Lanza del Vasto, combattente nonviolento

Premessa

«La resistenza nonviolenta si mostra più attiva della resistenza violenta. Chiede più audacia, più spirito di sacrificio, più disciplina, più speranza. Agisce sul piano delle realtà tangibili e sul piano della coscienza. Opera una trasformazione profonda in coloro che la praticano e talvolta una conversione sorprendente in quelli contro cui si esercita» (Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle Sorgenti).

In un mondo centrato sulla violenza, si può essere nonviolenti? Da questo filo di pensiero e interrogativo è nato il nostro dossier sulla comunità nonviolenta dell’Arche in Francia. Un reportage che si rende necessario nel contesto attuale dove la risoluzione dei conflitti passa attraverso l’essere violenti e l’uso della forza.
Dalla violenza con la «v» maiuscola, quella che fa notizia e il più delle volte pone in un cono di luce guerre espressamente mediatiche, a tutte quelle forme di prevaricazione di uguale importanza ma meno conosciute. La lista non si conta: dalle violenze sui popoli dimenticati, alle persecuzioni razziali, alle sordide ingiustizie sui bambini e sulle donne, alle violenze psicologiche, che spengono la voglia di vivere e via dicendo. La violenza è inquinante, si sparge a macchia d’olio nelle relazioni, tra le mura delle case dove viviamo, per strada, negli ambienti lavorativi e – soprattutto – si nutre delle nostre paure abitando la parte più oscura del nostro essere, pronta a uscire allo scoperto al momento opportuno.

Tra le tante pellicole cinematografiche impregnate di violenza ne esiste una rappresentativa di tutta la miseria dell’essere umano. Si tratta di Dogville di Lars Von Trier, un film tanto scao quanto efficace. Tutti gli attori si muovono sul set – racchiuso in un palcoscenico teatrale – esprimendo al massimo la loro mediocrità e la loro rabbia. In questo microcosmo cinematografico non c’è alcuna forma di redenzione. I personaggi si accaniscono sul «diverso» da loro (la giovane arrivata nella comunità di Dogville per sfuggire alla sua famiglia di gangster) e giungono ad umiliarlo in tutte le maniere possibili. Il dolore è tale che solo la vendetta consolerà non solo la protagonista ma anche lo spettatore. Ecco il punto: la risoluzione finale è solo la violenza, che in quanto soluzione allo stesso male viene automaticamente giustificata.
Purtroppo le dinamiche di questo film assomigliano molto alla realtà. E, allora, come trovare un’alternativa valida nei rapporti interpersonali, nella politica e nei meccanismi sociali? Forse, iniziando a camminare verso noi stessi e alla ricerca di un modo diverso di vivere.
In questa direzione va Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte, meglio conosciuto come Lanza del Vasto, nato nel 1901 a San Vito dei Normanni in Puglia. Personaggio atemporale e multifocale, Lanza del Vasto compie, nel 1937, il suo primo pellegrinaggio nel subcontinente indiano alla ricerca di un’esistenza più vera, pura e spiritualmente «alta». Qui, la meta che lo porterà definitivamente a dedicarsi alla pace per il resto della vita è proprio l’ashram del Mahatma Gandhi, dove vive per tre mesi e riceve dallo stesso Gandhi l’appellativo «Shantidas», servitore della pace.

Nel libro Pellegrinaggio alle sorgenti (edito nel 1943) risiede il fulcro e il cuore del suo viaggio e dell’incontro con Gandhi. Nulla è meglio delle sue stesse parole per descrivere il Mahatma: «Un piccolo vegliardo seminudo sta seduto per terra davanti alla soglia, sotto il tetto di paglia spiovente: è lui. Mi fa segno – sì, proprio a me -, mi fa sedere accanto a sé, mi sorride. Parla – e non parla che di me – chiedendomi chi sia io, che cosa faccia, che cosa voglia. Ed io subito mi avvedo che non sono niente, che non ho mai fatto niente, che non ho desideri se non quello di restarmene così, all’ombra di lui. Eccolo davanti ai miei occhi, colui che solo nel deserto di questo secolo ha mostrato un’oasi di verde, offerto una sorgente agli assetati di giustizia».

Al ritorno in Europa, Lanza del Vasto decide di diffondere il messaggio gandhiano: servire la nonviolenza e viverla fino in fondo. La sua ispirazione cristiana aperta all’influsso della spiritualità orientale è l’humus da cui parte per fondare in Francia nel 1948 – insieme alla sua sposa Chanterelle e a un piccolo gruppo di seguaci – la prima Comunità dell’Arca. Una casa aperta a tutte le religioni, una scuola di vita interiore e di preparazione all’azione nonviolenta, di stampo rurale, ispirata ai principi della sobrietà, della condivisione, dell’unione tra lavoro e spiritualità. Scrittore, poeta, musicista e sculture, Lanza del Vasto è per molti un «combattente» nonviolento: praticare la nonviolenza partendo dalla ristrutturazione dei rapporti umani senza rinunciare a far valere le proprie ragioni è stata la sua missione. In quest’ottica si è opposto con il dialogo e il digiuno alla fabbricazione della bomba atomica e alle torture perpetrate dall’esercito francese in Algeria, ha sostenuto i contadini del Larzac perché conservassero le proprie terre e ha digiunato durante il Concilio Vaticano II per chiedere un impegno esplicito della Chiesa in favore della pace. Coerenza tra pensiero e azione, cammino di conoscenza e di presenza a se stessi e al reale, semplicità e profondità. Questi alcuni degli insegnamenti che il nomade e il costruttore ci hanno lasciato in eredità. Dell’uomo che un giorno scrisse in musica: «Ho la mia casa nel vento senza memoria», siamo andati a conoscee gli eredi per capire se, nel 2012, la parola e l’azione di Lanza del Vasto sono ancora vive.

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini