Conversazione con padre Nicholas Muthoka
Tra risate fragorose e solennità del contegno, la missione italiana di un giovane sacerdote kenyano. Un autoritratto involontario, più che un confronto su grandi temi. Un piccolo spaccato di una nuova generazione di uomini consacrati, a cinquant’anni dal Vaticano II. Mentre il papa invita la Chiesa a pregare per le vocazioni.
«Tre parroci si trovano al bar e conversano su un problema comune: la presenza di pipistrelli nelle loro chiesette di campagna. Uno dei tre inizia: “Io ho provato col fucile, ma l’unico risultato è stato di riempire di buchi la chiesa”. “Io invece ho provato col veleno e sono spariti, ma dopo un po’ sono tornati”. “Io invece – dice il terzo – ho trovato la soluzione: li ho battezzati, poi li ho cresimati, e da allora in chiesa non si sono più fatti vedere”».
Il libro di «barzellette da preti» che padre Nicholas tiene in mano mostra i segni dell’usura, e il missionario ha tutta l’aria di conoscere bene il suo contenuto. Lo sfoglia mentre ci accoglie nel suo ufficio e ci fa accomodare su una sedia molto bassa. Sulla superficie di vetro della sua scrivania, sgombra e pulita, campeggia un piccolo crocifisso di bronzo che il nostro interlocutore sovrasta dall’alto.
Padre Nicholas fa precedere e seguire alla lettura delle barzellette le fragorose risate per le quali è ormai conosciuto da molti ragazzi, giovani e famiglie di Torino e dintorni.
A Roma con Marx
Padre Nicholas Nyamasyo Muthoka, nato nel 1981 a Machakos, provincia di Easte, Kenya, è stato ordinato sacerdote nel settembre scorso: «È stata la prima ordinazione nel mio paese da 37 anni a questa parte» dice con visibile orgoglio. Entrato nel seminario minore diocesano a 14 anni, ha sentito una seconda forte chiamata all’età di 18, quando ha iniziato l’iter formativo della Consolata che l’ha portato a Nairobi, Sagana, Roma e Torino, dove ora lavora.
«Fino a 14 anni ho studiato nel villaggio: studiavo, portavo al pascolo gli animali e lavoravo a casa. I miei genitori erano insegnanti, molto quadrati. Eravamo otto figli: uno è morto a causa del morso di un serpente. Siamo cinque maschi e due femmine. Ho studiato nelle diverse scuole in cui insegnava mia mamma, e per questo durante gli ultimi due anni non sono mai stato punito dagli insegnanti: mi dava lei le botte a casa. Però un giorno in cui lei non era a scuola, nell’ultima settimana della primaria, gli insegnanti si sono vendicati: non ricordo cosa avessi fatto, forse parlavo in classe, e me ne hanno dato tante».
Padre Nicholas ha un ricordo molto positivo degli anni in seminario, a eccezione del primo anno a Roma, nel quale ha sperimentato una crisi di fede dovuta alla discordanza tra ciò che vedeva nella «città del Papa» e l’idea che si era fatto dell’Europa cristiana. «Avevo idealizzato Roma considerandola il centro della fede. Mi aspettavo un altro modo di vivere il cristianesimo. In Europa la Chiesa che ho conosciuto dai missionari non è vissuta nella società. Sono venuto a contatto con una realtà che mi è sembrata senza Dio. Non riuscivo a capire come mai gli italiani che sono venuti in Kenya portando Gesù Cristo non prendessero con serietà la fede. Un mio fratello che aveva studiato Karl Marx, quando ero piccolo mi aveva detto che il cristianesimo era una creazione dei bianchi. Quando sono arrivato a Roma ho pensato: “Mio fratello aveva ragione”. Ora sono sette anni che vivo in Italia, la perseveranza mi ha aiutato a superare la crisi e adesso mi trovo molto bene tra gli italiani».
Missione Italia
Le statistiche dicono che in Asia c’è un sacerdote ogni 47mila abitanti, in Africa uno ogni 27mila, mentre in Europa ce n’è uno ogni 3.700 e in Italia uno ogni 1.200. Queste cifre sono forse uno dei motivi per cui gli europei, gli italiani, e gli stessi missionari nati nel Bel Paese, fanno fatica a considerare l’Italia come terra di missione. «Dire ai preti, ai Vescovi italiani, i quali hanno visto la loro terra dare tanti missionari per evangelizzare il mondo, che l’Italia è terra di missione, non è difficile. La maggior parte è d’accordo, lo afferma con decisione, ma in fondo non mi sembra convinta dentro, non lo sente. Il problema è una concezione riduttiva di missione per cui “ad gentes” è uguale a “mancanza di preti”. Non è vero. È questione di proporre una vita vissuta pienamente. Può anche esserci un prete ogni mille persone, ma se poi la società va per conto suo vuol dire che c’è ancora bisogno di evangelizzazione. Io ogni settimana incontro molti ragazzi nelle scuole, insieme parliamo delle cose concrete della loro vita: questa è evangelizzazione. La Chiesa non è presente lì dove vado io, è per questo che mi considero missionario».
