La religione del potere

Le minoranze cristiane e l’Islam

Nel 2011, le violenze contro le minoranze non islamiche sono state frequenti. Si sono contate numerose vittime e molti cristiani sono fuggiti all’estero. Parlare di intolleranza religiosa è facile, ma non sempre corretto. Spesso dietro le violenze ci sono i giochi del potere. Ieri Mubarak, oggi i militari hanno tutto l’interesse a distrarre gli egiziani dai problemi della quotidianità. Nel frattempo, in attesa delle elezioni presidenziali, la «rivoluzione» langue.

Il Cairo. Le recenti tornate elettorali, in tutti i paesi del nord-Africa, hanno portato al potere i partiti di matrice islamica. Marocco, Tunisia ed Egitto si sono scoperti conservatori più di quanto ogni analista avesse anticipato. La Camera bassa del Parlamento egiziano è composta per il 40% dai rappresentanti del partito Libertà e Giustizia (costola politica del movimento dei «Fratelli Musulmani») e per il 28% dagli eletti nelle file del partito salafita di Al Nour. La svolta islamica del paese, dopo la caduta di Mubarak, ha messo in fuga decine di migliaia di cristiani.
In Egitto vivono 83 milioni di persone di cui circa un decimo sono di fede cristiana. Questi dati sono però approssimativi. Infatti, nell’ultimo censimento, di inizio anni Ottanta, il dato sulla confessione religiosa non è considerato attendibile. La maggioranza dei cristiani appartengono alla Chiesa di Alessandria d’Egitto, e vengono chiamati copti, al-Qubat in arabo. Questa denominazione viene dal greco aiguptioi e definiva i discendenti cristiani degli antichi egizi, che nel VII secolo non si convertirono all’islam, dopo la conquista del paese da parte degli arabo-musulmani. Dopo secoli di discriminazioni, la situazione dei copti inizia a migliorare a cavallo tra ’800 e ‘900. Le prime violenze interconfessionali del dopo-Mubarak si registrano il primo gennaio 2011: ad Alessandria un attentato suicida uccide 21 persone e ne ferisce altre 79 alla messa di fine anno. Nei mesi successivi si registrano altre violenze: l’8 marzo in un quartiere periferico della capitale ci sono 13 morti: 7 cristiani e 6 musulmani. Sono invece 12 i morti l’8 maggio, a causa degli attacchi nei confronti di due chiese nei sobborghi del Cairo, ma l’episodio più cruento avviene a inizio autunno. Centinaia i feriti e 36 morti è stato il bilancio degli scontri avvenuti il 9 ottobre al Cairo nelle vicinanze di Maspero, nome della torre della radio-televisione pubblica egiziana situata sul lungo Nilo del Cairo. I giornali di tutto il mondo hanno raccontato questi scontri come l’apice della violenza interconfessionale, divampata in Egitto dopo la caduta di Mubarak. Quando l’11 febbraio 2011 viene dato l’annuncio che Mubarak lascia il potere, lo Stato rischia di sbandare e l’esercito, che da sempre è considerato dagli egiziani come il garante della stabilità, prende il controllo del paese. La legge d’emergenza, che dà al Presidente (carica ricoperta ad interim dal generale Tantawi) poteri speciali, resta in vigore. Il presidente, sino alle elezioni che si terranno entro giugno 2012, rimane formalmente Hosni Mubarak, ma tutte la sue funzioni sono espletate da Tantawi, che siede a capo del «Consiglio superiore delle Forze armate» (Scaf). Con il passare dei mesi, i rivoluzionari di piazza Tahrir prendono le distanze dall’operato dei militari e ricominciano le proteste. Prima al riparo delle differenti confessioni religiose e poi sempre più dichiaratamente contro lo Scaf. Il punto più violento è la settimana prima delle elezioni, a novembre 2011, quando negli scontri muoiono più di 80 persone. In queste manifestazioni partecipano persone di ogni estrazione: giovani laici come uomini con le barbe lunghe, emblema dei salafiti. Tra questi anche un anziano sacerdote ortodosso che racconta: «La giunta militare ha deciso di ucciderci. Ha cominciato sin dall’11 febbraio. Ha ucciso i copti a Maspero. Ha ucciso egiziani, cristiani e musulmani in piazza Tahrir».
Abeer Saady è la vice-direttrice del sindacato dei giornalisti egiziani, unica donna eletta tra la dirigenza dell’istituzione. Saady ha vissuto la rivoluzione e gli scontri dell’ultimo anno sempre in prima linea: «Quello che è successo a Maspero è tutt’altro che uno scontro religioso. In quella marcia c’erano copti e musulmani, assieme pacificamente. Marciavano per raggiungere la torre delle telecomunicazioni, quando sono stati attaccati dai militari. Queste violenze sono state documentate da un famoso blogger Alaa Abdel Fattah, che era presente alla manifestazione, e che ha usato tutti i social media per documentare quanto accadeva». Alaa, dopo i fatti di quella notte, è stato arrestato dai militari ed è rimasto nelle carceri egiziane per diversi mesi. «La controrivoluzione e l’esercito – continua la Saady – cercano di distruggere la credibilità di blogger e giornalisti. Si usa e si abusa della religione in questi casi». Sono in molti gli egiziani a pensarla come la sindacalista: Ibrahim ciondola per piazza Tahrir, si avvicina e ascolta interessato i discorsi che vedono in contrapposizione cristiani e musulmani: «Io sono musulmano, prego tutti i giorni, ma ho sempre frequentato le scuole cattoliche. Nel mio palazzo non vive nessun cristiano, ma in quello davanti a me ce ne sono diversi. In Egitto e soprattutto qui al Cairo, viviamo assieme. Certo puoi riconoscere i cristiani: hanno feste e abitudini diverse dalle nostre, ma non tanto da essere meno egiziani di me!». Mentre fa l’elenco di tutte le attitudini comuni tra cristiani e musulmani, assicura che non esiste discriminazione per le minoranze: «Se si fanno delle differenze vengono dalle persone corrotte che ci governano. La notte degli scontri a Maspero, mentre la gente iniziava a morire per strada la televisione pubblica, controllata dall’esercito, incitava all’odio inter-religioso. Il telegiornale raccontava che un gruppo di copti aveva attaccato l’esercito».

