Spiritualità e armonia

La comunità di Saint Antornine

La comunità dell’Arca di Saint Antornine, in Val d’Isère, è stata aperta nel 1997. È un concentrato di saggezza e spiritualità. Tra le comunità dell’Arca è quella più all’avanguardia in termini di aggioamento del pensiero del movimento e della sua applicazione. Vi entriamo insieme.

A causa di quel mio terzo occhio che cerca di mettere a fuoco ciò che gli altri due ignorano, mi interessano da sempre le realtà parallele. Uno sguardo plurale, si potrebbe definire oggi, che allarga visivamente ed emotivamente la conoscenza verso stili di vita e mondi «altri» da noi. Ecco cosa mi ha mosso verso la comunità dell’Arca: la sete di incontrare chi ha scelto, con coraggio, di cambiare rotta. Una scelta che solo attraverso la testimonianza e il racconto può giungere a contagiare qualche animo sopito.
Alla Communauté de l’Arche – nonviolence et spiritualitè – Saint Antornine l’Abbaye arriviamo la sera, al buio dopo un lungo viaggio in macchina. Ogni luogo ha un suo perché e non è un caso se l’Arca trova in questo antico villaggio medioevale la sua collocazione. Saint Antornine l’Abbaye è una finestra nel tempo, un invito alla pace e alla contemplazione. «Sarà la bellezza a salvare il mondo», disse Dostoevskij e attorno a questa considerazione ruota quasi tutta la filosofia di Giuseppe Lanza del Vasto, che a partire dal suo più noto scritto «Pellegrinaggio alle sorgenti» fino ai dialoghi, trasmette al pubblico e ai suoi successori diretti un’intensa ricerca interiore della Bellezza, tradotta in pace, armonia e spiritualità, e fatta confluire nell’immagine della festa.
Un arco segna l’ingresso nel villaggio al cui  interno, una manciata di case e botteghe in formato presepe ruota attorno alla storica abbazia. A ridosso dell’abbazia sorge l’antico complesso dell’Arca. Nella calma ovattata del paese, nel freddo pungente dell’inverno e nelle ultime luci della sera, nulla stona in questo angolo di mondo. La bellezza del paesaggio scompare di fronte al rivelarsi di un altro modo di vivere e di un’altra umanità che della scelta radicale della pace ha fatto la sua ragione di vita.
Lo storico palazzo in cui risiede la comunità dell’Arca è segnalato da una semplice freccia di legno. Bussiamo al portone in ferro battuto ed entriamo in un lungo corridoio abbellito al soffitto da oamenti botanici. Ad attenderci c’è Anna Massina. Forte e decisa, vitale e grintosa nel suo abbigliamento casual con un tocco esotico, Anna ci accoglie con un sorriso e un po’ di sorpresa per il nostro ritardo. Trentacinque anni di vita nell’Arca, Anna sarà il nostro cicerone italiano alla scoperta di questa comunità.
Nei fine settimana l’Arca si riempie di gente che usufruisce degli spazi per fare seminari o corsi di approfondimento. Ci aspettano dunque tre giorni movimentati. Come ospiti non possiamo dormire nell’area riservata alla comunità ma solo nella zona di accoglienza per i viandanti. Ogni camera ha una titolazione precisa. La nostra è «frumento». Anna è organizzativa e ha stabilito che faremo le interviste il giorno successivo, mentre la serata – dopo la cena comunitaria in mensa – saremo liberi di curiosare…in punta di piedi.

La giornata a Saint Antornine
Arriviamo nel refettorio gremito di gente, qualche sorriso e un po’ di impasse da parte nostra caratterizzano i primi istanti. Appese alle luci del soffitto animano la stanza alcune colombe bianche di carta, simbolo stilizzato di un credo forte in ogni angolo della comunità. La sala è semplice ma ispira calore: tavolate e panche di legno sono gli unici arredi. All’ingresso ci si può fornire di stoviglie (non esistono i tovaglioli di carta) e al centro della sala c’è lo spazio apposito per il buffet.
Prima di accedere alla scelta delle vivande – esclusivamente vegetariane – , una delle persone che vivono in comunità presenta il cibo e invita ad un momento di preghiera. Poi, si anima la scena. Chi si serve, chi chiacchiera in piedi, chi si adopera per aiutare i commensali. È un andirivieni piacevole da cui non ci sentiamo estranei o semplici spettatori. Nella semplicità non è difficile vincere la riservatezza di un linguaggio differente e scambiare qualche impressione con chi si siede accanto a noi. A fine mensa, sia i comunitari sia gli ospiti, si alzano, sparecchiano il loro tavolo e si dirigono verso un organizzatissimo spazio pre-cucina, adibito al lavaggio e all’asciugatura delle stoviglie. Rispetto e responsabilità sono le prime parole che ci vengono da formulare osservando il piacere con cui ognuno «fa la sua parte».
La mattina seguente la comunità è un brulicare di attività, ogni sala adibita alle attività è impegnata. C’è la sala della musica in cui si ode qualche canto armonico, la sala dedicata a Lanza del Vasto, la sala Jean Goss, la sala Bianca, la sala Comune e la sala del Giardino.

In punta di piedi
L’appuntamento con Anna è per il primo pomeriggio; decidiamo quindi di iniziare la visita esplorando con tutti i sensi la comunità, all’esterno e all’interno. Il tempo per intuire, attraverso i luoghi, un cammino. Prima delle persone «annusiamo» lo spazio alla ricerca di domande «primordiali». Non a caso, a volte sono proprio gli ambienti e le strutture a raccontarci qualcosa, a farci vedere una realtà multi dimensionale che solo a parole non potremmo afferrare. Partiamo dalla natura e scegliamo di passeggiare in silenzio nell’area circostante la comunità: ettari di orto e giardino che invitano alla meditazione. Tutto è studiato con estrema attenzione alla «decrescita». Un piccolo bagno ecologico è posto su un lato del terreno; le verdure non bastano a soddisfare le necessità dell’intera comunità ma sicuramente aiutano. In fondo al giardino qualche gioco per i più piccoli ricorda la presenza dei bambini. Il sole è tenue ma basta per illuminare gli ultimi rossi d’autunno e per regalarci un insolito belvedere collinare.
In questa prima visita solitaria e itinerante, ci tornano alla mente, tra le tante, alcune delle frasi di Lanza del Vasto o Shantidas (servitore di pace), secondo la volontà di Gandhi, che ci accompagnano nel nostro esplorare.
Sono frasi, senza età, che scuotono le viscere umane: «Mettiti in marcia con tutta la tua vita»; «la nonviolenza è una verità che solo chi vi si esercita può conoscere»; «risvegliarsi, spezzare l’incoscienza ordinaria, naturale, nativa, spezzare il guscio del sonno e dell’abitudine»; «richiamarsi a se stessi, entrare in noi stessi».
Negli spazi interni dell’Arca ci si potrebbe perdere tanto sono vasti: quattro piani suddivisi nelle aree per i comunitari e per gli ospiti. L’utilizzo del legno e dei colori caldi per gli arredi personalizzano gli ambienti: sobrietà e cura degli spazi rendono accogliente ogni angolo. Una piccola cappella al cuore della struttura convoglia chiunque si senta assetato di spiritualità. Una biblioteca, una sala della musica, una sala gioco per i bimbi, una bottega per fare il pane e un magazzino di riparazione, arricchiscono la struttura e fanno da corollario agli spazi prettamente dedicati ai seminari. Dentro e fuori sembrerebbe un binomio indissolubile: ogni vetrata dei corridoi interni rivolge lo sguardo verso la vegetazione estea e l’abbazia. Un’armonica bellezza che non può che conciliare il pensiero. Ogni area della struttura è indicata con frecce di legno e nemmeno gli ascensori (costruiti per facilitare l’accesso anche alle persone più anziane e ai disabili) deturpano l’ambiente essendo nascosti dietro nicchie apposite.

Le persone
Nella comunità dell’Arca vivono persone di tutte le età: dalle più anziane come Michèle e Jeannette, alle famiglie giovani con bambini che da poco hanno deciso di mettersi in gioco e sperimentare la vita comunitaria, alle seconde generazioni che stanno ancora vagliando se il loro futuro sarà dentro l’Arca o se prenderanno una strada propria, ai single e a chi sceglie di fare un anno di stage alla ricerca di un percorso di coerenza. In ognuno di loro si intravede la consapevolezza che la ricerca della nonviolenza è un cammino lungo, che porta prima dentro se stessi e poi si estende agli altri in una sorta di contagio positivo. Ciò che risulta evidente a noi «viandanti» è il forte impegno nell’esercizio della nonviolenza a partire dalle dinamiche relazionali della comunità: condivisione di compiti e responsabilità, prese di decisioni, riconciliazioni.
Un filo di continuità che lega il passato con il presente e le vecchie generazioni con le nuove, caratterizza l’Arca. In un tempo e una società dove gli anziani guardano spesso con nostalgia al passato e nutrono non pochi sospetti sulla gioventù, è quasi rivoluzionario sentirsi dire: «I giovani di oggi sono più coscienti, più entusiasti e con un’immensa ricchezza spirituale e meditativa». Una affermazione di Michèle Le Corre (81 anni) sostenuta anche da tutte le persone più mature della comunità.

Il tempo dentro l’Arca
Dopo la colazione in refettorio, c’è un momento di meditazione aperto a tutti dopo il quale ognuno si occupa dei propri lavori dentro la comunità. Tutti, quanto meno chi se la sente di partecipare, si ritrovano in cappella per la preghiera serale, prima della cena comunitaria. Ogni giorno c’è una riflessione e una preghiera per ogni religione. Anche a noi è riservato un saluto e un canto di accoglienza. Le azioni in cui si impegnano i membri dell’Arca sono nell’ambito della giustizia e della solidarietà, nella formazione alla nonviolenza e all’accoglienza. La vita comunitaria è scandita nei tempi del lavoro, del silenzio, della meditazione, del richiamo a se stessi, della responsabilità e della relazione con l’altro.
Tutto ciò avviene nella massima semplicità, nell’impegno a decrescere i consumi, nel dialogo, nella ricerca della bellezza, nel ballo e nella festa comunitaria. Ognuno, a seconda delle proprie forze e della personale sensibilità, decide a quali azioni nonviolente partecipare.

Incontri ravvicinati…
Di Anna, Michèle, Jeannette, Maria, Vincent, Emmanuel e Manuelle, raccogliamo la testimonianza. Sentire dalle loro voci e vedere sui loro visi la passione per un movimento di perenne cammino ci aiuta a percepire la forza della «battaglia» nonviolenta, a capie il senso e a cogliere l’importanza e la necessità del tentativo di costruire una società differente.
Le loro parole e l’autenticità delle loro azioni, sul filo di quello che Lanza del Vasto riteneva il sale della nonviolenza, ossia «la verità», sono il contrario della menzogna e dell’errore.

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Lanza del Vasto, combattente nonviolento

Premessa

«La resistenza nonviolenta si mostra più attiva della resistenza violenta. Chiede più audacia, più spirito di sacrificio, più disciplina, più speranza. Agisce sul piano delle realtà tangibili e sul piano della coscienza. Opera una trasformazione profonda in coloro che la praticano e talvolta una conversione sorprendente in quelli contro cui si esercita» (Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle Sorgenti).

In un mondo centrato sulla violenza, si può essere nonviolenti? Da questo filo di pensiero e interrogativo è nato il nostro dossier sulla comunità nonviolenta dell’Arche in Francia. Un reportage che si rende necessario nel contesto attuale dove la risoluzione dei conflitti passa attraverso l’essere violenti e l’uso della forza.
Dalla violenza con la «v» maiuscola, quella che fa notizia e il più delle volte pone in un cono di luce guerre espressamente mediatiche, a tutte quelle forme di prevaricazione di uguale importanza ma meno conosciute. La lista non si conta: dalle violenze sui popoli dimenticati, alle persecuzioni razziali, alle sordide ingiustizie sui bambini e sulle donne, alle violenze psicologiche, che spengono la voglia di vivere e via dicendo. La violenza è inquinante, si sparge a macchia d’olio nelle relazioni, tra le mura delle case dove viviamo, per strada, negli ambienti lavorativi e – soprattutto – si nutre delle nostre paure abitando la parte più oscura del nostro essere, pronta a uscire allo scoperto al momento opportuno.

