Camminare con la gente
Dalle lettere di padre Beppe Svanera da Marialabaja
Padre Beppe continua a scrivere regolarmente ai suoi amici condividendo un cammino non facile,
ma anche ricco di momenti di grazia.
In queste pagine, squarci di storia alla scoperta delle radici del popolo afro di Marialabaja, e squarci di interiorità di missionari attenti alla realtà e fedeli al Vangelo.
Ordinazione sacerdotale
Finalmente una buona notizia: sabato 19 febbraio 2011 è stato ordinato il primo sacerdote missionario della Consolata, p. Edilberto Maza nato a Marialabaja nel 1977. Ha perso i genitori da bambino ed è cresciuto con la nonna e la zia in una famiglia numerosa di zii, cugini e nipoti. Con lui è stato ordinato diacono il giovane etiope Nebiyu Elias Gabriel che dopo gli studi teologici a Bogotá ha passato un anno con noi dedicando il suo tempo soprattutto ai giovani che, entusiasti, lo hanno accompagnato in questo importante momento. Dopo l’ordinazione partiranno, come tutti i missionari: p. Heriberto per il Mozambico e il diacono Nebiyu verso il Venezuela. Noi li accompagniamo con la preghiera.
La solenne celebrazione ha riempito la chiesa e la piazza. Tanta gente in festa con il nostro Vescovo e un nutrito gruppo di sacerdoti che hanno accompagnato i due giovani missionari al ritmo dei tamburi con canti e balli afro e africani alternati a momenti di intenso raccoglimento e sincera devozione. Da sottolineare la presenza di rappresentanti di quattordici nazioni diverse uniti nella stessa fede e lode a Dio. Bello, definitivamente bello, questo momento che riconcilia con la vita e rinforza i grandi ideali che animano la missione e ci aiuta poi a tornare con nuova energia per affrontare la non facile realtà di tutti i giorni.
MOLTE PROMESSE
Momenti come questi ci permettono in qualche modo di superare anche l’ultima delusione dei nostri governanti. A fine gennaio 2011 abbiamo avuto la visita del vicepresidente della Colombia accompagnato dal ministro dell’Agricoltura e da una serie di personaggi che dovrebbero difendere il benessere dei loro elettori ma che, puntualmente, fanno gli interessi di chi li condiziona con i capitali. La visita è stata il frutto di una lunga e faticosa campagna da parte della Comunità di sfollati di Mampujan. Mampujan è uno dei nostri trentacinque villaggi. La famiglia di p. Heriberto è originaria di là. Come ogni comunità, viveva lavorando i campi in santa pace e senza problemi fino a quando un giorno si presentò la guerriglia e cominciarono le intimidazioni e i sequestri. Una sera del 2000 arrivarono invece i paramilitari che radunarono tutti nella piazza. La gente, spaventata, pregava disperatamente. Non furono uccisi, come era invece successo in altre comunità, ma ricevettero l’ordine di lasciare il paese entro le dieci del giorno dopo. Così Mampujan cessò di esistere: 245 famiglie partirono per Marialabaja portando quello che potevano verso un destino ignoto e crudele. I paramilitari continuarono il loro cammino e in quei giorni trucidarono tredici contadini di Las Brisas, un villaggio vicino. Oggi Mampujan è solo desolazione: le case sono ruderi soffocati dalla selva. Nacque nel frattempo un nuovo Mampujan chiamato «Rosas de Mampujan» su un terreno acquistato dopo l’esodo dal p. Salvatore Mura con l’aiuto di amici italiani, all’ingresso di Marialabaja.
Dopo dieci anni alcuni pensano di ritornare al paesello natio, ma la cosa non è per niente facile. Con quali prospettive? Le persone anziane vanno ogni giorno alla loro terra, distante due o tre ore, per coltivare qualcosa e sopravvivere, e tornano la sera a piedi o con l’asinello perché ancora non si sentono sicuri. I giovani non dimostrano alcun interesse. Si sono abituati al paese, alla strada, alla moto e alla televisione. Lavorare la terra non è il loro ideale di vita. Inoltre il governo non ha ancora mostrato alcun interesse concreto, al di là delle solite dichiarazioni, per assicurare servizi come strade, elettricità, scuola e, soprattutto, i prestiti necessari per tornare a lavorare la terra.