SUOR MARINA
Il quartiere di Eliopoli si trova alla periferia del Cairo, ci vuole più di un’ora di tram per arrivarci dal centro. La zona è residenziale, molto pulita e curata. Qui vive una numerosa comunità cristiana, vi risiedono sia cattolici che ortodossi. Suor Marina vive da cinque anni nel convento che si trova vicino a una delle chiese del quartiere, quella di Santa Fatima. È originaria di Assuan, città del sud dell’Egitto. Il suo velo è bianco e dalle maniche del vestito blu fa capolino il tatuaggio di una croce sul polso sinistro. Questo particolare sembra ricordare i punti di contatto che il cristianesimo ha con la tradizione locale, per la quale le mani delle donne accolgono disegni fatti con l’henné. «In questo convento – racconta suor Marina- ci sono sette suore, due maestre (suore anch’esse, ma con il ruolo di seguire le nuove vocazioni nel cammino verso i voti), io sono una di queste, e cinque postulanti. Anche qui, come in Europa, viviamo un periodo di crisi delle vocazioni, ma le postulanti sono il segno che non lasceremo l’Egitto. Siamo egiziane anche noi». Mentre racconta del convento e dei suoi studi a Roma, traspare la sua tranquillità e anche quando, incalzata dalle domande sul rapporto con i musulmani, ricorda i giorni degli scontri più violenti non c’è in lei alcuna rabbia: «In quei momenti ci siamo chiuse in convento. Avevamo un coprifuoco e solo due di noi andavano a fare la spesa, il rapporto con l’esterno era principalmente il sacerdote che veniva ogni giorno a dire messa. Molti cristiani – continua Suor Marina- hanno lasciato il paese, i giornali parlavano di un vero e proprio esodo. Tanti sono andati in America o hanno raggiunto dei parenti in Europa, molti sono andati proprio in Italia». Suor Marina non perde il suo tono sereno nemmeno parlando degli scontri e delle decine di morti che ne sono conseguiti, anche se ammette: «Abbiamo avuto paura. Con le altre sorelle non sapevamo se ci avrebbero mandato via e tutt’ora non sappiamo quali sono le intenzioni del nuovo governo. Proprio per questo le comunità cristiane, senza fare differenza tra i riti, sono più unite che mai». Uno dei fattori più imprevedibili, in questi mesi di transizione, è proprio il governo. Infatti questo non è composto dagli eletti nelle consultazioni elettorali di novembre, ma da membri della Giunta militare. Suor Marina riprende: «Con i Fratelli Musulmani alla guida del paese la situazione potrebbe migliorare, basti pensare che hanno fatto eleggere nelle loro liste diversi cristiani. Questi parlamentari non avrebbero mai avuto la forza per farsi eleggere autonomamente, ma essendo stati inseriti nelle liste di Libertà e Giustizia adesso possono rappresentarci in Parlamento». Suor Marina versa il thé e prepara un vassoio con i dolci «tipici egiziani» sottolinea. «Viviamo accanto ai musulmani. Per noi non sono stranieri, ne noi lo siamo per loro. Certo ci sono dei punti di attrito, ma nei giorni delle rivolte contro Mubarak, a difendere le strade di questo quartiere c’erano, uno accanto all’altro, giovani islamici e cristiani». L’unico nervo scoperto lo si tocca parlando dell’evangelizzazione: «In effetti per chi si converte la vita è tutt’altro che semplice. Se un musulmano diventa cristiano accetta di non vivere più la normalità, ed è costretto a lasciare l’Egitto; molti di essi vanno negli Stati Uniti. Allo stesso tempo, un copto che si converte all’islam non è detto che venga accettato senza problemi. Queste sono situazioni che una buona democrazia potrebbe risolvere ed è per questo che vorremmo un governo laico. Non vedo perché la religione debba influenzare le decisioni politiche, rischiando così di incitare comportamenti discriminatori». Facendole notare che il partito salafita aspira a introdurre la Shaaria, la legge islamica, risponde: «È giusto difendere la democrazia. Quindi, nessuno deve avere l’obbligo di portare il velo». E conclude con una battuta: «Anche se per me non cambierebbe molto. Dato che lo indosso ogni mattina…».