Tra le tante pellicole cinematografiche impregnate di violenza ne esiste una rappresentativa di tutta la miseria dell’essere umano. Si tratta di Dogville di Lars Von Trier, un film tanto scao quanto efficace. Tutti gli attori si muovono sul set – racchiuso in un palcoscenico teatrale – esprimendo al massimo la loro mediocrità e la loro rabbia. In questo microcosmo cinematografico non c’è alcuna forma di redenzione. I personaggi si accaniscono sul «diverso» da loro (la giovane arrivata nella comunità di Dogville per sfuggire alla sua famiglia di gangster) e giungono ad umiliarlo in tutte le maniere possibili. Il dolore è tale che solo la vendetta consolerà non solo la protagonista ma anche lo spettatore. Ecco il punto: la risoluzione finale è solo la violenza, che in quanto soluzione allo stesso male viene automaticamente giustificata.
Purtroppo le dinamiche di questo film assomigliano molto alla realtà. E, allora, come trovare un’alternativa valida nei rapporti interpersonali, nella politica e nei meccanismi sociali? Forse, iniziando a camminare verso noi stessi e alla ricerca di un modo diverso di vivere.
In questa direzione va Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte, meglio conosciuto come Lanza del Vasto, nato nel 1901 a San Vito dei Normanni in Puglia. Personaggio atemporale e multifocale, Lanza del Vasto compie, nel 1937, il suo primo pellegrinaggio nel subcontinente indiano alla ricerca di un’esistenza più vera, pura e spiritualmente «alta». Qui, la meta che lo porterà definitivamente a dedicarsi alla pace per il resto della vita è proprio l’ashram del Mahatma Gandhi, dove vive per tre mesi e riceve dallo stesso Gandhi l’appellativo «Shantidas», servitore della pace.

Nel libro Pellegrinaggio alle sorgenti (edito nel 1943) risiede il fulcro e il cuore del suo viaggio e dell’incontro con Gandhi. Nulla è meglio delle sue stesse parole per descrivere il Mahatma: «Un piccolo vegliardo seminudo sta seduto per terra davanti alla soglia, sotto il tetto di paglia spiovente: è lui. Mi fa segno – sì, proprio a me -, mi fa sedere accanto a sé, mi sorride. Parla – e non parla che di me – chiedendomi chi sia io, che cosa faccia, che cosa voglia. Ed io subito mi avvedo che non sono niente, che non ho mai fatto niente, che non ho desideri se non quello di restarmene così, all’ombra di lui. Eccolo davanti ai miei occhi, colui che solo nel deserto di questo secolo ha mostrato un’oasi di verde, offerto una sorgente agli assetati di giustizia».

Al ritorno in Europa, Lanza del Vasto decide di diffondere il messaggio gandhiano: servire la nonviolenza e viverla fino in fondo. La sua ispirazione cristiana aperta all’influsso della spiritualità orientale è l’humus da cui parte per fondare in Francia nel 1948 – insieme alla sua sposa Chanterelle e a un piccolo gruppo di seguaci – la prima Comunità dell’Arca. Una casa aperta a tutte le religioni, una scuola di vita interiore e di preparazione all’azione nonviolenta, di stampo rurale, ispirata ai principi della sobrietà, della condivisione, dell’unione tra lavoro e spiritualità. Scrittore, poeta, musicista e sculture, Lanza del Vasto è per molti un «combattente» nonviolento: praticare la nonviolenza partendo dalla ristrutturazione dei rapporti umani senza rinunciare a far valere le proprie ragioni è stata la sua missione. In quest’ottica si è opposto con il dialogo e il digiuno alla fabbricazione della bomba atomica e alle torture perpetrate dall’esercito francese in Algeria, ha sostenuto i contadini del Larzac perché conservassero le proprie terre e ha digiunato durante il Concilio Vaticano II per chiedere un impegno esplicito della Chiesa in favore della pace. Coerenza tra pensiero e azione, cammino di conoscenza e di presenza a se stessi e al reale, semplicità e profondità. Questi alcuni degli insegnamenti che il nomade e il costruttore ci hanno lasciato in eredità. Dell’uomo che un giorno scrisse in musica: «Ho la mia casa nel vento senza memoria», siamo andati a conoscee gli eredi per capire se, nel 2012, la parola e l’azione di Lanza del Vasto sono ancora vive.

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Cana (30): Storia d’Israele in sei giare di pietra

«I giusti sono le colonne del mondo posate su basi d’oro puro:
sono infatti i precetti della Legge che studiano»  (Targum Ct 5,15)

Gv 2,6 (a): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra], contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Le giare distese per terra sono in numero di «sei» e ciascuna può contenere «due/tre» metrète. Se si moltiplica 2×3 si ha ancora il risultato di sei. Che significato hanno questi numeri, ammassati tutti nello stesso versetto? Perché le giare sono «sei» e non cinque o quattro o tre? Perché non si parla genericamente di «alcune giare», ma si specifica esattamente che sono «sei»? Perché, invece, la loro capienza non è precisa, ma oscilla tra «due o tre» misure che se moltiplicate tra loro fanno sempre «sei»?
Proviamo a scoprirlo interrogando il vangelo di Giovanni che, come ormai sappiamo, gioca con il doppio senso delle singole parole, obbligandoci a non fermarci mai alla superficie, cioè al senso ovvio delle parole. Quando poi si tratta di numeri bisogna essere ancora più circospetti, perché in ebraico, cioè nella mentalità semita, i numeri corrispondono alle lettere dell’alfabeto e quindi possono assumere significati particolari, applicando una delle leggi dell’esegesi giudaica che è la «ghematrìa» o «scienza dei numeri» (su questo argomento cf P. Farinella, Bibbia, Parole, segreti, misteri 49-60).

Il numero «sei» nel vangelo di Giovanni
Il numero «sei», che è molto importante nell’economia del racconto delle nozze di Cana, in tutto il vangelo di Giovanni ricorre 7x (x sta per «volte»):
1.    È ripreso all’inizio del racconto di Cana dove si dice: «Nel terzo giorno vi fu uno sposalizio a Cana di Galilea» (Gv 1,1) che, come spiegato a lungo, corrisponde al «sesto giorno» della prima settimana di Gesù descritta da Giovanni nel cap. 1°, perché segue il triplice «il giorno dopo… il giorno dopo… il giorno dopo», cadenzato come un ritornello (Gv 1,29.35.43).
2.    È ripetuto in Gv 2,6 per indicare il numero delle giare: «Vi erano là sei giare di pietra».
3.    È ripreso nell’incontro con la Samaritana al pozzo di Giacobbe dove Gesù arriva «circa l’ora sesta» (Gv 4,6). Purtroppo ll’ultima traduzione della Bibbia-Cei (2008) traduce con un banale «era circa mezzogiorno», spezzando in un sol colpo tutta la pregnanza di quell’«ora sesta», evocativa della storia del mondo e della storia di Israele. Peccato, perché così si priva il popolo di Dio di una parte importante della rivelazione.
4.    Nello stesso incontro, Gesù dice alla Samaritana che ha «cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito» (Gv 4,18), per cui siamo di fronte a una donna che ha avuto «sei mariti».
5.    La settimana prima della passione inizia con il riferimento ai «sei giorni prima della Pasqua».
6.    La proclamazione della regalità di Gesù da parte di Pilato davanti al popolo d’Israele avviene «circa l’ora sesta» (cioè mezzogiorno) (Gv 19,14).
7.    Gesù muore nel giorno della «Parascève», cioè il giorno precedente la Pasqua ebraica, quindi il venerdì, cioè il «sesto giorno» (Gv 19,31.42).
In questo contesto, che riguarda tutto il vangelo, il numero «sei», come spesso abbiamo sottolineato, ha un chiaro, formale riferimento ai «sei giorni» che precedono il fatto di Cana (prima settimana di predicazione pubblica di Gesù) descritti in Gv 1, ai «sei giorni» prima della Pasqua dell’ultima settimana di Gesù, descritti in Gv 12ss., ai «sei giorni» del Sinai, nei quali Israele «è creato» come popolo e ai «sei giorni» della creazione come narrata in Genesi 1.

Il numero «sei»
ritma le tappe della storia religiosa
Se ciò è vero, allora Cana è parte di un processo che abbraccia tutta la storia di Israele e tutta la storia di Dio. A Cana non si consuma un banale matrimonio, ma si rinnova la creazione dell’universo, simboleggiato nel vino; a Cana si rinnova l’alleanza del Sinai, rappresentata dalla madre; a Cana si anticipa la Pasqua come compimento non solo della vita terrena di Gesù, compresa tra due «sei giorni» (settimana iniziale e settimana finale), ma anche come compimento della speranza di Israele, purificato non più dall’acqua antica, ma dal sangue del Figlio che dona la sua vita per il mondo nuovo, abitato da Giudei e da Greci, da Ebrei e da Romani (cf Gv 19,23-25).
Nella puntata 17a «Simbologia del terzo giorno» in MC dicembre 2010, abbiamo accennato alla questione del numero «sei» e ad essa rimandiamo. Qui ci accingiamo ad approfondire più dettagliatamente, senza ripetere quanto detto. Sia il giudaismo antico che tutta la tradizione giudaica (dal Targum Ct al Talmud) come pure la tradizione cristiana antica, hanno interpretato «le sei giare» come simbolo delle «sei età/epoche» in cui sarebbe diviso il mondo, dall’inizio della creazione alla venuta di Gesù Cristo, il cui schema, con modulazioni diverse, si avvicina al seguente:
1a età:  da Adamo a Noè;
2a età:  da Noè ad Abramo;
3a età:  da Abramo a Davide;
4a età:  da Davide all’esilio di Babilonia;
5a età:  dall’esilio di Babilonia a Giovanni il Battista;
6a età:  da Giovanni Battista a Gesù con la sua nascita,       morte e risurrezione.
(Poiché è impossibile dare conto di tutti i testi e autori, per chi volesse approfondire in modo esaustivo queste tematiche, appena sussurrate, consigliamo di A. Serra, Nato da Donna Gal 4,4, 141-191; Le nozze di Cana Gv 2,1-12, 128-133).
A chi potrebbe scuotere la testa davanti a queste applicazioni, che, ce ne rendiamo conto, sembrano molto lontane dal testo che siamo soliti leggere in una qualsiasi traduzione, quello che possiamo dire è semplice: il contesto culturale, letterario e religioso, in cui si muove l’autore è questo ed è dentro di esso che bisogna cercare i riferimenti che a noi sfuggono perché, come abbiamo già sottolineato molte volte, abbiamo perso ogni riferimento al mondo giudaico, limitandoci a leggere il vangelo in latino.
Ancora oggi, infatti, il testo ufficiale della Bibbia nella Chiesa cattolica non è il testo ebraico/greco, ma il testo latino della «Neo vulgata»: ci pare che tutto sia detto. D’altra parte, i Padri della Chiesa leggevano l’Antico Testamento in chiave cristologica e andavano alla ricerca di riferimenti «tipologici» da mettere a confronto tra loro, evidenziando come Gesù fosse il «compimento» di tutta la storia patriarcale.
Tutto l’Antico Testamento veniva letto come «profezia», nel senso di anticipazione velata, di Cristo (vedi il vangelo di Mt, in cui questo rapporto «profetico» è costante e ricercato: Mt 1,22; 2,5.15.17; 3,3; 4,1, ecc.; cf Gv 12,38).

