Una vita dentro l’Arca
Anna, 68 anni, è italiana di nascita ma francese di adozione. Il suo racconto ci porta sui passi di una conversione personale verso la non violenza.
C’è un termine portoghese, cantinho, che descrive al meglio la sensazione che si ha entrando in casa di Anna. Il cosiddetto cantinho si utilizza per indicare un angolo familiare e accogliente nel quale rifugiarsi per trovare ristoro. Così è l’appartamento di Anna: piccolo, profumato di legno chiaro e con una vista impagabile sull’abbazia di St. Antornine. Il dialogo con Anna è un tempo di perfezione «assoluta». Si instaura quella semplice intimità che solo la verità può trasmettere. Anna è forte e la sua forza le regala un aspetto giovanile e dinamico. Con voce calda e modulata si racconta e racconta.
«Provengo dalla cultura degli anni ‘60, quando i giovani si sentivano desiderosi di scoprire culture diverse, vivere la spiritualità in maniera più autentica, conoscere l’India. Il grande sogno era potersi differenziare dai propri genitori e stravolgere il mondo».
Anna, cosa ti spinse a ricercare uno stile di vita diverso?
«Tre aspetti influenzarono le mie scelte: la cultura degli anni ‘60 e il sogno che rappresentava (nel 1968 mi trovavo a Parigi), la ricerca di una vita spirituale coerente e di un’esistenza “giusta”. Nel 1969, mio marito ed io, che al tempo abitavamo in Franca, conoscemmo Lanza del Vasto. Fu durante la conferenza che tenne, nella piccola cittadina della Bretagna dove ci trovavamo. Mi accorsi che dietro il dibattito filosofico c’era una proposta di vita reale. Lanza del Vasto aveva fondato una comunità di gente che aveva scelto di abbandonare una vita privilegiata e di battersi per la giustizia».
La decisione di entrare in comunità fu immediata?
«Non immediata ma risoluta. Con Lanza del Vasto scoprii Gandhi e la nonviolenza. Avevo il desiderio di vivere la nonviolenza ma non sapevo come metterla in pratica. Dopo aver iniziato un percorso di lettura sui libri di Lanza del Vasto, andammo nel 1974 per due settimane alla Borie Noble. Cinquecento ettari di terra e sassi: una vera comunità rurale senza elettricità, acqua calda e nessun tipo di tecnologia. Per noi fu la scoperta della bellezza assoluta. Lanza del Vasto diceva: “Qual è la forma della verità? È la bellezza”. Non vanità e ostentazione, bensì sobrietà e bellezza. La chiave per elevarsi e vivere pienamente la spiritualità. Dopo un altro mese di prova comunitaria, nel 1976 lasciai il lavoro di assistente sociale, mio marito diede le dimissioni e, insieme alle nostre due bambine, ci trasferimmo alla Borie Noble».
Come rispose la comunità alle vostre necessità di cambiamento?
«La vita all’Arca corrispondeva a ciò che desideravamo: una vita molto attiva per quanto riguardava l’azione nonviolenta e vissuta con estrema semplicità. Occorreva solo essere lì: “presenti al presente”. Anche la scuola era all’interno della comunità in un’ottica di coerenza tra l’ideologia comunitaria e i programmi didattici. La vita spirituale era molto aperta e non dogmatica, scandita nei tempi di silenzio, nella preghiera e nella meditazione. “Ciascuno approfondisca la propria tradizione religiosa e impari a conoscere le altre, riconoscendone i tesori”, erano le parole di Lanza del Vasto».
Dieci anni alla Borie Noble. E in Italia, cosa stava accadendo?
«I dieci anni alla Borie Noble sono stati gli anni più intensi della mia vita. Eravamo convinti che avremmo cambiato il mondo e questa forza si avvertiva a distanza. Molti giovani arrivavano alla Borie Noble e ne sposavano la filosofia. Nel frattempo, i libri di Lanza del Vasto iniziarono ad essere tradotti e conosciuti anche in Italia. Era il tempo delle conferenze che portò molti italiani a conoscere l’Arca. Iniziammo così ad organizzare campi estivi in Italia, a San Vito dei Normanni, città natale di Lanza del Vasto, con una partecipazione sempre più numerosa di italiani: oltre le 150 persone».