Il nostro interlocutore si accalora parlando degli studenti incontrati nelle scuole superiori e ci parla di un altro preconcetto che rende difficile agli italiani considerare il proprio paese come luogo di missione: «I missionari spesso sono visti come uomini che vanno dai poveri per costruire scuole, ospedali, pozzi. Se la missione è ridotta a questo, l’Italia non è una terra di missione. Nelle problematiche sociali italiane, grazie a Dio, la Chiesa ha già un impegno forte senza bisogno di noi. Qui in Italia c’è un certo senso di autosufficienza, e questo fa male a tutti: quando vado nelle scuole e faccio vedere filmati che parlano di povertà, di guerra, di Aids, di conflitti intertribali, di solito i ragazzi sono d’accordo che sono situazioni in cui l’intervento di un missionario è importante, ma quando parliamo di divorzio, droga, solitudine, depressione, sofferenze che colpiscono le persone in Italia, allora dicono che sono cose normali, che non c’è bisogno dei missionari per affrontarle».
Forse perché parla di scuola e di studenti, padre Nicholas, dietro la sua scrivania, assume un contegno solenne da insegnante, alzando l’indice. «Italia ed Europa sono luoghi di missione perché non c’è la pienezza della vita di cui Gesù ha parlato, non c’è quella pace interiore che proviene dall’incontro con Cristo. Se non si attua un intervento educativo serio, concreto, io temo che quando questi ragazzi cresceranno e diverranno politici, dirigenti, ognuno penserà per sé, e allora, altro che democrazia».
La profezia funesta del missionario viene subito seguita dalla proposta di una soluzione: «Bisogna parlare di Dio: si possono affrontare le problematiche dei ragazzi a livello psicologico, di amicizia, però finché non si arriva a Gesù Cristo, non si risolve niente. Ci sono dei demoni che vengono cacciati solo attraverso la preghiera. Ci sono certe abitudini di vita, certi vizi, che, senza Gesù Cristo, non si possono superare. La missione è andare incontro alla gente che magari non soffre materialmente – benché con la crisi attuale si rischia di soffrire anche da questo punto di vista – ma soffre dentro».
Immaginario e realtà di due continenti
Data la sua esperienza italiana, ogni volta che torna in Kenya, padre Nyamasyo, come viene chiamato da alcuni giovani che lo frequentano, viene assalito da domande sul suo «paese adottivo» in modo del tutto simile a quello con cui in Italia si ricopre di domande il missionario che torna dall’Amazzonia o dalla Corea. «La gente è molto attratta. Quando sono stato a casa qualche mese fa ho dato dell’Europa un’immagine molto positiva: una Chiesa che ha radici, la serietà della gente nel darsi da fare, ad esempio sotto l’aspetto professionale, ma anche la sincerità delle persone. Parlo di queste cose per spronare i miei conterranei a imparare da questa società. Però poi metto in guardia, parlo della globalizzazione, dico che non tutto funziona, esorto i giovani a stare attenti ad alcuni disvalori europei come il mettere al centro i soldi invece della persona umana. Alcuni mi hanno chiesto: “possiamo venire in Europa a lavorare?”. Io ho detto loro che sarebbe meglio stare a casa per far sviluppare il Kenya».
L’immagine che nel suo paese si ha dell’Europa è quella attraente di un continente benestante in cui si vive nel benessere. È l’immagine di sé che l’occidente, tenta di dare al mondo, oltre che a se stesso, anche attraverso il possesso quasi esclusivo dei mezzi di comunicazione e d’informazione a livello globale. Chiediamo a padre Nicholas cosa ne pensa dell’immagine stereotipata dell’Africa che propongono i mass media italiani, accompagnati e confermati a volte da Ong e da missionari: quella di un continente in guerra, che soffre fame e malattie, popolato di gente priva di iniziativa, incapace di badare a se stessa, disperata. Il missionario, dopo la sua risata di rito, ammette di averci sofferto: «Temevo che incontrandomi, la gente pensasse di trovarsi di fronte a un poveretto, bisognoso di aiuto. Era una questione di autostima, di complesso d’inferiorità. Ora, avendo quotidianamente contatto con la gente e conoscendo i suoi pregiudizi, non ci soffro più. Un po’ è vero quello che viene raccontato dell’Africa: quando si parla di gente povera è vero. È vero che gli slums sono luoghi invivibili, che nel mio villaggio ci sono situazioni di orfani, di Aids, è vero che ci sono gli animali, ci sono i safari. È tutto vero. L’Africa non è tutta oro, però non è nemmeno tutta problemi! Che venga raccontata la verità non mi fa problema, l’importante è che tutti ci accorgiamo di non essere autosufficienti. Renderci conto che in Italia abbiamo i nostri problemi, che in Kenya abbiamo i nostri problemi».