Finalmente però Mampujan sembra interessare il governo che ha scelto questa comunità con altre otto per un piano pilota di possibile ritorno. Da qui la visita del vicepresidente e del suo seguito. L’incontro si è svolto nel cortile della nostra piccola fattoria della Consolata con più di trecento persone, sotto lo stretto controllo di almeno un centinaio di poliziotti e soldati. Speravamo veramente in qualcosa di più, con tutta quella messinscena. E invece ancora una volta la montagna ha partorito il topolino: ancora promesse e tante, troppe parole hanno assopito l’assemblea dei presenti che hanno reagito vigorosamente solo quando il governatore della regione vicina (non il nostro, e neppure il nostro sindaco!) ha toccato il tema della coltivazione della palma che sta minacciando seriamente la sicurezza alimentare della popolazione. Finalmente sono scrosciati gli applausi dei contadini e di tutta la nostra gente per sottolineare come questo sia il vero problema del nostro territorio. Servirà a qualcosa? Noi lo speriamo e continueremo a lottare in questa direzione con tutti i mezzi legali ma soprattutto con la certezza che il Dio di Gesù Cristo che si è manifestato a suo tempo a Mosè ascolterà ancora una volta il «grido del suo popolo».
Pasqua 2011:
sofferenza dalle radici lontane
Nuovamente Pasqua! Vita nuova in Cristo risuscitato e sempre vivo in mezzo ai suoi, perché tutto e tutti abbiano vita, e vita in abbondanza. A Marialabaja chi ha preso coscienza del valore della Pasqua la celebra con gioia. La grande maggioranza, per ragioni storiche, culturali e ambientali, trasforma la settimana santa in una grande baldoria tutta da studiare. Uno dei momenti che suscita maggiore interesse e partecipazione popolare è sicuramente la «Via Crucis» del Venerdì Santo, probabilmente per il predominare del sentimento o anche per l’identificazione della nostra gente con le sofferenze di Cristo.
Sui Monti di Maria, e quindi anche a Marialabaja, la violenza è un fenomeno complesso non ancora studiato a fondo e senzaprospettive di vera pace. Che è successo nei Monti di Maria? Ci sono state una cinquantina di stragi, quasi quattromila assassinii politici, circa duecentomila profughi, campagne abbandonate e tuguri nelle città. Non in una foresta disabitata, ma in territorio con paesi sviluppati, autorità civili, militari e religiose, strutture di governo e organizzazioni popolari a due ore dalla città di Cartagena, capitale del turismo colombiano.
La versione ufficiale parla di paramilitarismo alimentato dal 1997 da un’alleanza di allevatori e politici per «difendersi» dai guerriglieri di sinistra. Le radici sono comunque molto più lontane e affondano nel secolare problema della terra che qui, come altrove in Colombia, è tradizionalmente in mano a poche famiglie.
Negli anni ‘70 ci fu un tentativo di riforma agraria da parte del governo, ma i padroni cacciarono i contadini affittuari, che, in reazione, si organizzarono con l’appoggio ufficiale e occuparono, al grido di «la terra è di chi la lavora», le oltre quattrocento fattorie dove sempre avevano vissuto. Negli anni ‘80 giunsero nella regione diversi personaggi con misteriose fortune legate soprattutto al narcotraffico. Comprarono grandi aziende e protessero con uomini armati il commercio della droga via mare. In quegli anni molti i contadini furono eliminati, mentre scomparvero molti dirigenti sociali identificati come elementi sovversivi. Salvo casi isolati, le autorità militari lasciarono correre.
Contemporaneamente crescevano i gruppi guerriglieri, già diffusi nel resto della Colombia, approfittando della frustrazione del movimento contadino. Non rispettarono l’organizzazione contadina Anuc, perché aveva trattato con il governo, e imposero il loro metodo violento a base di sequestri e taglieggiamenti, creando un grande malessere soprattutto tra i piccoli allevatori di bestiame. I contadini si trovarono stretti tra due fuochi. Anche i guerriglieri si assicurarono un corridoio strategico per il traffico della droga verso il mare e aumentarono vertiginosamente gli assalti, i sequestri e gli assassinii. Paramilitari e guerriglieri si organizzarono sempre meglio con rinforzi continui di personale e mezzi; ma la guerra, fin dall’inizio, fu soprattutto contro i civili accusati di appoggiare uno dei due contendenti. Intanto esercito e polizia combattevano, senza grandi risultati, i guerriglieri e chiudevano un occhio, anche due, sui paramilitari.
