Terra Santa oltre il Giordano

Comunità cristiane in Giordania

La pacifica convivenza tra cristiani e musulmani in Giordania è un modello di dialogo interreligioso per il resto del Medio Oriente. E ciò grazie alla stabilità politica del regno ashemita e alla vivacità e maturità della Chiesa, una minoranza religiosa molto stimata per lo straordinario contributo delle sue opere culturali e sociali, non ultima l’assistenza ai profughi iracheni.

«La Giordania fa parte del Patriarcato Latino di Gerusalemme – esordisce il patriarca mons. Fouad Twal durante un incontro a margine del Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente, tenutosi a Roma nell’ottobre 2010 -. Anzi è il polmone, il cuore del patriarcato per il numero di famiglie e scuole cristiane, di preti e seminaristi (80% circa)». 
«In Giordania il Signore capisce l’arabo; anzi, lo parla – continua sorridendo mons. Salim Sayegh, vicario patriarcale per la Giordania -. La pacifica convivenza tra cristiani e musulmani è una realtà; benché immerso in una delle aree più conflittuali del pianeta, il paese è un esempio di dialogo e convivenza tra religioni per tutto il Medio Oriente tanto che ormai si parla di “modello Giordania”».

Un pezzo di terra santa
«Non bisogna dimenticare che la Giordania è parte integrante della Terra Santa: non a caso i pontefici, nei loro pellegrinaggi ai luoghi santi hanno sempre iniziato dalla Giordania: Paolo VI nel 1964, Giovanni Paolo II nel 2000 e Benedetto nel 2009. Anche qui pietre e paesaggi recano grandi tracce dell’Antico e del Nuovo Testamento» continua il patriarca Twal.
Le regioni a est del Giordano furono di fatto teatro di numerosi eventi della storia della salvezza fin dal tempo dei patriarchi. Nel nord, lungo la valle del torrente Yabbok passarono Abramo e suo nipote Lot diretti alla terra di Canaan; Giacobbe fece il cammino inverso per sfuggire all’ira del fratello Esaù, a cui aveva sottratto la primogenitura, e rifugiarsi presso lo zio Labano. Sulle sponde dello stesso Yabbok il patriarca fece alleanza con lo zio, si riconciliò con il fratello, si trovò coinvolto nella misteriosa lotta con l’angelo di Dio e ricevette il nuovo nome: «Israele». Molti secoli dopo quelle regioni furono occupate dai suoi discendenti: le tribù di Ruben, Gad e Manasse.
Nel sud della Giordania, a est del Mar Morto, si rifugiarono Lot e le sue figlie, fuggiti da Sodoma e Gomorra, dando origine ai Moabiti e Ammoniti; qui si stabilì anche Esaù dal quale sarebbero discesi gli Edomiti: tutte popolazioni e luoghi associati all’alleanza tra Dio e il suo popolo, alla storia di Mosè e all’epopea dell’Esodo, la lunga marcia dalla schiavitù d’Egitto alla libertà della terra promessa.
Gli archeologi hanno portato e continuano a portare alla luce numerosi siti biblici che ricordano questo evento chiave nella storia della salvezza; il più importante di essi è certamente il Monte Nebo, dove sorge uno dei santuari più suggestivi della Terra Santa, memoriale degli ultimi momenti della vita di Mosè, morto e sepolto alle soglie della terra promessa, ma non prima di averla contemplata dalla cima di quel monte.
La Giordania fu patria di importanti figure della Prima Alleanza, come la moabita Rut, bisnonna di Davide, e di Elia, padre del profetismo biblico, nato a Tisbe in Galaad e rapito in cielo da un carro di fuoco, ma destinato a ritornare per preparare l’avvento del Messia.
Otto secoli dopo, «a Betania oltre il Giordano» (Gv 1,28), poco distante dal luogo del rapimento, Giovanni Battista iniziò a preparare la venuta del Salvatore, predicando un battesimo di conversione; Gesù stesso vi si fece battezzare, dando così inizio alla sua vita pubblica. Nello stesso sito Gesù si rifugiò fuggendo da Gerusalemme per salvarsi dalla lapidazione (Gv 10,40). Sempre in Giordania il Battista terminò la sua missione con la decapitazione per ordine di Erode Antipa (Mt 14,3-11), nella fortezza di Macheronte, a est del Mar Morto, come testimonia Giuseppe Flavio.
Altri luoghi santi sono sparsi in tutta la Transgiordania, nelle regioni della Decapoli e di Perea, dove Gesù passò insegnando, sfamò le folle che lo seguivano (Mc 8,1-9), guarì malati e scacciò demoni, come fece a Gadara (Mt 8.28-34) o nella «regione dei Geraseni» (Mc 5,1-20), dove gli spiriti maligni, cacciati da due indemoniati, affogarono una mandria di porci nel lago di Galilea.

