro di Gesù con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe; tra i due si instaura un duetto sull’acqua che dà sete e sull’acqua che disseta per la vita eterna attraverso la parola di Gesù Messia (cf Gv 4,10.26); il cieco alla piscina di Betzatà deve immergersi nell’acqua agitata dall’angelo (cf Gv 5,1-7); il cieco nato deve lavarsi alle acque di Sìloe (cf Gv 9,7) e l’umanità nuova nata sotto la croce, rappresentata dalla madre e dal discepolo, sono lavati dall’acqua e dal sangue sgorgati dal costato di Cristo (Gv 19,26.34). Le giare di pietra, inutili alla purificazione che si apprestano a contenere il vino giornioso dell’alleanza, ora sono profezia dell’umanità di Dio.
(31 continua).
Paolo Farinella