La debolezza del governo diede via libera alle «Cooperative Convivir» che in pratica erano gruppi paramilitari che avevano le armi e la protezione dello stato oltre all’appoggio dei grossi allevatori e narcotrafficanti. L’espansione paramilitare non riuscì comunque a eliminare i guerriglieri che continuarono imperterriti le loro attività anche quando nel 2003 cominciò in Colombia il processo di smobilitazione dei paramilitari. Lo stato, finalmente, cominciò una doppia azione che si dimostrò vincente: da una parte trattò la smobilitazione dei paramilitari e dall’altra l’esercito realizzò una serie di azioni efficaci che finalmente eliminarono i diversi gruppi guerriglieri almeno nei Monti di Maria.
Partecipai alla smobilitazione dei paramilitari dei Monti di Maria il 14 luglio 2005 quando tutto sembrava ormai finito. Fu una giornata di festa per la gente. Ma i problemi di fondo rimangono irrisolti. Così scriveva un giornale locale: «Le ragioni di fondo di questo orribile conflitto sono ancora irrisolte: una terra mal distribuita; una presenza debole delle istituzioni governative incapaci di mettere ordine nei titoli di proprietà della terra che oggi, dopo le successive spoliazioni e usurpazioni, continuano ad essere un rompicapo; gli affari dei narcotrafficanti, che si regolano con il piombo e continuano a prosperare nel Golfo di Morrosquillo; la corruzione dei dirigenti politici ossessionati dalla brama di mantenere i loro privilegi e le loro fonti di ricchezza; la miopia di membri della forza pubblica o politici, fuori dalla storia, che vedono pericolosi comunisti nei leader più attivi e continuano a uccidere semplici contadini cavandosela sempre. Solo se cambieranno questi fattori che alimentano il conflitto, gli abitanti dei Monti di Maria eviteranno che la loro triste storia si ripeta».
Non c’è due senza tre, 4.10.2011
Non c’é il due senza il tre, ed è con grande gioia che abbiamo vissuto l’ordinazione del terzo sacerdote e secondo missionario della Consolata di Marialabaja. Dopo il carmelitano p. Fredy e il p. Edilberto Maza, in Mozambico da pochi mesi, il 30 luglio è stato ordinato p. Beardo Matorell Batista che è poi partito per il Tanzania come sacerdote missionario.
Naturalmente l’allegria è stata grande in questo paese afro che ha donato tre dei suoi figli migliori al servizio del Vangelo per una nuova umanità secondo il cuore di Dio. Beardo è figlio di Miguelina e Erasmo due professori esemplari e molto stimati nell’ambiente educativo e sociale di Marialabaja e da sempre impegnati nella parrocchia. Festa grande e significativa soprattutto perché ha confermato ancora una volta i valori della nostra gente nonostante i secoli di schiavitù e la poca considerazione che godono ancora ai nostri giorni. Per noi missionari una bella soddisfazione e un invito speciale perché ci sentiamo stimolati a fidarci sempre di più delle persone che ci circondano e che devono diventare protagoniste del proprio futuro.
Contemporaneamente a questa ordinazione sacerdotale si è costituito nel Centro Afro Allamano un gruppo di giovani impegnati in un progetto educativo con la nostra gente. Sono universitari che da tempo svolgono attività comunitarie e che hanno deciso di «mettersi in proprio» assumendosi la responsabilità nell’educazione del proprio popolo. Inizialmente appoggiati dalla parrocchia, si radunano tutti i lunedì per elaborare materiali di formazione, a partire dalla cultura e tradizione afro, che loro stessi distribuiscono nelle diverse comunità alle persone impegnate o comunque desiderose di lavorare con bambini, ragazzi, giovani e adulti. Questo sta generando un grande interesse soprattutto nelle «mamme comunitarie» che attendono ogni giorno a gruppi di bambini dai tre ai sei anni, nelle maestre delle scuole elementari e nei professori di religione delle medie e superiori.
è interessante notare che il punto di partenza è sempre la Parola di Dio avvicinata secondo l’età delle persone e la sensibilità afro che è profondamente religiosa. Penso che questa sia la chiave del possibile successo della proposta educativa del nostro gruppo di giovani contrariamente alle diverse iniziative che vengono «da fuori» e che per mille ragioni non tengono conto della mentalità religiosa della nostra gente. è un avvicinamento alla Bibbia alternativo rispetto ai diversi gruppi religiosi che pullulano nel territorio e che spesso strumentalizzano la Parola di Dio per allontanare dai problemi reali o per incutere paura minacciando castighi e a volte generando fanatismo.
Riusciranno i nostri giovani eroi a realizzare un Marialabaja diverso? Intanto ci provano! E noi formuliamo i migliori auguri con piena fiducia nella Parola di Dio che con la forza dello Spirito permetterà loro di superare qualsiasi ostacolo.