L’immagine di Africa veicolata dai media fa il paio con l’immagine degli immigrati. «Io tecnicamente sono straniero, interiormente no. Ci sono miei amici che hanno vissuto esperienze di razzismo. Personalmente non ho mai subito discriminazione. Forse perché sono prete. Anche nelle famiglie che incontro, o con gli anziani. Parlando con loro ho riscontrato che c’è paura del migrante, dell’invasione, però è una paura ideale, che non ha conseguenze nell’incontro personale. Ad esempio mi capita che persone mi fermino per chiedermi indicazioni sulle strade. Se ci fosse razzismo, non chiederebbero a me». In ogni caso, il problema dell’intolleranza nei confronti dell’altro è una caratteristica di tutti i popoli: «In Kenya c’è tra le diverse etnie. L’arrivo di migranti non è percepito come un problema di per sé, non c’è la paura di un’invasione. Se l’arrivo di somali, ad esempio, provoca reazioni di intolleranza è per questioni di etnia. Per i kenyani il problema sta nel fatto che siano somali. L’intolleranza è quella tra le diverse etnie per questioni storiche. Ad esempio per l’etnia dei kamba, a cui io appartengo, nei tempi antichi l’intolleranza verso altri era una questione di orgoglio: l’etnia kamba era quella perfetta, scelta da Dio, aveva gli usi e costumi più belli. Gli altri erano stranieri, cattivi. I miei antenati andavano regolarmente ad attaccare i masai, che erano i nemici perfetti, non perché avessero fatto chissà cosa, ma perché erano masai. È una questione storica che si deve leggere negli usi e nelle tradizioni, e poi c’è la manipolazione dei politici a fini elettorali».
«Ho sentito il grido del mio popolo»
Il giovane missionario in altre occasioni ci aveva detto di aver capito alcune problematiche del suo paese stando in Italia, in particolare venendo a contatto con la realtà del consumo critico e parlando con le famiglie che fanno parte del Consolata GAS, Gruppo di Acquisto Solidale nato nel Centro di Animazione di Casa Madre. «Io non ho mai vissuto in uno slum. Ci sono andato una volta. Però mi sembrava normale. Vicino al mio villaggio c’è una multinazionale che produce cemento. Questo si sparge tutto attorno entrando nei polmoni delle persone che vivono nella zona. Di questo la gente non si accorge, pensa che sia tutto normale, che siano i wasungu che lavorano come sempre. Ho sempre saputo che il Kenya è un paese povero. Ciò che non sapevo era il perché. I meccanismi dell’economia internazionale, l’impoverimento, le multinazionali straniere che sfruttano le nostre terre». Il suo modo solenne di parlare, tra uno scoppio di risate e l’altro, diventa ancora più grave: «Ci sono persone abituate a fare distinzioni tra il sociale e lo spirituale. Le problematiche sociali ci interrogano, e la fede senza le opere è morta: non si può distinguere tra una Chiesa che si impegna socialmente e un’altra che si impegna spiritualmente. È l’unica fede che si esprime nell’aiuto al povero e nella preghiera: è il pane spezzato, l’unico Gesù Cristo. Allora le problematiche sociali riguardano lo spezzare il pane. “Ho sentito il grido del mio popolo”, dice il Signore a Mosé. “Date voi da mangiare”, dice Gesù. Non si può convivere con il peccato, anche con quello strutturale, ossia l’ingiustizia sistematica, lo sfruttamento dell’altro».