Il numero perfetto
che esprime l’imperfezione creata
Nel racconto di Cana, il riferimento così preciso alle «sei giare» pronte per la purificazione e che su ordine di Gesù saranno riempite d’acqua, hanno una prima e diretta connessione simbolica ai «sei giorni» della creazione, che avviene appunto in «sei giorni» (Gen 2,2 secondo la versione greca della LXX), quando tutto emerge dalle acque «covate» dalla «ruàch» di Dio (Gen 1,2). A questa conclusione ci porta anche l’annotazione, strana in un racconto se non avesse un obiettivo preciso, che ogni giara conteneva «due o tre» metrète.
In riferimento alla creazione, lo scrittore ebreo di cultura greca, Filone di Alessandria (20 a.C. – 50 d.C.) spiega che il numero «sei» è il primo numero «perfetto». Esso, infatti, dopo il numero 1 che è il punto di partenza della numerazione, è il primo numero perfetto perché è uguale alla somma delle parti che lo compongono che sono: la metà (6:2 = 3), il terzo (6:3 = 2) e il sesto (6:6 = 1).
Il «sei» dunque è la somma di 1+2+3 = 6, ma è anche il prodotto della moltiplicazione di 2×3 = 6, cioè del numero pari (il 2) e del numero dispari (il 3), per cui nel «sei» si comprendono e si fondono insieme il dispari e il pari che, secondo lo stesso Filone e la scuola dei Pitagorici, esprimono il maschio (il numero dispari) e la femmina (il numero pari).
Lo stesso riferimento alle giare che contengono «2 oppure 3» metrète ci riportano allo stesso risultato: 2×3 = 6. Tutto ruota attorno a questo numero che sintetizza molti pensieri e riflessioni nel mondo giudaico e cristiano. In questo senso la creazione doveva avvenire in «sei giorni» perché questo numero è il primo numero perfetto, in quanto esprime il senso profondo di tutta la creazione che nasce dal congiungimento di maschio e femmina (Gen 1,27; cf Filone, De opificio Mundi, 13; Legum allegoriae I,3).

Il numero «sei» è il simbolo dei giusti
Il Targum Ct 5,15 aggiunge un elemento importante. Descrivendo il corpo dell’innamorato, l’autore del Cantico dei cantici dice: «Le sue gambe, colonne di marmo (ebraico: shèsh), posate su basi d’oro puro». Poiché in ebraico il numero sei è «shèsh», il Targum così traduce: «E i giusti sono le colonne del mondo posate su basi d’oro puro: sono infatti i precetti della Legge che studiano» (cf anche i Midràshim Nm Rabbàh 10,1 a 6,2 e Ct Rabbàh 5,15.1). In ebraico dunque la stessa parola «shèsh» significa tanto «sei» (numero) quanto «marmo», che il Targum identifica con il «mondo», sorretto dalle colonne del Cantico dei cantici che sono i giusti: essi, infatti, stanno solidi sui precetti della Toràh, che è pertanto il fondamento del mondo intero.
Una tradizione giudaica attestata nel Talmud (Sanhedrin 97a-b; Souk 45b) afferma che ogni generazione è tenuta in piedi da «36» giusti, i cui meriti, a loro insaputa, garantiscono la Shekinàh sulla terra; anzi la presenza di un solo giusto garantisce la sopravvivenza del mondo (TB,Yoma 38b).
Mettendo insieme queste reminiscenze, vediamo allora che le «sei giare» di Cana richiamano la Toràh del Sinai come fondamento del mondo e la giustizia dei giusti che sorgono come conseguenza dell’osservanza dei comandamenti del Signore e che ne garantiscono la sopravvivenza. Poiché uno dei giusti che sorreggono le sorti del mondo è il Messia, la presenza di Gesù a Cana è la garanzia che la nuova alleanza poggia sulla solida colonna della sua persona e del suo messaggio. I giusti sono le colonne di «marmo» (Targum CT) come le giare sono «di pietra», sempre pronte a purificare la sposa/Israele prima di presentarsi al cospetto del suo Sposo/Signore.
Il numero «sei», collegandosi ai «sei giorni» del Sinai, sempre secondo Filone (Questiones in Exodum II,46), è anche il simbolo dell’elezione di Israele, popolo dell’alleanza, quell’alleanza che ora Gesù manifesta a Cana.
L’elezione d’Israele è considerata come una seconda creazione, perché lo statuto della prima fu distrutto da Adam, mentre al Sinai Israele riceve un nuovo ordine e una nuova identità, espressi nella Toràh, cioè sulla volontà proclamata e scritta di Dio. Non è un caso che la risposta d’Israele sia: «Faremo e ubbidiremo quanto il Signore ha detto» (Es 24,7), perché al Sinai ha origine «il principio» d’Israele, come nella Genesi è «il principio» delle acque e della terra (Gen 1,1).
Sul monte Sinai apparve «la gloria del Signore» (Es 24,16-17); allo stesso modo il vangelo di Giovanni comincia contemplando il «principio» del Lògos che a Cana compie «il principio dei segni» con cui «manifestò la sua gloria» (Gv 2,11).

A Cana è data la nuova Toràh che è il Vangelo   
Il rapporto tra la creazione, il Sinai e le sei giare è dato anche dal fatto che Adam è stato creato nel sesto giorno, ma sullo sfondo del giardino di Eden di cui poteva mangiare i frutti «di tutti gli alberi» (Gen 2,16); il monte Sinai è equiparato a un albero di melo che produce mele che sono le singole parole della Toràh, come insegna il Targum di Ct 2,3. Dove il testo ebraico dice: «Come un melo tra gli alberi del bosco, così l’amato mio tra i giovani. Alla sua ombra desiderata mi siedo, è dolce il suo frutto al mio palato», il Targum traduce: «Come il melo, bello e pregiato fra quegli alberi che producono frutti, è da tutti elogiato e prediletto, così il Sovrano dell’universo fu lodato dalle Creature celesti quando si rivelò sul monte Sinai, quando dette la Toràh al suo popolo. Allora ardentemente desiderai di rimanere sotto l’ombra della sua Shekinàh, perché i precetti della sua Toràh erano come profumo al mio palato».
Il Liber Antiquitatum Biblicarum 11,15 (SC 229,124, 230,113), attribuito allo (Pseudo) Filone, paragona l’albero della vita piantato al centro dell’Eden alla Toràh che Dio dona a Israele sul monte Sinai per mezzo di Mosè.
In conclusione, potremmo dire che le «sei giare» (come la madre in Gv 2,1) sono il simbolo del tempo prima di Cristo e ciascuna delle sei giare rappresenta una delle sei epoche che lo compongono fino ad arrivare al Sinai, dove inizia il tempo nuovo con il dono della Toràh.
Poiché ogni giara contiene «2 / 3» metrète, la cui moltiplicazione dà sempre «sei», significa che ogni epoca tendeva naturalmente a Cristo, come la stessa Toràh è protesa verso la sua pienezza che è il Messia Gesù di Nàzaret.
Tutte le «sei giare», infatti, sono di pietra (lo stesso materiale delle tavole) e sono giacenti per terra, in attesa del tempo nuovo, della nuova Alleanza (pronte per la purificazione).
In Giovanni 1,17 l’autore ci aveva preavvertito: «La Legge/Toràh fu data per mezzo di Mosè; ma la grazia della verità venne per mezzo di Gesù Cristo».
È in questa prospettiva che Paolo, applicando l’esegesi giudaica, nel commento a Gen 12,7, può dire: «Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: “E ai discendenti”, come se si trattasse di molti, ma: E alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo». È il discendente di Abramo, anticipato nella Toràh del Sinai, che ora si rivela a Cana per annunciare la nuova Toràh, cioè il suo Vangelo, sulla cui stabilità è fondata la nuova alleanza, qui rappresentata dalle nozze di due anonimi sposi.
(30 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Tornano le aquile al nido

Reportage da Scutari sull’emigrazione di ritorno

A 20 anni dalla fuga in massa dall’Albania verso l’Italia, migliaia di migranti hanno preso la via del ritorno e, con il sostegno di organizzazioni come Caritas e Acli, hanno avviato attività in proprio, creato posti di lavoro per i propri connazionali, contribuendo così allo sviluppo del paese, ancora frenato, però, da tradizioni culturali ancestrali, come discriminazioni di genere e vendette di sangue.

Il panorama all’imbrunire è mozzafiato. Vedendolo dalle mura del castello, l’enorme lago di Scutari si riempie del rossofuoco del tramonto e lascia senza parole. Tutt’attorno, per tre dei punti cardinali, le montagne d’Albania e del Montenegro, e a sud la terza città albanese, Scutari appunto, con i suoi 150 mila abitanti in continua crescita. Buona parte di essi conosce l’italiano, e alcuni lo parlano molto bene: un fenomeno che lascia senza parole, ma le cui ragioni sono sotto la luce del sole, perché quasi ogni famiglia ha un parente che ha vissuto per qualche tempo in Italia, o ancora ci vive.

Ritoo dal grande esodo
Era il 1991 quando l’impressionante esodo degli albanesi verso il nostro paese riempì tutte le televisioni nazionali. Chi non ricorda l’impatto emotivo delle immagini dei 20 mila disperati sbarcati a Bari con la nave Vlora l’8 agosto di quell’anno? Oggi gran parte di essi è inserita in Italia, con un lavoro e una famiglia. Ma non tutti. Infatti c’è chi, fatti i conti in tasca, compie il passo che aspettava da una vita: il ritorno in patria a testa alta, da persona che è riuscita nel proprio sogno migratorio e ora può tornare a investire nel suo paese, tanto a livello umano quanto economico, aprendo un’attività e magari dando anche lavoro in loco a connazionali.
Non stiamo parlando di racconti di fantasia; piuttosto, è la realtà che sta prendendo il sopravvento tra le vie della stessa Scutari, ancor più che a Tirana. Proprio da questa spartana città del profondo nord albanese (oggi parzialmente rimessa a posto, per lo meno nell’ottimo centro storico, con un pavé da far invidia a molte città d’arte nostrane) due decenni fa era partita la maggior parte delle persone in cerca di miglior fortuna.
«Sono sempre di più i migranti albanesi di ritorno, ovvero coloro che tornano in patria con l’obiettivo di cercare lavoro o aprire qualcosa di proprio» spiega Mauro Platè, 33 anni, responsabile dei progetti in Albania per l’organizzazione non governativa Ipsia (Istituto pace sviluppo innovazione Acli), che dal gennaio 2010 ha avviato con Caritas italiana, grazie al finanziamento di 1,2 milioni di euro del Mae (Ministero affari esteri italiano), il progetto «Risorse migranti»: si tratta di un’iniziativa di cooperazione internazionale che, tramite un primo sportello d’orientamento aperto a Scutari, accompagna chi torna in Albania dall’Italia e da altre zone d’Europa, offrendo sostegno per capitalizzare le capacità acquisite all’estero.
Un’azione concreta che, in punta di piedi ma con risultati sempre più evidenti, sta facendo emergere numeri importanti: «Sono almeno 450 le persone che si sono rivolte a noi in due anni, molti dei quali per chiedere consigli e orientamento» aggiunge Platè.
Secondo le stime governative, a fine 2010 erano circa 2 mila le persone che erano uscite dall’Italia, dove vivevano in condizione di regolarità, per far ritorno in patria. Ovvero quasi il 10% del numero di coloro che nello stesso tempo hanno rinnovato il permesso di soggiorno, 22 mila in tutto.