Natale 2011: cristianizzazione e schiavitù
Il 2011 è stato un anno di grazia per noi e per il nostro popolo con l’ordinazione di due sacerdoti missionari della Consolata. Possiamo dire: «Missione compiuta!»?
In un recente incontro comunitario ci siamo guardati in faccia tutti piuttosto perplessi. Il parroco colombiano P. Gabriel, il brasiliano P. Sergio, il giovane seminarista Alex del Kenya e l’italiano (che sono io), ci siamo visti un po’ persi e abbiamo dovuto riconoscere che siamo ancora ben lontani dal capire cultura, mentalità e linguaggio del nostro popolo, soprattutto per quanto riguarda le sue espressioni religiose. Dio è dappertutto, ma Gesù Cristo è il grande sconosciuto! Eppure la presenza di missionari nel territorio data quasi dall’inizio della conquista dell’America quando fu fondata nel 1535 «Villa Maria» l’attuale Marialabaja. Che è successo in tutti questi anni e particolarmente nei quasi 25 anni della nostra presenza come missionari della Consolata?
Vale la pena ripercorrere le circostanze e le caratteristiche dell’evangelizzazione dei primi tempi della conquista nel territorio di Cartagena de Indias, «porto e porta» degli schiavi che popolarono gran parte della Colombia. L’evangelizzazione, o meglio il proceso di cristianizzazione della popolazione afro fu lungo, contradditorio e doloroso per la semplice ragione che cristianesimo e schiavitù sono andati a braccetto per secoli lasciando conseguenze profonde che durano ancora.
La Chiesa del secolo sedicesimo accettava la schiavitù che già esisteva anteriormente, considerandola normale e addirittura necessaria per offrire a questi «poveretti» la possibilità di entrare nel Regno di Dio. Il cristianesimo incise quindi enormemente sulla creazione di un sincretismo religioso nato dall’incontro delle diverse culture originarie dell’Africa con le tradizioni spagnole imposte con autorità ma non sempre con profondità e libertà. L’influsso religioso cristiano fu inesistente nei palenques (dove si rifugiavano gli schiavi che fuggivano), minimo nelle miniere, limitato nelle aziende agricole spagnole, e più consistente nella città di Cartagena dove i Gesuiti, soprattutto con p. Sandoval e p Claver (S. Pedro Claver), accoglievano nel porto e seguivano nella città con diverse iniziative pastorali gli schiavi che arrivavano dall’Africa.
Nonostante i limiti dell’evangelizzazione, le comunità afro con grande sapienza riscoprirono nel cristianesimo espressioni religiose che furono un’arma di sopravvivenza culturale e permisero di conservare e ricreare elementi mitici delle religioni africane. Questo perdura anche oggi e si manifesta soprattutto nelle feste patronali delle diverse comunità. E non saremo noi, poveri «untorelli», a cambiare questa realtà. Piuttosto siamo chiamati a capire e valorizzare questa cultura e tradizione e aiutare nella formazione di persone che siano sempre più coscienti dei propri valori alla luce del Vangelo di Gesù tanto distorto storicamente come rivoluzionario e dinamico oggi e sempre.
L’accettazione da parte del «negro-schiavo» del messaggio cristiano era difficile da giudicare. La sincerità poteva essere messa in dubbio dalla convenienza, ma sicuramente il senso di protezione che nasce dal battesimo e dall’idea dell’uguaglianza davanti a Dio aiutò lo schiavo ad accettare la sua condizione e a non perdere la speranza nonostante nella maggior parte dei casi fosse trattato come una bestia.
D’altra parte abbondarono i decreti e le ordinanze dei Re di Spagna che ricordavano ai proprietari di schiavi l’obbligo di provvedere alla loro catechizzazione perché si riteneva, con ragione, che la religione organizzata potesse essere un mezzo utile per il controllo sociale. Ma, come succedeva normalmente questi ordini reali, restarono lettera morta. Come restano lettera morta tanti documenti e disposizioni della Chiesa attuale e della Conferenza episcopale. E anche quelli di noi missionari, che con tutta la buona volontà continuiamo l’opera di evangelizzazione di questo popolo senza conoscee bene la storia, il linguaggio simbolico e la realtà più profonda. Ce ne rendiamo conto a ogni piè sospinto e allora tentiamo almeno di voler bene alla nostra gente e di camminare insieme con umiltà e coraggio verso la Luce che è apparsa nella notte di Betlemme per l’intera umanità.