Italia (e giovani) in crisi esistenziale
Padre Nicholas ha assistito all’esplosione della crisi economica che sta colpendo l’Italia. Nonostante si dichiari a più riprese inadeguato a fare commenti rispetto alla situazione economica e politica italiana, gli chiediamo di dirci qualche sua impressione a pelle: «Penso che la crisi sia reale, però i timori sono esagerati. Gli italiani non sanno cosa significa non avere patrimonio, non avere niente. Io vengo da un paese povero. La mia famiglia non è povera perché i miei genitori lavoravano entrambi, e noi figli abbiamo studiato tutti. Però ho vissuto in una situazione in cui non c’era patrimonio. In Italia c’è da ringraziare Dio per il patrimonio che i genitori hanno potuto accumulare negli anni per aiutare i figli. Per dirla in poche parole, non vedo che gli italiani muoiano di fame. C’è però una seconda considerazione: i ragazzi non sono pronti a vivere nella precarietà economica, e la mancanza di lavoro li manda in crisi. La loro preoccupazione è giusta, non perché manchi qualcosa: si mangia, si comprano i biglietti per il concerto, si va al cinema, in piscina, la vita va avanti. Ma la preoccupazione è seria perché i ragazzi non sono pronti, e questo li manda profondamente in crisi. Se mio fratello sta un anno o due senza lavorare, si preoccupa, però non va in depressione. Qui entra in gioco una questione esistenziale».
Evangelizzare la cultura
Il riferimento reiterato al mondo giovanile italiano che il nostro interlocutore sta iniziando a conoscere nella sua frequentazione delle scuole, ci induce a chiedergli di descriverci un po’ meglio in cosa consista il suo lavoro di evangelizzazione: «L’Occidente ha un ruolo importante nel mondo, e i ragazzi che incontro nelle scuole saranno i futuri leader dell’Europa. Bisogna essere presenti dove si crea la cultura per mettervi la luce del Vangelo. Stimolare i ragazzi a prendere sul serio la loro vita. Il lavoro che faccio nelle scuole consiste in un confronto culturale ed evangelico con i popoli del mondo, partendo dal grosso patrimonio accumulato dai nostri due istituti di missionari e missionarie della Consolata. Come vivono gli altri il corpo, la sessualità, la libertà, la progettualità, la condizione giovanile, gli aspetti profondi della vita? Partiamo da questi aspetti, poi ci interroghiamo su come i nostri ragazzi vivono le stesse esperienze, e infine arriviamo alla visione cristiana».
Per padre Nicholas è un lavoro di evangelizzazione: la sua intenzione è vocazionale, vuole cioè che i ragazzi si rendano conto della serietà della vita, e aiutarli a scoprire la loro strada.
«I missionari sono quelli che vanno. I primi missionari andavano nei villaggi. Leggendo la realtà di Torino mi sono chiesto: quali sono i villaggi nei quali posso andare? Ho identificato la scuola, e in essa mi sto impegnando».
Vocazioni, dono della carità di dio
Il 29 aprile si celebrerà la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. Il messaggio del papa si intitola: «Le vocazioni, dono della carità di Dio», e lo slogan pensato dalla Cei per la stessa giornata è: «Rispondere all’amore… si può». «Io ho iniziato il cammino per diventare prete perché ho visto il mio parroco lavorare. Ho visto quello che faceva e ho pensato: “Posso anche io fare questo”. La mia vocazione è nata in un contesto di Chiesa che vive e serve. E la maggioranza delle vocazioni nascono così, come doni della carità di Dio e non come risposta a un’esigenza personale, o della propria famiglia. La vocazione è questo: rispondere all’amore che abbiamo ricevuto. Chi ha ricevuto tanto dona tanto e viceversa. Nel contesto dell’Italia di oggi, i ragazzi che incontro, non so quanto amore abbiano ricevuto. Dio dona alla Chiesa le vocazioni, ma a seconda dell’amore che le persone hanno ricevuto. La missione è aiutarle a sperimentare veramente l’amore di Dio. Quando l’avranno sperimentato, si potranno donare. Un ragazzo a scuola mi diceva: “L’amore non è possibile: i miei si sono separati e nessuno mi ha interpellato. Litigavano, volavano i piatti. Mia sorella si è sposata e si è separata. Mia cugina si è sposata ed è durata un anno”, sembrava una litania. E questa situazione oggi è generalizzata. Dobbiamo buttarci a insegnare a questi ragazzi e alle famiglie come vivere l’amore, così che si possano donare. Come dice padre Franco Gioda: “Lì dove c’è una lacrima noi dobbiamo esserci”».
Padre Nicholas, al richiamo del pranzo ormai pronto nel refettorio della Casa Madre dei missionari della Consolata, ci congeda, mettendo nuovamente al centro il libro con il quale ci aveva accolti: «Un giovanotto va dal parroco gesuita della sua parrocchia a chiedergli in prestito l’automobile. Il gesuita gli dice: “Non te la darò se prima non ti tagli i capelli!”. Il ragazzo fa: “Padre, ma anche Gesù aveva i capelli lunghi…”. E il gesuita: “Infatti andava a piedi”».
Luca Lorusso
Luca Lorusso