Nel 1981 muore Lanza del Vasto, cosa accadde nell’Arca?
«In Italia il movimento dell’Arca era fervido e così nel 1986 monsignor Luigi Bettazzi mise a nostra disposizione un casale a nord di Ivrea con 7 ettari di terra intorno. Fu un periodo di splendore e di approfondimento di ciò che avevamo appreso nei primi 10 anni. La divulgazione dell’azione nonviolenta, la semplificazione della vita prese forma anche in Italia e richiamò molti seguaci».
Dal 1993 vivi a St. Antornine, perché questa comunità?
«Nel 1993 la comunità in Italia morì e, in seguito a una mia profonda crisi personale ed esistenziale, scelsi di venire a vivere qui. St. Antornine era una grande e giovane comunità che aveva iniziato un lavoro di rivisitazione dei fondamenti dell’Arca: un’indagine su cosa fosse essenziale mantenere all’interno delle comunità e cosa si potesse invece eliminare. In questo senso St. Antornine intraprese un importante lavoro psicologico e spirituale, approfondendo le scienze umane su cui Lanza del Vasto non ci aveva lasciato strumenti adeguati».
Lanza del Vasto parla spesso di unità tra vita e parola. Nel tuo cammino è stato possibile tutto ciò?
«È stato possibile solo quando mi sono accorta che era indispensabile cercare l’unità in me stessa. Un grosso lavoro impregnato di psicologia e spiritualità. È stata la scoperta dell’assioma che si potrebbe formulare così: non puoi cambiare nulla intorno a te se prima non cambi te stesso. Viviamo tempi caotici dove tutto evolve ma se non si parte da noi non può avvenire nessuna trasformazione sociale. La vita quotidiana in comunità mi regala un’unità di vita e mi aiuta a chiedermi: sono in unità con me stessa? Ho capito dove sono violenta con il mio essere e mi sto dando degli strumenti per aiutarmi? È un lavoro interminabile ma fondamentale».
Nel tuo percorso di riconciliazione dove è intervenuta la spiritualità?
«Non sono cattolica ma cristiana e solo facendo questo profondo lavoro su me stessa ho riscoperto il Vangelo. I testi mi parlavano di ciò che mi stava accadendo. Ho appreso solo con il tempo che per essere in equilibrio occorre riconciliarsi con la propria storia, uscire dalla maledizione per entrare nella benedizione. Ho imparato a vivere la vita pensando che è una storia sacra, che ha un senso e che deve convergere verso lo stesso punto. Presenza e conciliazione, speranza e fiducia, accettazione del presente possono aiutarci a lodare ogni giorno la bellezza della vita».
E dentro l’Arca, che importanza ha la fede e come è vissuta?
«Per l’Arca è in tutto. Pulire per terra è spiritualità, lavorare nei campi, scrivere, mangiare… vivere con la coscienza di una vita spirituale.
Il richiamo alla vita spirituale è fermarsi. Noi abbiamo la campana che suona tutto il giorno e sappiamo che in taluni momenti dobbiamo “richiamarci a noi stessi”. Ma questo “prendersi il tempo” si può fare ovunque».
Per noi, estei alla comunità e in preda al caos, come può avvenire questo «tempo benedetto»?
«Riferendosi alla spiritualità, Shantidas diceva: “È l’inizio di una grande avventura”. Qualsiasi cosa si stia facendo, si interrompe un attimo, ci si mette in asse con se stessi e ci si riappropria del proprio essere. Si può cominciare con 15 minuti di meditazione silenziosa o con un testo sacro, lasciandosi parlare diritto al cuore, alla propria vita. Il tempo della preghiera serve a ricordarci il perché del nostro essere nel mondo. Qui e ora. Ha un senso la nostra vita? Da dove veniamo e dove stiamo andando?
Poi, c’è il tempo della gratitudine, della coscienza dell’amore di Dio, scoprendo chi è per noi Dio. Mettersi allo scoperto con tutte le nostre piccolezze e meschinità, certi del suo amore».
L’azione nonviolenta: come si traduce praticamente?