Pasqua 2012: Villa Maria
Parecchi sono stati incuriositi dal nome di «Villa Maria» citato nella mia lettera precedente. è stato il primo nome di Marialabaja, fondata, secondo la tradizione, da Alonso de Heredia fratello di Pedro de Heredia, fondatore di Cartagena de Indias nel 1535. Mancano molti tasselli per ricostruire la storia di questo paese e del suo territorio, ma il titolo stesso di «Villa» indica che esisteva una popolazione residente che, tra l’altro, pagava tasse e contributi al Re di Spagna. Negli atti del processo di beatificazione di San Pietro Claver (1580-1654) appare ancora citata come Villa Maria e diverse volte si afferma che dopo Pasqua il nostro santo, «schiavo degli schiavi», visitava «Villa Maria popolazione di negri».
Poi tutto è scomparso, anche il nome. I continui attacchi dei nativi alle aziende spagnole, l’insicurezza, l’ambiente selvaggio della regione e le condizioni climatiche avverse, distrussero le case di fango e paglia e cancellarono ogni traccia di presenza umana. Nell’ambiente ostile e isolato rimase la gente con tanta voglia di vivere, e si moltiplicò. Dall’anelito di libertà della maggioranza nera della popolazione e dall’incontro-scontro con gli ultimi indigeni sopravvissuti alla conquista e i pochi coloni, si sviluppò un popolo e si originò una nuova cultura.
Più tardi «Villa Maria» fu rifondata e diventò «Maria la Baja» per distinguerla da «Maria la Alta», attualmente «El Carmen de Bolivar» dall’altra parte dei «Monti di Maria». Nel 1918 vi si stabilì il primo sacerdote (il salvatoriano tedesco P. Alexander Treittinger) e nel 1935 Marialabaja divenne Municipio affermandosi sempre più come la «dispensa alimentare» della regione per la sua terra fertilissima e un vasto e complesso sistema d’irrigazione realizzato dal governo negli anni ‘70.
Con la violenza degli anni 1995-2005 e le coltivazioni di palma iniziate nel 1998 il territorio, la cultura, l’economia, la società hanno subito un profondo cambiamento e non mancano le preoccupazioni per il futuro. Come missionari cerchiamo di stare molto attenti all’evolversi della situazione e camminiamo con il nostro popolo, animando la comunità «dentro e fuori del tempio», cercando nuove vie e possibili soluzioni alla luce della Parola di Dio e offrendo la nostra collaborazione a tutte le persone di buona volontà. E così, poco a poco, con tante difficoltà ma anche tante piccole soddisfazioni, ha preso forma il «progetto afro-educativo Villa Maria» del quale vi ho già scritto. «Villa Maria» perché vuole riscoprire le radici di questa terra, la sua storia, tradizione e cultura, per affrontare il presente e costruire un futuro che sogniamo insieme. Le diverse iniziative sociali della parrocchia animate dalla pastorale sociale e le piccole strutture realizzate in questi anni con la vostra solidarietà sono sfociate in questo progetto con la responsabilità della gente del posto a partire dalla nostra rete di piccole scuole, dalla cascina «Consolata» e dal «Centro Afro Allamano». La Fondazione «a partir de los niños», la «Società di sviluppo afro-rurale» (Cdar) per i progetti agricoli e la «Società Radici di Marialabaja per la sicurezza sociale» (Ramass) sono sempre più protagoniste del progetto, hanno ottenuto riconoscimento giuridico e fanno ora parte, con diversi altri gruppi agricoli e comunitari, della Sezione municipale di Agrosolidaria, una società cornoperativa nazionale che si identifica con questo slogan: «Hasta que tengamos una Colombia justa, debemos tener una solidaria» (Per avere una Colombia giusta, dobbiamo avee una solidale).
Se sono rose… A volte mi chiedo se vale la pena suscitare e accompagnare questi processi organizzativi e culturali. Per qualcuno è tempo perso perché i cambiamenti sono pochi e troppo lenti. Per altri è tutta una nostra montatura, perché se noi missionari lasciassimo, tutto cadrebbe. C’è poi chi dice: «Non sono affari nostri». Rispetto le opinioni altrui e che siano felici! A me piace vivere intensamente il momento presente. Ricordo il passato, che necessariamente insegna, e sogno il futuro, che stimola, ma mi piace vivere pienamente il presente e quindi anche questo progetto afro-educativo, con tutte le sue manifestazioni, incognite e contraddizioni. A chi ci ha accompagnato con affetto e pazienza auguro gli stessi sentimenti e tanta felicità.
Beppe Svanera
(1a parte: MC 2011/04 pp. 22-29;
2a parte: MC 2011/12 pp. 78-84).
Beppe Svanera