Nuove idee e Iniziative
Molti tornano nel paese delle Aquile (dal nome albanese, Shqiperia, così come il rapace è anche il simbolo nero impresso sulla bandiera rossa nazionale) anche in possesso di un titolo di studi conseguito in Italia. Blerim, per esempio, laureato in informatica, ha aperto a Scutari un’attività dedicata alla creazione di siti web. Hector, invece, ha ristrutturato un immobile in demolizione per trasformarlo in un locale culturale dove fare musica tipica tradizionale. O ancora, c’è chi ha costruito un centro fitness, ridato vita a una trattoria tradizionale, aperto un call center. «Ognuno di loro ha poi la possibilità di dare lavoro ad altre decine di persone – aggiunge il responsabile progetti di Ipsia -. Uno dei nostri compiti principali è facilitare l’incontro e lo scambio tra questi nuovi piccoli imprenditori, la messa in rete dei saperi genera opportunità laddove prima c’era poca spinta alla collaborazione». Un esempio? «Alcuni che in Italia hanno lavorato per anni come muratori e piastrellisti, al ritorno in Albania si sono uniti per avviare un’impresa edile» risponde Platè.
L’impegno dei cooperanti di Ipsia, (a fine 2011 erano in sette, due italiani e cinque albanesi a occuparsi dei progetti della ong) cerca di valorizzare il capitale sociale generato dai migranti di ritorno per dare nuova linfa allo sviluppo del paese, che ha indici positivi nonostante la crisi globale. Quella stessa crisi, paradossalmente, che oggi punge più  all’estero che in Albania, ha dato una spinta considerevole al boom di rientri degli ultimi anni. «In Italia diminuiscono i lavori stagionali e molte persone non vedendo più la certezza del lavoro preferiscono tornare in patria con i fondi e l’esperienza che hanno raccolto negli anni da emigranti» specifica Platè.
La debàcle dell’economia mondiale sta comunque incidendo nel paese delle aquile, ma «è una crisi di riflesso, non delle attività produttive, che sono poche, dipendendo l’Albania dalla produzione greca, italiana e tedesca in particolare. Piuttosto la difficoltà si vede nella diminuzione delle rimesse e nell’aumento del costo della vita».
In questo senso, l’imprenditorialità può essere la giusta medicina, ovvero nuove idee, nuovi progetti possono rilanciare una economia come quella albanese, rimasta immobile per decenni, almeno fino al termine del regime comunista terminato alla fine degli anni ’80. Per fomentare la nascita di microattività innovative e riadattare le competenze al mercato, «Risorse migranti» dedica ampio spazio alla formazione diretta: «In due anni abbiamo attivato corsi inerenti a 17 tipologie diverse di lavoro, tutti orientati alla riqualificazione professionale» sottolinea il responsabile progetti di Ipsia.
Ancora, le esperienze più virtuose vengono premiate attraverso una serie di bandi che finanziano lo startup aziendale: l’ultimo dei quali, indetto a fine 2011, prevede aiuti per 25 mila euro totali, destinati all’acquisto di attrezzature per attività registrate regolarmente. Un occhio di riguardo viene dato a chi si avvale di energie rinnovabili. «Sta nascendo una nuova mentalità in tale direzione – rileva Platè -; si vedono sempre più pannelli solari. Detto questo, c’è ancora molto lavoro da fare per far passare i concetti di sostenibilità, ma le istituzioni si stanno comportando piuttosto bene ultimamente». Non come fino al recente passato, quando tra corruzione e malaffare lo stato foiva un esempio tutt’altro che positivo per la popolazione.

Cambiamenti in corso
«Oggi la politica albanese ha capito che la migrazione di rientro è un fattore di sviluppo» continua Mauro. A Lezhe, storica cittadina del centro-nord, per esempio si tiene da qualche anno nel giorno di ferragosto la «festa del migrante», e nell’edizione 2011 il progetto «Risorse migranti» è stato l’invitato d’eccezione. Nel frattempo, anche a livello di politica nazionale le cose si muovono in termini di apertura all’esterno: da dicembre 2011 il governo di Tirana ha liberalizzato i visti e sta compiendo tutti i passi che l’Unione europea chiede per avere relazioni commerciali proficue.
«È in atto un processo di cambiamento, lento ma evidente, attraverso il quale le istituzioni locali saranno in grado a medio termine di “accompagnare” in modo significativo coloro che tornano dall’estero – spiega la sociologa Cristiana Paladini, 33 anni, collaboratrice in loco di Ipsia e ricercatrice nell’ambito delle migrazioni per l’università Lumsa di Roma e la University of London -. Nel 2009 il Goveo albanese ha stanziato finanziamenti per il ritorno degli emigranti, ma il bando è andato a vuoto per mancanza di informazione tra gli espatriati e perché promuoveva il rientro ma senza prevedere appoggi per chi tornava, come corsi di formazione o altro».
Ma le cose, tre anni dopo, si stanno modificando, continua Paladini: «È iniziato l’arrivo di un secondo blocco di migranti di ritorno, soprattutto laureati, che hanno documenti in regola in Italia o negli altri stati della Ue. Saranno loro a rappresentare il principale propulsore del cambiamento, perché sbarcano in patria con molta più professionalità da spendere».

Ostacoli da rimuovere: disparità di genere…
Nella rivoluzione che attraverserà l’Albania dei prossimi anni, garantita dai migranti di ritorno, «veri e propri pionieri che arrivano dall’Europa con la voglia di cambiare le cose che non vanno in patria e molto più coscienti dei propri diritti, come cittadini e come lavoratori» specifica la sociologa, sono però almeno due i duri ostacoli che dovranno essere superati: da una parte il forte divario donna-uomo, l’incidenza di un antico quanto violento codice d’onore interfamiliare, dall’altra il Kanun, codice di consuetudini che regola la vita sociale soprattutto nelle zone montane dell’Albania.
Nel primo caso, le logiche maschiliste storicamente presenti in Albania faticano a venir meno: la donna è quella che rimane isolata quando il marito va all’estero (basti pensare che il 90% delle persone intercettate da «Risorse migranti» è maschio) e che non viene assolutamente associata alla figura di imprenditrice. Ipsia, come altre ong, dedica parte dei propri progetti a interventi di appoggio all’impiego femminile, ad esempio nel settore tessile, mettendo in atto «una sfida in più che può fare molto per il loro futuro», aggiunge Paladini.

… e vendette di sangue
Nello stesso tempo, l’impegno per l’equità dei generi e la conciliazione familiare è la missione anche di molti uomini di fede, tra cui don Antonio Giovannini, parroco italiano che da 13 anni ha scelto il nord dell’Albania come luogo di vita e apostolato. Per anni coadiutore della cattedrale di Scutari, oggi la quotidianità di don Giovannini è dedita totalmente al servizio degli ultimi in particolare, nella parrocchia di Koman, meno di mille anime sperdute nelle montagne a est di Scutari, che costeggiano un lago generato dalla diga di Koman, appunto (la più grossa dell’Albania, che dà l’elettricità anche alla capitale Tirana) e, lungo almeno un centinaio di chilometri, arriva a Kukes, alla frontiera con il Kosovo.
«Sui monti ci vivono, senza corrente né gas, le famiglie che non hanno voluto migrare in città» spiega don Giovannini, che oramai vive con loro e macina decine di chilometri al giorno su quei sentirneri, periodi di neve compresi. «Vivono del proprio, e scendono nei villaggi più grandi 3-4 volte all’anno per vendere bestiame o il poco che riescono a coltivare. Ma molte famiglie non scendono mai, perché in vendetta con altre». È la gjakmarrja, la vendetta di sangue.
«Le vendette familiari appartengono a un codice di leggi medievale, il Kanun, considerato fuorilegge dalla metà del secolo scorso, ma ancora oggi in uso – continua il prete italiano -, se una persona fa uno sgarro a un componente di un altro clan, i familiari hanno l’obbligo morale di vendicarsi, innescando la spirale della violenza».
Si può arrivare all’omicidio, fino a mille omicidi in un solo anno in tutta l’Albania, stima il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam). E almeno 3 mila famiglie, anche a Scutari, vivono oggi «inchiodate», ovvero chiuse in casa, dove i vendicatori non possono entrare. «Ci si può rivalere fino alla terza generazione, per questo anche molti bambini sono a rischio e non vanno a scuola» prosegue don Giovannini. Sono 6 mila i bambini in queste condizioni.
Nel tempo, don Giovannini è diventato una figura di riferimento, un mediatore che, però, può correre dei rischi: «In alcuni casi mi è capitato di ricevere minacce, ho dovuto smettere di intromettermi» racconta. Nel 2003, con alcune religiose della zona di Scutari, don Giovannini ha fondato la Shizr, acronimo albanese di Associazione per l’integrazione delle zone rurali; nata «per fare pressione a livello istituzionale, verso il governo albanese che solo ultimamente si sta dando da fare».
È del gennaio 2004 l’istituzione della prima vera corte penale albanese contro 12 tipologie di crimini gravi: tra questi ci sono le vendette di sangue. Nel frattempo, altre associazioni si sono aggiunte all’opera di riconciliare le famiglie in vendetta, come l’albanese League of peace missionaries o gli Ambasciatori di pace del Sermig di Torino. Non solo lavoro: la rinascita dell’Albania passa anche dal rispetto dei diritti umani.

Daniele Biella

Daniele Biella




Bisturi e passione

Medici di frontiera (2): Sivlio Galvagno e il CCM

Trentatre anni fa partiva per la prima volta. In Africa ha vissuto e continua a tornarvi.
Il suo cruccio è garantire il diritto alla salute per tutti. Così il chirurgo piemontese si racconta.

«In Italia non si capisce che in molte parti del mondo il diritto alla salute esiste solo sulla carta. In Kenya dicono che hai diritto alle medicine e che le cure sono gratuite, ma se poi non paghi non ottieni nulla. E ti mandano a comprare anche il filo di sutura. Mi è capitato, a Nairobi, lavorando nelle baraccopoli, che un ragazzo operato con una placca per una frattura di gamba, richiedesse di toglierla perché l’aveva già rivenduta ad un altro paziente. Venendo al controllo mi diceva: “Sto bene; togli la placca che qualcuno la sta aspettando”».
Chi parla è Silvio Galvagno, medico chirurgo di Manta, nei pressi di Saluzzo (Cn), che da 33 anni si adopera affinché il diritto alla salute prenda consistenza in Africa e in altre latitudini.
Discreto, quasi schivo, ma molto disponibile, Silvio non ama parlare di sé. Ma si sforza perché crede anche in questa dimensione, la comunicazione, per cambiare lo stato delle cose.
Fin dai tempi del liceo, Silvio, con amici di Saluzzo, fonda l’associazione «Club 3», con l’intento di attivarsi per il Terzo mondo. Poi all’Università si iscrive a medicina e … «Sentii parlare di un certo dottor Meo». Giuseppe Meo (vedi MC marzo 2011), uno dei fondatori dell’Ong «Comitato collaborazione medica» (Ccm). All’epoca, inizi anni ’70, il Ccm era composto da Meo, da sua moglie, e dall’inossidabile Roberto Masino. Tutti ancora in prima linea.
«Andai a parlare con Meo spiegandogli che avrei voluto partire. Lui disse che mi dovevo preparare come chirurgo». Silvio imposta gli ultimi anni degli studi sulla base dei consigli del dottor Meo. «Essere come medico il meno specialista possibile. Certamente la chirurgia di base in Africa è fondamentale e salva la vita. Come ricucire qualcuno che è stato incornato e ha le budella fuori dalla pancia».

Africa (CON MARIA TERESA)
Il grande giorno arriva nel 1979. Silvio ha una scadenza, perché sostituirà il servizio militare con il volontariato all’estero, ma il posto su un progetto seguito dal Ccm non si libera.
Giuseppe Meo trova allora una possibilità nell’ospedale di Sololo, della diocesi di Marsabit, Nord del Kenya, all’epoca appoggiato da un’associazione di Negrar (Verona), l’«Unione medica missionaria italiana».
È fatta. Silvio passa due anni a Sololo, in una zona sperduta ai confini con l’Etiopia.
«Mi davano 60.000 lire al mese. Ero da solo nella gestione dell’ospedale – ricorda – in quel periodo non c’erano le suore». Qualche tempo dopo, diviene vescovo a Marsabit, padre Ambrogio Ravasi, missionario della Consolata. Il Ccm firma una convenzione con lui e inizia una collaborazione che continua ancora oggi.
Nel frattempo, Silvio si sposa con Maria Teresa Caselle, medico al pronto soccorso delle Molinette di Torino, che condivide con lui questa passione. «Come viaggio di nozze siamo stati via due anni, volontari ancora a Sololo». Sono gli anni ’85-‘87. Silvio e Maria Teresa vi tornano per altri due anni, con il primo figlio nel 1990.
Vanno ancora a lavorare in Kenya per altri due anni. Questa volta al Nazareth Hospital, appena fuori Nairobi, che era gestito delle suore della Consolata (oggi passato alla diocesi).
«Era un grosso ospedale, molto buono, dove come Ccm avevamo un progetto per ricoverare i poveri delle bidonville, in collaborazione con padre Alex Zanotelli. Io andavo tutti i mercoledì pomeriggio all’ambulatorio nella discarica, dove c’era Sara, infermiera, che poi è morta di Aids».
L’intenzione è di stare lì e mandare i figli a scuola a Nairobi. «Però le scuole africane non ti danno nessuna sicurezza quando rientri (non sono riconosciute dal nostro sistema scolastico, ndr), mentre le scuole private sono per le élite e a noi non piaceva».
Quindi, quando il figlio più grande deve iniziare la prima elementare, la famiglia rientra in Italia. Silvio non perde però il «vizio» e si butta a capofitto nelle attività con il gruppo del Ccm che già opera a Torino e in diversi paesi africani. Da allora compie missioni chirurgiche per periodi brevi (un mese, un mese e mezzo), per poi tornare alla base di Manta.