Pietre vive
Lo storico della chiesa Eusebio di Cesarea (264-340) informa che nel 67-68 d.C., durante la guerra giudaica, i cristiani fuggirono da Gerusalemme prima che fosse distrutta dai romani, attraversarono il Giordano e si rifugiarono a Pella, poi si estesero in altre città della Decapoli.
Alla fine del IV secolo il cristianesimo si era sparso in tutti i centri urbani ellenizzati della Giordania: al concilio di Nicea, nel 325, erano presenti i vescovi di città come Filadelfia (oggi Amman), Esbus e Aila (Aqaba). Ben presto accolsero il cristianesimo anche varie tribù arabe nomadi e seminomadi del deserto, come i Ghassanidi nel centro nord e quelle dei Nabatei nel sud, la cui capitale, Petra, ebbe la sua cattedrale nel 447.
A testimoniare la grande fioritura del cristianesimo rimangono le rovine, tuttora visibili, di innumerevoli chiese del IV-V secolo, abbellite da pavimenti con elaborati mosaici, da decorazioni sontuose e da altri ricchi arredi.
Edificata con pietre vive, anche dopo la conquista islamica della Terra Santa (VII sec.), la chiesa in Giordania continuò a fiorire con nuove chiese, monasteri ed eremitaggi nei deserti, popolati da migliaia di uomini e donne in cerca di silenzio e preghiera.
Per due secoli la minoranza musulmana e la maggioranza cristiana vissero fianco a fianco, grazie anche ai clan arabo-cristiani che strinsero alleanze con gli invasori consanguinei. Ma nei secoli seguenti le città bizantine si spopolarono e decaddero e la presenza cristiana si ridusse a esigua minoranza; i territori d’Oltregiordano diventarono marginali, quando, passati dal califfato degli Omayyadi a quello dell’Egitto, le rotte carovaniere furono soppiantate da quelle marittime.
Sotto l’Impero ottomano (1517-1918) i cristiani continuarono a diminuire, conservando un tenue legame di appartenenza al cristianesimo più che altro per distinguersi dalle tribù beduine passate all’islam. Giuridicamente essi dipendevano dai patriarcati di Gerusalemme, ma non ricevevano alcuna cura pastorale, finché a metà dell’Ottocento preti latini e di altre chiese cristiane si spinsero oltre il Giordano alla ricerca dei propri fedeli autoctoni. Il Patriarcato latino si mostrò subito il più dinamico, aprendo scuole, chiese e altre opere caritative a favore di tutta la popolazione giordana, che alla fine dell’Impero ottomano contava circa 40 mila abitanti, di cui il 18% cristiani.