DISEGUAGLIANZE
La contrapposizione e le discriminazioni all’interno della società egiziana sono però visibili e ce ne parla Said Shehata, egiziano e da diversi anni professore alla London Metropolitan, autorevole università inglese: «La questione dei cristiani ha radici profonde. Non si applica lo stesso diritto per la costruzione di chiese e moschee: quest’ultime si possono costruire molto più facilmente. Nelle tensioni tra cristiani e musulmani – continua il professor Shehata- il vecchio regime ha avuto un ruolo importante: la questione religiosa è stata utilizzata per dividere le persone. Questo è avvenuto per far sì che il popolo non si focalizzasse sul regime, ma fosse interessato e preoccupato per altre questioni. Detto questo, è evidente che non c’è uguaglianza tra cristiani e musulmani: solo uno dei 26 governatori egiziani non è un fedele dell’islam, solo pochi ambasciatori sono cristiani e anche le posizioni di governo non sono equamente distribuite. Questi fattori ci portano a dire che c’è una discriminazione anche a livello politico nei confronti dei cristiani». Secondo lo studioso il problema «non è stato creato dai musulmani, ma dal regime e la società ora se lo porta dietro. La tensione c’è ancora e l’unica possibilità di risolverla è partire dall’idea che cristiani e musulmani sono cittadini con eguali diritti». La speranza per la costruzione di un nuovo Egitto post-rivoluzione passa anche dalla soluzione dei conflitti interreligiosi. «Entrambe le comunità – conclude il professore – devono essere coinvolte nella stessa misura. Bisogna incentivare le leggi che cancellino ogni tipo di discriminazione e in particolar modo bisogna usare i media e l’educazione perché parlino dei valori comuni invece che di presunte differenze».

Cosimo Caridi

Cosimo Caridi

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