La famiglia allargata
La famiglia Galvagno fa scelte coraggiose e impegnative anche sul fronte dei figli: un’adozione e due affidi, dopo il primo figlio. Una vera «famiglia allargata», all’africana.
«In questo è Maria Teresa che “tira”, io da solo non ce l’avrei mai fatta» sorride Silvio. Ed è orgoglioso di parlare dei figli:
«Il primo studiava a Parigi e ora ha finito, poi abbiamo un figlio peruviano che sta facendo l’Erasmus a Madrid. È stata con noi una ragazza in affido, che ora è sposata e ha una bambina. Questi tre sono a posto. Con noi c’è ancora un ragazzo, che sta frequentando la scuola secondaria».
Alla domanda se è più difficile operare in condizioni estreme in Africa o educare i figli Silvio risponde: «I figli sono facili quando sono piccoli, ma poi crescono e diventa molto più complicato». Maria Teresa è andata in pensione presto e si è impegnata in questa famiglia allargata. Oggi gestisce, come volontaria, anche la bottega del commercio equo a Saluzzo: Solidarmondo.
«Siamo ancora tornati in Africa con i figli per ferie, mentre periodi più lunghi e di lavoro li ho fatti da solo».

Chirurgo di guerra
L’11 settembre 2001 trova Silvio impegnato con il Ccm. «Era un periodo in cui andavo in Africa solo a farmi venire dei “mal di testa”: beghe e discussioni a non finire di programmi che andavano male. Sololo compreso. Parlandone a casa dicevamo, ma è possibile con quello che sta succedendo in Afghanistan? E scrissi due righe ad Emergency».
Era il Natale 2001 e l’Ong milanese di Gino Strada non si fa sfuggire l’occasione. Silvio parte per l’Afghanistan a inizio 2002. Compie diverse missioni con Emergency, lavorando in Afghanistan (Kabul e Lascarga), Iraq (Kirkuk e Soulimanya), Sierra Leone, Darfur.
«Ho trovata buona la filosofia di Emergency finché riguardava la chirurgia di guerra, me ne sono staccato quando si è parlato di cardiochirurgia. Fare un ospedale in Sudan per operare gratuitamente bambini e adulti malati di cuore ha un rapporto di costo / benefici, molto sfavorevole. Con i costi per operare un bambino al cuore ne operi 1.000 di appendicite, oppure ne curi 10.000 con altre malattie più endemiche. In Africa le malattie killer sono broncopolmonite, malaria, diarrea: costa poco curarle e coinvolgono tantissima gente. Per un intervento al cuore, poi occorre fare sempre controlli sofisticati, e i pazienti che vengono da lontano non potranno neppure seguirle».
Silvio torna al Ccm, che non ha mai veramente lasciato. Ne diventa presidente e attualmente vice presidente. Per avere più tempo lascia l’ospedale pubblico di Savigliano, vicino a casa, e specializzato in Germania in chirurgia vertebrale, lavora in una struttura privata convenzionata: «Così ho uno stipendio assicurato e una migliore gestione del tempo: niente tui e guardie. Posso impegnarmi con il Ccm in Italia e quando faccio le missioni all’estero non devo consumare le mie ferie». Scelta «scomoda» e impegnata.

A cavallo tra due continenti
«Adesso faccio le missioni con il Ccm quando c’è bisogno e dove c’è bisogno». Si occupa in particolare dei progetti dell’Ong in Etiopia e in Uganda (nel Lacor Hospital della Fondazione Corti). A novembre 2011 va in Etiopia, a Filtu, dove arrivano i somali in fuga dalla carestia (vedi MC novembre 2011). Poco prima era volato in Rwanda, su richiesta del Don Gnocchi, per organizzare meglio un centro per bambini portatori di handicap. Senza dimenticare il Sud Sudan, dove ha operato in due piccoli ospedali rurali a Adior, Bungagok, seguiti dal Ccm. «Lì facciamo operazioni chirurgiche per insegnare a operare agli infermieri, su patologie semplici, come l’eia inguinale. Abbiamo operato 45 eie, alternandoci: una io e una un infermiere. Prossimamente andrò in Uganda, a Gulu, dove il Ccm ha un progetto con un grosso ospedale universitario, governativo, ma seguito dalla Fondazione Corti di Milano. Ci hanno chiesto di organizzare un reparto di 90 letti di traumatologia. Sembra che gli incidenti della strada siano in aumento in Africa, mentre diminuiscono le lesioni da guerra. Come Ccm abbiamo una decina di ortopedici che si sono dati disponibili ad andare periodicamente a Gulu».

Come cambia l’Africa
In oltre trenta anni di lavoro Silvio assiste ad alcuni cambiamenti: «Abbiamo visto l’africanizzazione di molti ospedali che erano gestiti da missionari bianchi. Oggi sono sostituiti da missionari africani o da laici locali. È successo anche a Sololo, a un certo punto era gestito da tre africani assunti dalla diocesi. Ma l’esperienza si è poi chiusa. In Uganda, ad esempio, c’è già un gruppo medico molto valido, si fa un progetto specialistico».
Un passo oltre l’urgenza. «Questo è il nostro obiettivo. Chi l’ha perseguito da sempre è Giuseppe Meo».
Uno dei pilastri della filosofia Ccm è il cosiddetto «capacity building», ovvero la costruzione di competenze, capacità, nel personale locale. Formazione sul campo, assunzione di responsabilità.
«Noi cerchiamo di far sì che siano loro a fare le cose. Anche perché non possiamo essere sempre presenti».
Ma c’è un altro punto fondamentale per il Ccm: «In secondo luogo, importante, è ritornare e fare coscentizzazione in Italia, sul territorio. Sensibilizzare i nostri concittadini. Affinché si capisca cosa vuol dire povertà e assenza di diritti in campo sanitario. Che non c’è mutua, assicurazione, nulla. Ti fanno la prescrizione e poi ti danno il foglietto dicendoti di andare a comprare. Fuori dell’ospedale ci sono le farmacie private. Far conoscere quello che facciamo, è fondamentale».
Questo si realizza con incontri, articoli sui giornali medici e articoli divulgativi. Diversi gruppi in provincia di Cuneo sostengono progetti del Ccm. In quest’ottica Silvio pubblica un libro di ricordi (vedi box) «Ho recuperato un po’ di appunti, altri li avevo persi. Li ho raccolti per condividere con i lettori le sensazioni che io provavo».
Negli anni sono cambiati anche i finanziamenti. Fino a qualche tempo fa, il ministero degli Affari esteri italiano finanziava progetti di sviluppo. Ora ha quasi azzerato.
«Nei progetti Ccm finora riusciamo ancora a offrire tutto gratuitamente per la popolazione. Gli ospedali di Bungagok e Adior, ad esempio, sono finanziati da due progetti: uno della Regione Liguria e uno della Regione Toscana, nonostante la crisi. A Sololo c’è un progetto mamma-bambini in cui i bambini sotto i 5 anni e le gravide non pagano. Sono soldi raccolti da diversi gruppi di appoggio Moretta, Savigliano, in provincia di Cuneo».

I volontari di domani
Le missioni sono sempre realizzate da volontari che si pagano i viaggi e vengono preparati prima della partenza. «Ci sono giovani interessati a partire. Quelli meno esperti vanno in posti più facili tipo Sololo. Fanno un mese, due. Poi al ritorno realizzano incontri. Medici, infermieri, tecnici. Studenti che vanno a fare tesi».
Lui e il dottor Meo fanno queste missioni e cornordnano gli altri. Il Ccm è poi composto da una struttura di persone impegnate nell’amministrazione, negli aspetti tecnici della cooperazione, nella comunicazione.
Il Ccm realizza tutti gli anni un corso di medicina tropicale in alcuni ospedali torinesi. Corso molto seguito, fino a 80 iscritti tra medici, infermieri e tecnici.
Che messaggio mandare a un giovane interessato?
«A un giovane direi che se dovessi ricominciare rifarei tutto quello che ho fatto, perché è un mondo affascinante, perché ci credo. Forse è più difficile adesso che una volta avvicinarsi a queste realtà, perché le leggi erano più consone in passato e i finanziamenti erano maggiori. I giovani sono da incoraggiare».

Marco Bello

Marco Bello




Africa da «pazzi»

Medici di frontiera (1): Renzo de Stefani e «Le parole ritrovate»

Un movimento nato a Trento lotta contro la discriminazione dei malati di mente.
Organizza imprese impensabili in giro per il mondo. E promuove il «fareassieme», malati, familiari, operatori. In Kenya il gruppo scopre l’ospitalità e la gioia di vivere degli africani.

La traversata dell’Atlantico in barca a vela, il viaggio in treno da Venezia a Pechino sulle orme di Marco Polo, il coast to coast degli Stati Uniti da Boston a Los Angeles, la spedizione in Kenya per far nascere una scuola. A compiere tutte queste imprese, in pochi anni, non è stata una comitiva di turisti avventurosi, ma un gruppo di malati mentali impegnati a dimostrare che anche i «pazzi» possono vivere una vita normale e contribuire a migliorare il mondo.

Una psichiatria «democratica»
Tutto è cominciato nel 2006 su iniziativa di Renzo De Stefani, direttore del Dipartimento di salute mentale di Trento e fondatore de Le Parole Ritrovate (Pr): un movimento, diffuso in una quindicina di regioni italiane, che promuove il «fareassieme» (scritto attaccato). «La nostra filosofia consiste nel coinvolgere i pazienti e i loro familiari nei percorsi terapeutici e di reinserimento, rendendoli protagonisti alla pari degli operatori sanitari» spiega lo psichiatra. «Tutto questo in collaborazione con volontari o semplici cittadini interessati a dare una mano e a combattere i pregiudizi che, a oltre 30 anni dalla chiusura dei manicomi, continuano ad abbattersi sui malati di mente». Proprio per lottare contro lo stigma, De Stefani e Le Parole Ritrovate hanno dato vita a una serie di iniziative «extra-ordinarie» in giro per il mondo, in cui gruppi misti di utenti, familiari e operatori si sono messi alla prova, confrontandosi con altre realtà e favorendo la diffusione di una psichiatria più «democratica».
A Pechino ad esempio, grazie a un finanziamento della Provincia di Trento, hanno contribuito all’apertura del primo centro di salute mentale alternativo ai manicomi (che in Cina danno ricovero a circa 18 milioni di persone). Mentre negli Usa, presso la Veteran administration, hanno incontrato i reduci delle guerre degli ultimi 60 anni, alle prese con gravi conseguenze psichiatriche, per confrontarsi sul «fareassieme» e sulle pratiche di «auto-mutuo-aiuto».
«Ma l’esperienza africana, avviata nel 2009, ha un valore aggiunto rispetto a tutti gli altri viaggi che abbiamo intrapreso», dice De Stefani, «perché per la prima volta si è dato un contributo concreto alla vita delle popolazioni locali, attraverso la creazione di una scuola a Muyeye, in Kenya».