Scuole aperte a tutti
Oggi la Giordania ha una popolazione di circa 6,5 milioni di abitanti, molti di origine palestinese, 94% musulmani e 6% cristiani, secondo le statistiche governative. Fonti indipendenti, tuttavia, stimano che i cristiani di tutte le denominazioni presenti in Giordania siano circa 340 mila; la maggioranza aderisce alle chiese ortodosse orientali; circa 110 mila sono i cattolici di vari riti (latini, melchiti, maroniti, armeni, caldei, siriaci…). Piccola ma in molti aspetti vivace, la chiesa cattolica conta in Giordania 64 parrocchie, 4 vescovi, 103 sacerdoti, 266 religiosi e religiose; giordani sono oggi la maggioranza dei seminaristi nel seminario del Patriarcato latino a Beit Jala, in Palestina. «La Giordania fornisce vescovi, sacerdoti e seminaristi a tutto il Patriarcato» sorride mons. Twal, lui stesso cittadino giordano, originario di Madaba.
Fin dalla metà dell’Ottocento, quando dai preti del Patriarcato latino furono aperte le prime scuole, in un mondo chiuso e marginale, limitato da strette leggi tribali, il settore scolastico è sempre stato il fiore all’occhiello della Chiesa cattolica in Giordania: oggi 70 mila alunni, cristiani e musulmani, frequentano 123 scuole matee e primarie, medie inferiori e secondarie, gestite da enti religiosi.
«Fino a ora, l’impegno educativo della Chiesa cattolica, per quanto grande, finiva con la maturità, mancando nel Paese una università cristiana – spiega mons. Twal -. Il 17 ottobre 2011 l’American University of Madaba ha aperto ufficialmente le porte ai primi studenti. Per ora conta 7 facoltà e può ospitare fino a 8 mila studenti».
Un’altra iniziativa in corso, appoggiata dalle autorità giordane è la costituzione del Parco archeologico di Wadi Kharrar, il luogo del battesimo di Gesù: un territorio di oltre 350 ettari, che il re di Giordania ha messo a disposizione delle varie confessioni religiose, con facoltà di costruire ognuna la propria chiesa. «Il progetto cattolico va anche oltre ed è quasi ultimato – spiega mons. Twal -. Accanto alla chiesa, sorge un grande complesso con monastero per una comunità contemplativa che si prenderà cura del sito, edifici e strutture che permettano ai pellegrini di fermarsi per ritiri spirituali e vivere un’esperienza seria di fede e di preghiera».

L’altra faccia di maometto
Benché nel regno ashemita l’islam sia religione di stato e non passi alcuna decisione governativa se prima non viene provata la conformità ai precetti islamici, la convivenza tra cristiani e musulmani è un esempio per tutti i paesi islamici. La Costituzione del 1952 garantisce «la libera espressione di tutte le forme di culto e di religione, in conformità con i costumi osservati in Giordania» e sancisce l’uguaglianza di tutti i giordani davanti alla legge senza discriminazioni basate «su razza e religione».
I cristiani sono quindi bene integrati nella società giordana; quasi tutti appartengono alle classi media e alta e godono di migliori opportunità economiche, maggiore visibilità pubblica e rilevanza sociale e politica che in qualsiasi altro paese islamico: ai cristiani sono riservati 9 seggi su 110 in Parlamento, sono affidati prominenti posizioni ministeriali e militari, cariche diplomatiche e amministrative, nella corte reale e ai vertici di imprese e banche nazionali.
«La Giordania è un Paese sereno – afferma mons. Sayegh – nel quale la Chiesa è una cosa necessaria per far vivere insieme cristiani e musulmani. Pensiamo alle scuole: i musulmani desiderano che i loro figli frequentino le scuole cristiane, e di questo la comunità cristiana è orgogliosa. I rapporti sono buoni e da noi il fondamentalismo è un fatto molto limitato. E speriamo anche di migliorare».
Ci sono state tensioni nei decenni passati, quando i Fratelli musulmani, ottenuto il controllo del Ministero dell’Educazione, hanno cercato d’islamizzare la società attraverso la scuola, rispolverando cliché di propaganda islamica, con richiami alla jihad contro i miscredenti.
A troncare ogni rigurgito fondamentalista è intervenuto il re Abdullah, nel novembre 2004, con il famoso «Messaggio di Amman», in cui «chiarisce al mondo cosa è e cosa non è il vero islam», riaffermando, in quando discendente di Maometto, la sua funzione di interprete e garante della «retta comprensione» della fede islamica, presentata come «messaggio di fratellanza e umanità, che sostiene ciò che è buono e proibisce ciò che è sbagliato, accettando gli altri e onorando ogni essere umano».
Gli islamisti più zelanti continuano il loro mobbing spirituale in vari settori della società; al tempo stesso il dialogo tra i vari leader religiosi continua fecondo, diventando un modello per tutto il mondo islamico. Ne è un esempio il documento A Common Word, la lettera dei 138 saggi musulmani, promossa proprio dal principe giordano Ghazi bin Muhammad bin Talal.
Un’altra iniziativa che ha attirato l’attenzione dei mass media, apprezzata sia dai musulmani che dai cristiani è la moschea sorta a Madaba e dedicata a Gesù Cristo, la prima del mondo arabo.