«Con progetti ad hoc contro gli Ogm, supportando l’immigrazione, accogliendo i rifugiati politici e lottando per l’antinucleare e per il disarmo nucleare della Francia. Abbiamo inoltre una équipe che si occupa di sensibilizzare i giovani alla nonviolenza nelle scuole. Siamo, da sempre, disponibili ad accogliere chiunque voglia sperimentare la vita comunitaria. È un’accoglienza gratuita che permette alle persone interessate di vivere il nostro stesso stile di vita».
L’Arca è strutturata in maniera gerarchica?
«Un responsabile di casa viene eletto ogni tre anni dal Capitolo, ovvero l’insieme delle persone che sono impegnate nella casa. Si diventa membri dopo uno stage di un anno a cui segue un postulato di due anni. Nessuno dei membri ha un lavoro esterno, ma ognuno ha un’occupazione all’interno della struttura. Dopo un mese di stage nella comunità, si può partecipare alle riunioni settimanali della casa».
Come sopravvive l’Arca economicamente e come sono gestite le finanze di voi membri?
«Attraverso l’affitto delle sale dedicate a conferenze, seminari e sessioni di formazione e con l’area attrezzata per l’accoglienza dei gruppi. Il ricavato confluisce in un’unica cassa che viene poi ripartita ai membri per le spese personali. In qualità di single percepisco un piccolo contributo mensile, non è certo un lusso ma permette una vita più distesa rispetto a quando non era contemplato».
Semplificare la vita o essere radicali. Cosa ti ha insegnato l’Arca?
«Mi ha insegnato che l’essere troppo radicali può essere deleterio. Le comunità sembravano inizialmente concepite solo per i giovani: senza luce, con i bagni spartani, isolate dal mondo. Le cose cambiano, la gioventù passa e anche le comunità si sono dovute adeguare, perché quello che conta maggiormente è l’attenzione verso la persona. Se a 30 anni non importa avere l’acqua calda e la doccia in casa, a 80 diventa un fattore non più trascurabile. Complice della semplicità deve essere sempre il rispetto e la conoscenza delle esigenze personali».
Possiamo dunque definire «decrescita» misurata lo stile di vita attuale?
«Non amo molto il termine decrescita. Quello che mi nasce dal cuore è invece un elogio della ricchezza: esser ricchi dentro per poter condividere. Oggi, ho piena coscienza che le macchine sono solo strumenti per poter lavorare meglio, il computer ci aiuta nelle relazioni, ci mette in contatto con il mondo. La vita è movimento e se si rimane indietro si rischia di rovinare il cammino intrapreso fino a quel momento. Le crisi comunitarie, come quelle personali, servono proprio a riflettere sui passi fatti e a “purificarci” dalle cose inutili».
Quali differenze tra chi vive nelle case e chi si impegna solo nel movimento?
«Fino al 2005 l’Arca era un ordine, non religioso, composto da persone che si impegnavano con i voti. Venivano soprannominati “compagni” quelli che vivevano insieme la stessa regola di vita nella casa comunitaria e “alleati” coloro che si impegnavano per il movimento dell’Arca al di fuori delle strutture comunitarie. Oggi, non esiste più differenza tra chi vive all’interno e chi all’esterno. Il rinnovamento è dato dal medesimo impegno sia per i compagni sia per gli alleati che sottoscrivono la Carta dell’Arca. Questa trasformazione è stata necessaria perché le case comunitarie iniziavano a chiudere e si sentiva la necessità di far vivere il movimento. Solo le comunità che si sono trasformate e hanno saputo adeguarsi ai tempi sono riuscite a sopravvivere».
Puoi regalarci una tua immagine sul futuro dell’Arca?
«Quest’anno ci sarà il Capitolo generale e potremo fare un vero bilancio di questi ultimi anni. Personalmente mi sembra che ci sia un buon fermento, che molti giovani si stiano impegnando nel movimento. Quello che ho potuto notare come responsabile per 10 anni della nonviolenza nell’Arca è che, aldilà dei limiti stessi della comunità che vanta solo 200 persone impegnate in Europa, l’Arca rimane una porta aperta su un mondo “altro” fatto di riconciliazione, conciliazione e unità».
Gabriella Mancini