Turisti sui generis
Muyeye è un villaggio di polvere rossa a 15 km da Malindi, abitato da 10.000 persone che vivono in misere capanne di fango e paglia. «La scelta del Kenya è venuta un po’ per caso», spiega De Stefani, «il nostro obiettivo era fare qualcosa in aiuto alla cooperazione internazionale, e all’inizio ci eravamo rivolti all’Amref di Roma che aveva accolto con entusiasmo la nostra idea. Poi però i loro referenti in loco hanno avuto timore che un’«invasione» di 200-300 persone, per la maggior parte malati psichici, potesse portare scompiglio nelle loro attività, e abbiamo dovuto rinunciare a questa collaborazione». Alla fine il progetto è stato realizzato insieme a Itake, una piccola associazione di Frosinone specializzata nel sostegno scolastico a distanza, che aveva già alcuni contatti nella zona di Malindi. «Dalla fine del 2009, sono andati in Kenya a più riprese una decina di gruppi “misti” (malati e non) de Le Parole Ritrovate, provenienti da varie regioni italiane, per incontrarsi con la gente del posto, capire quali erano i principali bisogni e monitorare l’avanzamento dei lavori di costruzione della scuola» racconta Mario Stolf, che ha accompagnato come volontario alcuni gruppi partiti da Trento. Mario, che lavora nell’accoglienza agli immigrati, in passato era già stato in Kenya per conto dell’Ong Accri, lavorando in collaborazione con la diocesi di Nairobi e la parrocchia dei comboniani di Alex Zanotelli nella baraccopoli di Korogocho. «Perciò conoscevo già il territorio e la lingua locale, lo swahili. Prima del viaggio ho cercato di preparare i ragazzi, dando qualche informazione sul paese e qualche regola di comportamento, per evitare che agissero come i classici turisti mordi e fuggi, che fanno più danno che bene».
In effetti la presenza dei ragazzi delle Pr – documentata anche nel film «Muyeye» di Sergio Damiani e Juliane Biasi, selezionato tra i migliori documentari del 2011 da Rai Doc3 – è stata un’esperienza del tutto nuova per gli abitanti del villaggio. «Di solito i turisti arrivano da Malindi su pulmini da cui non scendono nemmeno per scattare le foto: si limitano a tirar giù i finestrini e lanciare ai ragazzini soldi e caramelle, per poi tornare subito in albergo o in spiaggia» racconta Mario Stolf. «I nostri ragazzi invece trascorrevano tutto il giorno con gli abitanti di Muyeye», dice De Stefani, «condividendo i pasti e dedicando molto tempo a parlare per conoscersi e scambiarsi esperienze a vicenda, con la traduzione simultanea di Mario».

Così diversi così uguali
Soprattutto i ragazzi e i loro familiari hanno cercato di raccontare e spiegare agli abitanti del villaggio le proprie esperienze di sofferenza e malattia. «Non è stato sempre facile» racconta il regista Sergio Damiani, «ricordo ad esempio quando Ugo, un ragazzo affetto da disturbi ossessivi e molto ansioso, ha raccontato che in passato aveva tentato di suicidarsi. La gente di Muyeye non riusciva a capire… come si può desiderare la morte quando si hanno i vestiti e la pancia piena?». In effetti per gli africani il concetto di morte volontaria è abbastanza incomprensibile: basti pensare che da nessun paese del continente arrivano all’Organizzazione Mondiale della Sanità dati statistici sui casi di suicidio, che in realtà sono molto rari e limitati alle grandi città, dov’è più forte l’imitazione dei modelli occidentali. «Tuttavia non sono mancati momenti di condivisione molto forti ed emozionanti – continua Damiani – in particolare quando il nostro gruppo ha incontrato la famiglia di Nebat Jumba, uno spaccatore di pietre. La sua prima moglie Riziki, dopo aver dato alla luce quattro figli, è uscita di senno, ha iniziato ad avere allucinazioni e sentire le voci, e lui ha dovuto rimandarla dai suoceri, affidando i bimbi alla seconda moglie». Tra i ragazzi italiani e questa famiglia si è creato un legame stretto, e adesso il gruppo di Trento continua a spedire a Riziki, ogni due mesi, alcuni farmaci. «Attraverso Riziki abbiamo conosciuto meglio la realtà della salute mentale in Kenya», dice De Stefani. «I malati meno gravi sono ben tollerati dalla comunità, ma se il wazimu, il matto, diventa aggressivo viene chiuso in casa, tenuto alla catena o spedito al manicomio di Mombasa». A Malindi c’è un ambulatorio dove le persone possono andare una volta al mese a prendere dei farmaci, soprattutto antipsicotici; ma non esiste nessun tipo di assistenza a domicilio. «Inoltre gli interventi farmacologici o di contenzione convivono pacificamente con i riti animistici. Di tanto in tanto, com’è accaduto anche per Riziki, si sgozza un agnello o un capretto, sperando che lo “spirito cattivo” abbandoni la persona. Quanto alla psicoterapia, non sanno cosa significhi».

Non terapie, ma botte di vita!
L’incontro tra le due realtà di esclusi – i bianchi matti e i neri poveri – è stata per molti partecipanti al viaggio una «rivelazione».
«Ho scoperto che l’Africa non è come ce la fanno vedere nelle pubblicità, un’Africa triste, ma invece è piena di gioia e colori» dice Egidio di Bologna. «Loro, pur nel bisogno, vivono molto più semplicemente e autenticamente di noi» dice Gilberto di Modena. Enzo di Trento è rimasto colpito da tre cose: «Il caldo, l’acqua non potabile, la miseria. Nel villaggio avevano 10 noci di cocco con 3.000 bambini: è significativo che quelle noci le abbiano date a noi». «A me dell’Africa hanno colpito la sporcizia, i bambini e la tanta voglia di vivere» osserva invece Umberto di Sondrio. E Mirella di Trento aggiunge: «Ricordo le case con le candele accese, il mangiare con le mani tutti assieme. Io ceno con forchetta, coltello e tovagliolo, ma sicuramente la solitudine come la sentiamo noi in un condominio, là non la sentono».
Ma oltre alla scoperta di «un’altra Africa», più autentica, più dignitosa e solare, un’esperienza come quella di Muyeye può avere un valore terapeutico per le persone affette da patologie mentali? «Non facciamoci illusioni – avverte il dottor De Stefani – questi viaggi non hanno un potere taumaturgico! Per alcuni non è cambiato un bel nulla; qualcuno, vedendo le condizioni di vita di Muyeye, si è depresso ancora di più; per qualcun altro invece il viaggio è stato la grande occasione della sua vita… In generale queste esperienze sono una botta di vita per i ragazzi. Tenete conto che i malati psichici raramente fanno una vita molto attiva: queste avventure sono un modo per dirsi «anch’io posso fare cose positive e interessanti, anch’io posso vivere», e questo crea benessere. Anche perché tutte queste dinamiche le viviamo in gruppo, stando insieme, condividendo ogni momento, rompendo l’isolamento». Inoltre, come spiega Anna di Bologna: «Andando in Africa le differenze si annullano. Noi bianchi eravamo diversi ai loro occhi, e proprio questo ha portato un senso di uguaglianza nel nostro gruppo facendoci vivere una dimensione di normalità. Eravamo così, diversi per il colore della pelle, ma paradossalmente tutti uguali, non c’erano più sani e malati…».

Una scuola per dare futuro
I ragazzi delle Pr, pur non partecipando direttamente alla costruzione della scuola di Muyeye, si sono mobilitati per una raccolta fondi in tutta Italia. Dalla vendita di mattoncini, cartoline e segnalibri dipinti a mano, alla realizzazione di spettacoli e concerti, ognuno ci ha messo del suo e alla fine si sono raccolti 60.000 euro che – con l’aggiunta di una cifra uguale messa dall’associazione Itake – hanno permesso di edificare la scuola, «tutta costruita manualmente, perché la manodopera costa meno dei mezzi meccanici» spiega Egidio di Bologna.
La scelta è ricaduta su una scuola professionale perché in Kenya, spiega Mario Stolf, «dopo la scuola primaria di otto anni, obbligatoria e gratuita, gli istituti secondari e professionali sono a pagamento, e solo una ristretta élite può permetterseli; mentre i figli dei poveri (la maggior parte) vanno a lavorare nel settore del turismo, fanno i beach boys o finiscono in giri poco puliti».
La scuola di Muyeye, inaugurata ufficialmente a inizio 2011, offre una sessantina di corsi di meccanica, elettronica, informatica, edilizia, sartoria, ecc. Senza contare i corsi di italiano, visto che a Malindi non solo i turisti, ma anche molti residenti e titolari di aziende – possibili datori di lavoro dei futuri artigiani – sono nostri connazionali. La scuola, che ha già creato posti di lavoro (7 insegnanti, di cui 4 stipendiati dal ministero della Gioventù e dello Sport), è affidata a un Comitato di gestione formato da alcuni enti locali e dalle famiglie del villaggio. Spetta a esso definire le linee politiche e reperire i finanziamenti. «In Kenya le scuole non vengono sovvenzionate dallo Stato», spiega infatti Mario, «ma sono a tutti gli effetti piccole imprese, che cercano di sostenersi tramite gli sponsor, le tasse scolastiche, la vendita di prodotti realizzati al loro interno».

E non finisce qui…
Il giorno dell’inaugurazione della Muyeye Polytechnic School erano presenti le autorità locali (rappresentanti del comune, della prefettura, del ministero dell’Istruzione e di quello di Gioventù e Sport) oltre a una cinquantina di persone delle Pr e a un gruppo di studentesse e docenti del liceo Rosmini di Trento, che vanta «una lunga tradizione di rapporti con il Servizio di salute mentale della città» come spiega la preside, Matilde Carollo. «Nelle classi si tengono incontri di sensibilizzazione sui temi dello stereotipo e dei pregiudizi legati alla malattia mentale, con la partecipazione degli utenti del servizio. Gli studenti partecipano periodicamente agli stage nel centro vacanze Casa del Sole, e anche l’esperienza africana è stata un modo per sperimentarsi “sul campo”». Una studentessa racconta che, giunta a Muyeye, all’inizio non sapeva come rapportarsi agli altri: «Sono molto timida e fatico a rompere il ghiaccio. Ma il primo giorno un ragazzo si è presentato come un amico di mio fratello ed è nata un’amicizia. Una sera le persone si sono presentate più a fondo e ho scoperto che quel ragazzo non era un operatore, come credevo, ma un utente. Questo mi ha sbalordito, perché era proprio come noi…».
Adesso, a distanza di tempo, oltre a sostenere la scuola il gruppo delle Pr mantiene rapporti di vario tipo con gli abitanti del villaggio: chi si tiene in contatto via sms, chi ha attivato forme di adozione a distanza, chi – semplicemente – ha deciso che, in un modo o nell’altro, in Africa ci toerà ancora.

Stefania Garini

Stefania Garini




Terra Santa oltre il Giordano

Comunità cristiane in Giordania

La pacifica convivenza tra cristiani e musulmani in Giordania è un modello di dialogo interreligioso per il resto del Medio Oriente. E ciò grazie alla stabilità politica del regno ashemita e alla vivacità e maturità della Chiesa, una minoranza religiosa molto stimata per lo straordinario contributo delle sue opere culturali e sociali, non ultima l’assistenza ai profughi iracheni.

«La Giordania fa parte del Patriarcato Latino di Gerusalemme – esordisce il patriarca mons. Fouad Twal durante un incontro a margine del Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente, tenutosi a Roma nell’ottobre 2010 -. Anzi è il polmone, il cuore del patriarcato per il numero di famiglie e scuole cristiane, di preti e seminaristi (80% circa)». 
«In Giordania il Signore capisce l’arabo; anzi, lo parla – continua sorridendo mons. Salim Sayegh, vicario patriarcale per la Giordania -. La pacifica convivenza tra cristiani e musulmani è una realtà; benché immerso in una delle aree più conflittuali del pianeta, il paese è un esempio di dialogo e convivenza tra religioni per tutto il Medio Oriente tanto che ormai si parla di “modello Giordania”».