Dialogo delle opere
Il contributo che i cristiani danno alla società civile giordana è incalcolabile, soprattutto praticando «il dialogo delle opere, che sono tante» afferma al signora Huda Muhasher, presidente della Caritas giordana. «La Caritas è nata inizialmente per rispondere ai gravi problemi causati dalla guerra dei sei giorni (1967); da lì in poi ha fatto fronte a tutte le più gravi emergenze nazionali, compresa, oggi, quella degli immigrati e soprattutto dei profughi iracheni».
Fin dai tempi biblici i territori oltre il Giordano sono stati una valvola di sfogo per i conflitti dei paesi vicini: oltre metà dei residenti giordani sono di origine palestinese, migrati qui dopo le guerre del 1948 e del 1967 con Israele. L’invasione americana dell’Iraq ha portato in questi anni oltre mezzo milione di profughi, molti dei quali cristiani, accolti in maggioranza nei quartieri più poveri e periferici della capitale, Amman, ma senza alcun accesso ai servizi sociali fondamentali, perché il governo non riconosce loro lo status di rifugiati. «Ad Amman viviamo ormai da anni in prima linea l’accoglienza ai cristiani fuggiti dall’Iraq» testimonia Huda Muhasher. La loro situazione è veramente tragica: senza lo status di rifugiati gli uomini non possono lavorare né è permesso loro espatriare in Occidente. Senza lavoro non possono mantenere i loro famigliari; alcuni lavorano in nero, con il rischio di essere scoperti, arrestati e rimandati in Iraq. Per molti di essi, che a casa esercitavano una professione o un lavoro di alto livello, come professori e ingegneri, l’inattività è distruttiva, e dover vivere di aiuti è difficile da accettare: per questo aumentano tra gli iracheni le malattie legate al cuore e alla depressione.
Dal 2002 la Caritas giordana promuove programmi per creare una rete di gruppi di volontari per essere presente capillarmente sul territorio e rispondere ai bisogni delle persone più povere e vulnerabili. A oggi, sono stati costituiti 25 gruppi, che operano in 31 parrocchie di differenti città e villaggi, per un totale di circa 250 volontari. La rete estende la sua attività di sensibilizzazione soprattutto nelle scuole, per formare gruppi di volontari tra gli studenti dei vari istituti cristiani.
«La Caritas giordana, tra le altre cose, ha progetti importanti per l’assistenza ai disabili, ai quali collaborano anche i musulmani; è l’unica organizzazione impegnata nelle carceri locali» afferma ancora la signora Huda Muhasher.
Altro simbolo della solidarietà cristiana è il Centro Regina Pacis, voluto dal patriarcato latino, sostenuto da tante Ong inteazionali, tra cui il Sermig di Torino: presente ad Amman e a Madaba, con comitati formati da cristiani e musulmani, il Centro si occupa degli handicappati e del loro reinserimento sociale; essi costituiscono circa il 10% della popolazione del paese a causa dell’elevato numero di matrimoni tra consanguinei dentro le tribù.
Un’altra emergenza della società giordana è quella dell’immigrazione. Circa 70 mila donne immigrate in Giordania lavorano nelle famiglie come badanti o domestiche; vengono soprattutto da Indonesia, Sri Lanka e Filippine e in buona parte sono cristiane. Metà di esse sono senza regolari documenti, anche perché spesso vengono loro sottratti dai datori di lavoro; molte sono maltrattate e senza diritti, come in molti paesi arabi.
Anche in questi casi i centri Caritas cercano di offrire assistenza medica, cibo, consulenze legali e spiegazioni sui loro diritti, di cui spesso non sono consapevoli.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi

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