Un pezzo di terra santa
«Non bisogna dimenticare che la Giordania è parte integrante della Terra Santa: non a caso i pontefici, nei loro pellegrinaggi ai luoghi santi hanno sempre iniziato dalla Giordania: Paolo VI nel 1964, Giovanni Paolo II nel 2000 e Benedetto nel 2009. Anche qui pietre e paesaggi recano grandi tracce dell’Antico e del Nuovo Testamento» continua il patriarca Twal.
Le regioni a est del Giordano furono di fatto teatro di numerosi eventi della storia della salvezza fin dal tempo dei patriarchi. Nel nord, lungo la valle del torrente Yabbok passarono Abramo e suo nipote Lot diretti alla terra di Canaan; Giacobbe fece il cammino inverso per sfuggire all’ira del fratello Esaù, a cui aveva sottratto la primogenitura, e rifugiarsi presso lo zio Labano. Sulle sponde dello stesso Yabbok il patriarca fece alleanza con lo zio, si riconciliò con il fratello, si trovò coinvolto nella misteriosa lotta con l’angelo di Dio e ricevette il nuovo nome: «Israele». Molti secoli dopo quelle regioni furono occupate dai suoi discendenti: le tribù di Ruben, Gad e Manasse.
Nel sud della Giordania, a est del Mar Morto, si rifugiarono Lot e le sue figlie, fuggiti da Sodoma e Gomorra, dando origine ai Moabiti e Ammoniti; qui si stabilì anche Esaù dal quale sarebbero discesi gli Edomiti: tutte popolazioni e luoghi associati all’alleanza tra Dio e il suo popolo, alla storia di Mosè e all’epopea dell’Esodo, la lunga marcia dalla schiavitù d’Egitto alla libertà della terra promessa.
Gli archeologi hanno portato e continuano a portare alla luce numerosi siti biblici che ricordano questo evento chiave nella storia della salvezza; il più importante di essi è certamente il Monte Nebo, dove sorge uno dei santuari più suggestivi della Terra Santa, memoriale degli ultimi momenti della vita di Mosè, morto e sepolto alle soglie della terra promessa, ma non prima di averla contemplata dalla cima di quel monte.
La Giordania fu patria di importanti figure della Prima Alleanza, come la moabita Rut, bisnonna di Davide, e di Elia, padre del profetismo biblico, nato a Tisbe in Galaad e rapito in cielo da un carro di fuoco, ma destinato a ritornare per preparare l’avvento del Messia.
Otto secoli dopo, «a Betania oltre il Giordano» (Gv 1,28), poco distante dal luogo del rapimento, Giovanni Battista iniziò a preparare la venuta del Salvatore, predicando un battesimo di conversione; Gesù stesso vi si fece battezzare, dando così inizio alla sua vita pubblica. Nello stesso sito Gesù si rifugiò fuggendo da Gerusalemme per salvarsi dalla lapidazione (Gv 10,40). Sempre in Giordania il Battista terminò la sua missione con la decapitazione per ordine di Erode Antipa (Mt 14,3-11), nella fortezza di Macheronte, a est del Mar Morto, come testimonia Giuseppe Flavio.
Altri luoghi santi sono sparsi in tutta la Transgiordania, nelle regioni della Decapoli e di Perea, dove Gesù passò insegnando, sfamò le folle che lo seguivano (Mc 8,1-9), guarì malati e scacciò demoni, come fece a Gadara (Mt 8.28-34) o nella «regione dei Geraseni» (Mc 5,1-20), dove gli spiriti maligni, cacciati da due indemoniati, affogarono una mandria di porci nel lago di Galilea.

Pietre vive
Lo storico della chiesa Eusebio di Cesarea (264-340) informa che nel 67-68 d.C., durante la guerra giudaica, i cristiani fuggirono da Gerusalemme prima che fosse distrutta dai romani, attraversarono il Giordano e si rifugiarono a Pella, poi si estesero in altre città della Decapoli.
Alla fine del IV secolo il cristianesimo si era sparso in tutti i centri urbani ellenizzati della Giordania: al concilio di Nicea, nel 325, erano presenti i vescovi di città come Filadelfia (oggi Amman), Esbus e Aila (Aqaba). Ben presto accolsero il cristianesimo anche varie tribù arabe nomadi e seminomadi del deserto, come i Ghassanidi nel centro nord e quelle dei Nabatei nel sud, la cui capitale, Petra, ebbe la sua cattedrale nel 447.
A testimoniare la grande fioritura del cristianesimo rimangono le rovine, tuttora visibili, di innumerevoli chiese del IV-V secolo, abbellite da pavimenti con elaborati mosaici, da decorazioni sontuose e da altri ricchi arredi.
Edificata con pietre vive, anche dopo la conquista islamica della Terra Santa (VII sec.), la chiesa in Giordania continuò a fiorire con nuove chiese, monasteri ed eremitaggi nei deserti, popolati da migliaia di uomini e donne in cerca di silenzio e preghiera.
Per due secoli la minoranza musulmana e la maggioranza cristiana vissero fianco a fianco, grazie anche ai clan arabo-cristiani che strinsero alleanze con gli invasori consanguinei. Ma nei secoli seguenti le città bizantine si spopolarono e decaddero e la presenza cristiana si ridusse a esigua minoranza; i territori d’Oltregiordano diventarono marginali, quando, passati dal califfato degli Omayyadi a quello dell’Egitto, le rotte carovaniere furono soppiantate da quelle marittime.
Sotto l’Impero ottomano (1517-1918) i cristiani continuarono a diminuire, conservando un tenue legame di appartenenza al cristianesimo più che altro per distinguersi dalle tribù beduine passate all’islam. Giuridicamente essi dipendevano dai patriarcati di Gerusalemme, ma non ricevevano alcuna cura pastorale, finché a metà dell’Ottocento preti latini e di altre chiese cristiane si spinsero oltre il Giordano alla ricerca dei propri fedeli autoctoni. Il Patriarcato latino si mostrò subito il più dinamico, aprendo scuole, chiese e altre opere caritative a favore di tutta la popolazione giordana, che alla fine dell’Impero ottomano contava circa 40 mila abitanti, di cui il 18% cristiani.

Scuole aperte a tutti
Oggi la Giordania ha una popolazione di circa 6,5 milioni di abitanti, molti di origine palestinese, 94% musulmani e 6% cristiani, secondo le statistiche governative. Fonti indipendenti, tuttavia, stimano che i cristiani di tutte le denominazioni presenti in Giordania siano circa 340 mila; la maggioranza aderisce alle chiese ortodosse orientali; circa 110 mila sono i cattolici di vari riti (latini, melchiti, maroniti, armeni, caldei, siriaci…). Piccola ma in molti aspetti vivace, la chiesa cattolica conta in Giordania 64 parrocchie, 4 vescovi, 103 sacerdoti, 266 religiosi e religiose; giordani sono oggi la maggioranza dei seminaristi nel seminario del Patriarcato latino a Beit Jala, in Palestina. «La Giordania fornisce vescovi, sacerdoti e seminaristi a tutto il Patriarcato» sorride mons. Twal, lui stesso cittadino giordano, originario di Madaba.
Fin dalla metà dell’Ottocento, quando dai preti del Patriarcato latino furono aperte le prime scuole, in un mondo chiuso e marginale, limitato da strette leggi tribali, il settore scolastico è sempre stato il fiore all’occhiello della Chiesa cattolica in Giordania: oggi 70 mila alunni, cristiani e musulmani, frequentano 123 scuole matee e primarie, medie inferiori e secondarie, gestite da enti religiosi.
«Fino a ora, l’impegno educativo della Chiesa cattolica, per quanto grande, finiva con la maturità, mancando nel Paese una università cristiana – spiega mons. Twal -. Il 17 ottobre 2011 l’American University of Madaba ha aperto ufficialmente le porte ai primi studenti. Per ora conta 7 facoltà e può ospitare fino a 8 mila studenti».
Un’altra iniziativa in corso, appoggiata dalle autorità giordane è la costituzione del Parco archeologico di Wadi Kharrar, il luogo del battesimo di Gesù: un territorio di oltre 350 ettari, che il re di Giordania ha messo a disposizione delle varie confessioni religiose, con facoltà di costruire ognuna la propria chiesa. «Il progetto cattolico va anche oltre ed è quasi ultimato – spiega mons. Twal -. Accanto alla chiesa, sorge un grande complesso con monastero per una comunità contemplativa che si prenderà cura del sito, edifici e strutture che permettano ai pellegrini di fermarsi per ritiri spirituali e vivere un’esperienza seria di fede e di preghiera».

L’altra faccia di maometto
Benché nel regno ashemita l’islam sia religione di stato e non passi alcuna decisione governativa se prima non viene provata la conformità ai precetti islamici, la convivenza tra cristiani e musulmani è un esempio per tutti i paesi islamici. La Costituzione del 1952 garantisce «la libera espressione di tutte le forme di culto e di religione, in conformità con i costumi osservati in Giordania» e sancisce l’uguaglianza di tutti i giordani davanti alla legge senza discriminazioni basate «su razza e religione».
I cristiani sono quindi bene integrati nella società giordana; quasi tutti appartengono alle classi media e alta e godono di migliori opportunità economiche, maggiore visibilità pubblica e rilevanza sociale e politica che in qualsiasi altro paese islamico: ai cristiani sono riservati 9 seggi su 110 in Parlamento, sono affidati prominenti posizioni ministeriali e militari, cariche diplomatiche e amministrative, nella corte reale e ai vertici di imprese e banche nazionali.
«La Giordania è un Paese sereno – afferma mons. Sayegh – nel quale la Chiesa è una cosa necessaria per far vivere insieme cristiani e musulmani. Pensiamo alle scuole: i musulmani desiderano che i loro figli frequentino le scuole cristiane, e di questo la comunità cristiana è orgogliosa. I rapporti sono buoni e da noi il fondamentalismo è un fatto molto limitato. E speriamo anche di migliorare».
Ci sono state tensioni nei decenni passati, quando i Fratelli musulmani, ottenuto il controllo del Ministero dell’Educazione, hanno cercato d’islamizzare la società attraverso la scuola, rispolverando cliché di propaganda islamica, con richiami alla jihad contro i miscredenti.
A troncare ogni rigurgito fondamentalista è intervenuto il re Abdullah, nel novembre 2004, con il famoso «Messaggio di Amman», in cui «chiarisce al mondo cosa è e cosa non è il vero islam», riaffermando, in quando discendente di Maometto, la sua funzione di interprete e garante della «retta comprensione» della fede islamica, presentata come «messaggio di fratellanza e umanità, che sostiene ciò che è buono e proibisce ciò che è sbagliato, accettando gli altri e onorando ogni essere umano».
Gli islamisti più zelanti continuano il loro mobbing spirituale in vari settori della società; al tempo stesso il dialogo tra i vari leader religiosi continua fecondo, diventando un modello per tutto il mondo islamico. Ne è un esempio il documento A Common Word, la lettera dei 138 saggi musulmani, promossa proprio dal principe giordano Ghazi bin Muhammad bin Talal.
Un’altra iniziativa che ha attirato l’attenzione dei mass media, apprezzata sia dai musulmani che dai cristiani è la moschea sorta a Madaba e dedicata a Gesù Cristo, la prima del mondo arabo.

Dialogo delle opere
Il contributo che i cristiani danno alla società civile giordana è incalcolabile, soprattutto praticando «il dialogo delle opere, che sono tante» afferma al signora Huda Muhasher, presidente della Caritas giordana. «La Caritas è nata inizialmente per rispondere ai gravi problemi causati dalla guerra dei sei giorni (1967); da lì in poi ha fatto fronte a tutte le più gravi emergenze nazionali, compresa, oggi, quella degli immigrati e soprattutto dei profughi iracheni».
Fin dai tempi biblici i territori oltre il Giordano sono stati una valvola di sfogo per i conflitti dei paesi vicini: oltre metà dei residenti giordani sono di origine palestinese, migrati qui dopo le guerre del 1948 e del 1967 con Israele. L’invasione americana dell’Iraq ha portato in questi anni oltre mezzo milione di profughi, molti dei quali cristiani, accolti in maggioranza nei quartieri più poveri e periferici della capitale, Amman, ma senza alcun accesso ai servizi sociali fondamentali, perché il governo non riconosce loro lo status di rifugiati. «Ad Amman viviamo ormai da anni in prima linea l’accoglienza ai cristiani fuggiti dall’Iraq» testimonia Huda Muhasher. La loro situazione è veramente tragica: senza lo status di rifugiati gli uomini non possono lavorare né è permesso loro espatriare in Occidente. Senza lavoro non possono mantenere i loro famigliari; alcuni lavorano in nero, con il rischio di essere scoperti, arrestati e rimandati in Iraq. Per molti di essi, che a casa esercitavano una professione o un lavoro di alto livello, come professori e ingegneri, l’inattività è distruttiva, e dover vivere di aiuti è difficile da accettare: per questo aumentano tra gli iracheni le malattie legate al cuore e alla depressione.
Dal 2002 la Caritas giordana promuove programmi per creare una rete di gruppi di volontari per essere presente capillarmente sul territorio e rispondere ai bisogni delle persone più povere e vulnerabili. A oggi, sono stati costituiti 25 gruppi, che operano in 31 parrocchie di differenti città e villaggi, per un totale di circa 250 volontari. La rete estende la sua attività di sensibilizzazione soprattutto nelle scuole, per formare gruppi di volontari tra gli studenti dei vari istituti cristiani.
«La Caritas giordana, tra le altre cose, ha progetti importanti per l’assistenza ai disabili, ai quali collaborano anche i musulmani; è l’unica organizzazione impegnata nelle carceri locali» afferma ancora la signora Huda Muhasher.
Altro simbolo della solidarietà cristiana è il Centro Regina Pacis, voluto dal patriarcato latino, sostenuto da tante Ong inteazionali, tra cui il Sermig di Torino: presente ad Amman e a Madaba, con comitati formati da cristiani e musulmani, il Centro si occupa degli handicappati e del loro reinserimento sociale; essi costituiscono circa il 10% della popolazione del paese a causa dell’elevato numero di matrimoni tra consanguinei dentro le tribù.
Un’altra emergenza della società giordana è quella dell’immigrazione. Circa 70 mila donne immigrate in Giordania lavorano nelle famiglie come badanti o domestiche; vengono soprattutto da Indonesia, Sri Lanka e Filippine e in buona parte sono cristiane. Metà di esse sono senza regolari documenti, anche perché spesso vengono loro sottratti dai datori di lavoro; molte sono maltrattate e senza diritti, come in molti paesi arabi.
Anche in questi casi i centri Caritas cercano di offrire assistenza medica, cibo, consulenze legali e spiegazioni sui loro diritti, di cui spesso non sono consapevoli.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Una specie in via d’estinzione?

Ai lettori

Quando qualcosa va male, normalmente, si incolpa il tempo o il governo. Ma con chi prendersela
se i primi mesi del 2012 sono stati tempi di mietitura per sorella morte che ha
presentato il biglietto di ritorno a Casa a un buon numero di missionari (8) e missionarie
della Consolata (5)? Tredici in meno di due mesi sono tanti! Tutte persone che hanno dato
molto, anzi, tutto per la missione.
Penso a questo mentre sento il mio superiore generale commentare le statistiche dell’Istituto. A
fine 2011 i missionari della Consolata erano in tutto poco più di mille, di cui italiani solo 364, con
un’età media di sessantasei anni. Ora sono solo 356, di cui uno studente di teologia e un novizio.
E mi guardo intorno. Tanti di questi 356 sono ora in Italia, consumati da anni di vita spesa senza
pensare a se stessi, bisognosi di cure e assistenza e un po’ sconsolati nel vedere che non ci sono
giovani italiani a cui passare il testimone. «Eppure», dice un missionario novantaseienne, «la vocazione
missionaria è la più bella di tutte. Dovessi rinascere, vorrei ancora essere missionario».
Chissà se rinascendo oggi in questa nostra Italia, davvero rifarebbe la scelta di essere missionario!
Non sembra proprio una delle scelte più di moda.
Il 29 aprile sarà la giornata di preghiera per le tutte le vocazioni, in particolare quelle sacerdotali
e di vita consacrata. Occorre pregare affinché ogni cristiano risponda con generosità alla sua
specifica vocazione e perché ogni vocazione, specialmente quella al sacerdozio, sia veramente
missionaria. La missionarietà – direbbe il beato Giuseppe Allamano – è la perfezione del sacerdozio.
C’è bisogno di chiedere a Dio – non solo il 29 aprile – che «mandi operai nella sua vigna»,
perché troppi vignaioli hanno già superato l’età della pensione da un pezzo e non ce la fanno più.
In Italia siamo ancora privilegiati. Secondo le statistiche c’è ancora un sacerdote ogni 2.000 abitanti
circa (ogni 1.250 se contiamo anche i preti religiosi). In più, la domenica, abbiamo solo l’imbarazzo
della scelta per andare a messa. Però la situazione sta cambiando rapidamente. «La
chiesa cattolica [in Italia, ndr.] non è mai stata così forte, non ha mai avuto un consenso così ampio
(anche tra chi non crede). Eppure si avvia verso l’estinzione: per mancanza di preti. Lo dice
uno studio socio-demografico della Fondazione Agnelli, benedetto dai vescovi italiani», così
scriveva Gianni Barbacetto nel suo sito nel 2009. La situazione non è certo migliorata oggi, a tre
anni di distanza.
Che fare? Disperarsi? Rassegnarci? Ovviamente niente di tutto questo. La Chiesa è passata anche
attraverso crisi peggiori durante due millenni di storia e continua a vivere e rinnovarsi perché
è opera di Dio e non di uomini. Ciò non significa che dobbiamo starcene con le mani in mano
in attesa che faccia tutto Dio. Certamente è Lui che chiama e manda, ma ha bisogno della nostra
collaborazione. Le vocazioni non è un affare del Vaticano o dei vescovi, ma della Chiesa e quindi
«mio» in quanto sono cristiano. La «mia» Chiesa ha bisogno di sacerdoti, religiosi, suore, ministri,
catechisti, animatori e missionari per vivere, celebrare e annunciare. Una Chiesa locale che
non ha più vocazioni deve davvero interrogarsi sulla qualità della sua vita di fede, chiedersi se
l’evento della risurrezione di Gesù abbia in essa ancora la forza rivoluzionaria delle origini, se
sia ancora vissuta come una «buona notizia» per cui vale la spesa lasciare tutto e andare fino
agli estremi confini del mondo per condividerla con tutti. Non è forse che siamo diventati tutti un
po’ idolatri, schiavi del nostro benessere e quindi incapaci di quella gratuità e abbandono fiducioso
che il «vieni e seguimi» di Gesù richiede?
Aprile è tempo di Pasqua, memoria della resurrezione del Signore, la «buona notizia» che continua
a cambiare il mondo e la nostra vita. Diventiamone giorniosi testimoni! Allora i missionari non
saranno più una specie in via di estinzione.
Buona Pasqua.

                                                                                                                               Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Cari missionari

Dono
inaspettato

Un caro saluto dal Congo. In questi giorni, in occasione del compleanno dell’amico Rolando Bianchi, capitano del Torino, un gruppo di suoi fans mi ha inviato un’offerta. Questa è la mia email a loro.
Carissime e carissimi
del Rolly Girls & Boys,
grazie di cuore del regalone che avete fatto al capitano Rolando in occasione del suo compleanno e che avete con gioia inviato a me in Congo, obbedendo così al desiderio dell’amico Rolly.
Da circa 20 anni vivo in Congo, un paese grande quasi 7 volte l’Italia, popolato da gente simpatica e accogliente, ricco di tante bellezze naturali, di foreste immense, di fiumi, di tanti minerali, ma dove la maggioranza della gente vive ancora una vita che non è degna di essere chiamata umana, con grosse difficoltà sociali, economiche e politiche.
Davanti a tutta questa problematica noi missionari ci sentiamo piccoli, senza mezzi adeguati per cambiare questa realtà. Anche se siamo come una goccia nell’oceano, continuiamo a vivere con la nostra gente: si lavora, si prega, si anima, si sogna un Congo nuovo! Insieme crediamo a un futuro più degno e più bello di quello di oggi che è ancora pieno di dolore, di ingiustizie, di sofferenze. Siamo impegnati nel campo della salute, della scuola, dell’acqua, dell’agricoltura, delle strade, della formazione umana e cristiana, della responsabilità civile, della giustizia e della pace, e anche dello sport, soprattutto con ragazzi e giovani!
Grazie allora del vostro dono, segno d’un cuore buono e sensibile alla sofferenza degli altri.
Assicuro la mia preghiera per voi, i vostri cari, il capitano e per tutto il Torino! La Madonna Consolata patrona di Torino accompagni voi e il Grande Torino!
P. Rinaldo Do
dal Congo RD

Obbedienza – Disobbedienza
Ecco cosa leggo a pag. 32 del numero di dicembre della vostra rivista: «Oggi nella Chiesa abbondano le parole, le esortazioni, le prediche, estrapolate dalla vita… Domina il principio di autorità che si basa sull’obbedienza passiva e senza intelligenza: bisogna obbedire perché lo dice chi comanda. Il fondamento della fede in questo contesto non è la persona di Dio o la sua Parola rivelata, ma il culto della personalità, che in termini biblici è idolatria peccaminosa». Interessante! Sembra di leggere un testo di Franco Barbero, un ex-prete che considera il Vaticano la Nuova Babilonia… A me hanno insegnato che il papa è il successore di Pietro, adesso scopro che era tutto sbagliato, che il rispetto verso la parola del papa è «idolatria peccaminosa»… O ho sbagliato tutto io, o state sbagliando di grosso Voi, anche perché il metodo non è cambiato: una volta la Chiesa si scagliava contro gli eretici, e si accendevano i roghi, oggi chi ragiona come Paolo Farinella insegna al popolo bue a disprezzare la gerarchia. Potete aiutare noi poveri fedeli ignoranti a capirci qualcosa? Possiamo ancora conservare qualcosa del primato che Gesù ha conferito a Pietro, magari cambiandogli il nome, ma mantenendo la sostanza della Chiesa che Gesù ha voluto lasciare dopo di lui? Possiamo continuare ad amare un santo come Giovanni Paolo II, o dobbiamo considerarla «idolatria peccaminosa»? Grazie.
Franco Estorgio
via email, 30/01/2012

Caro Sig. Franco,
«Quidquid recipitur ad modus recipientis recipitur», diceva S. Tommaso. Quanto è recepito, è recepito alla maniera del recipiente. Mi deve scusare, ma il suo commento mi ha fatto pensare a questo antico detto. Scrivere che Don Paolo Farinella «insegna a disprezzare la gerarchia» mi sembra proprio una forzatura. Non tocca a me fare il difensore d’ufficio di Don Paolo. Si sa difendere da solo. A lui piuttosto i nostri auguri accompagnandolo nella preghiera mentre entra in ospedale, proprio il Mercoledì delle Ceneri, per una seconda operazione al cuore.
In quelle righe incriminate non vedo un invito a disobbedire, ma a obbedire meglio, con più responsabilità e meno passività e opportunismo. La passività, per esempio, di chi obbedisce all’obbligo di fare astinenza durante la quaresima, ma non ha scrupoli a votare un partito che fa del razzismo la sua bandiera. L’opportunismo di chi lo (il Papa) incensa quando fa comodo ai propri interessi, e lo ignora completamente quando dice qualcosa che non piace.
Quante volte anche Gesù, nel Vangelo se la prende con i farisei per la loro falsa obbedienza. Pur zelanti nell’osservare minuziosamente ogni comandamento, regola e tradizione, in realtà erano ribelli alla vera volontà di Dio che ha un ordine solo: «Ama»!
Lei parla di «rispetto della parola del Papa» e amore a un «santo come Giovanni Paolo II». Non vedo come quanto scritto sulla nostra rivista possa essere un invito a non rispettare e non amare il Papa. Anzi, chiedere un’obbedienza che diventi imitazione, «non basta ubbidire, bisogna imitare», è molto di più che chiedere una semplice obbedienza. La Madre di Gesù è la prima obbediente. S. Paolo l’aveva capito bene quando scrisse: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1).
Che poi, andando sul sito di Don Paolo, uno trovi delle opinioni da cui si può dissentire, è vero, ma riteniamo che i nostri lettori siano tutt’altro che «un popolo bue». Pubblicandone gli articoli biblici, non invitiamo a diventare fans o discepoli di Farinella, vogliamo solo offrire degli strumenti indiscutibilmente validi per conoscere meglio, amare e vivere la Parola di Dio e per diventare discepoli di Gesù.