Vita da Gabel

Storie negate di minoranze etniche

I Gabel sono i rom di Albania, una minoranza etnica che subisce molte discriminazioni e la maggior parte di loro vive in estrema povertà.

La zona dove trovano rifugio gli zingari è la più degradata di Kombinat. Alcuni bambini giocano davanti all’uscio della loro abitazione. Inaspettatamente una pianta oamentale è stata posta all’entrata di quel misero rifugio: il decoro di una pianta che sfida tanta miseria e degrado.
Albana, la madre dei bambini, racconta che l’ha piantata un anno fa e adesso è cresciuta: «I fiori mi piacciono molto, li pianto per abbellire il posto». Ha trovato anche altre piante e le hanno detto che se le mette nel terreno cresceranno.
Indica un ammasso di lattine che raccoglie insieme ai suoi figli per rivenderle: «Trasportiamo le lattine con la carriola, ci danno 50 lekë (40 centesimi di euro) per un chilo di lattine. Per alcuni anni sono stata senza corrente elettrica, ora grazie al permesso di una vicina mi sono potuta allacciare».
Si entra in casa, una casa senza porta, attraverso un piccolo vano arredato con una fatiscente credenza sulla quale sono poggiati alcuni oggetti raccolti tra i rifiuti. Manuel, il bambino, con mossa fulminea tira via dalla stufa la coperta intrisa d’umidità: si sprigiona un odore di muffa e di bruciato insieme.
Non c’è un pavimento, solo grezzo cemento; un vecchio e liso tappeto collega l’ingresso all’unico vano, anche questo privo di porta, che funge da cucina, soggiorno e camera da letto: il letto è costituito da un divano grande e liso; l’angolo di cottura da un fornellino a gas con una vecchia e annerita padella. Accanto a esso una bottiglia d’acqua mezza vuota: le condizioni igieniche sono pessime. Inutile chiedere dov’è il bagno, è evidente che non c’è.
Sul televisore c’è una foto: è il marito morto in un incidente d’auto 5 anni fa; da allora la sua vita già grama è diventata molto difficile: «Quando c’era lui la vita non era così, avevamo una casa in affitto, ma dopo la sua morte è tutto cambiato. Non ricevo nessuna assistenza, perché lui lavorava in nero. I bambini si ammalano spesso perché c’è acqua dentro e fuori la casa. Non so per quanto tempo resterò qua. Finché non arriverà qualcuno a buttarmi fuori. Il proprietario di questo posto vive in Grecia, è una persona della nostra razza; prima di trasferirsi in Grecia mi disse che avrei potuto occupare questo luogo, ma quando toerà me ne dovrò andare».
Albana ha quattro figli: la più grande di 18 anni è già sposata e aspetta un figlio; la seconda ha 15 anni, Manuel 10 e Anisa 9. Un’altra figlia, nata dopo la scomparsa del marito, è morta di stenti: «Quando è morto mio marito ero incinta, mi hanno portata in ospedale dove è nata la bambina, poi non potevo pagare l’affitto e ho dovuto lasciare la casa e la bambina che oggi avrebbe avuto 5 anni non è riuscita a sopportare queste condizioni di vita ed è morta».
La donna prima abitava a Lapraka, un’altra zona di Tirana; il marito faceva vari mestieri, il lustrascarpe, il venditore di stracci, il guardiano notturno e veniva pagato in nero. Alla morte del marito il municipio di Lapraka le ha dato 5.000 lekë (quasi 40 euro) per tre mesi perché il suo era un «caso speciale»; in seguito per due mesi 2.000 lekë e infine più niente, perché, le hanno detto, non c’erano più soldi: «Non era più possibile aiutarmi, ma a me quei soldi facevano comodo, almeno compravo il pane ai bambini». 
Il municipio di Kombinat non può aiutarla perché risulta residente ancora a Lapraka; d’altra parte non può ottenere i documenti necessari per cambiare residenza perché non ha i soldi per pagare le «tasse sull’ambiente»: una situazione drammatica, che assume un carattere grottesco con la richiesta di una tassa per l’ambiente a una donna che vive in tanto degrado! L’unico contributo all’ambiente che possono dare la signora Albana e i suoi figli è raccogliere lattine per sopravvivere.
Dal suo racconto viene fuori una kafkiana situazione burocratica: «Sono andata a prendere un certificato che serviva a mia figlia per sposarsi e non me lo hanno dato perché non ho pagato le tasse. Io non ho i soldi per pagare tutte le tasse; ce n’è una anche per ottenere la carta d’identità, un documento richiesto dappertutto, ma io non posso averlo. Dovrei pagare le tasse per l’ambiente, per la manutenzione degli spazi verdi! Ho chiesto di essere esonerata dal pagamento delle tasse visto che vivo con tre figli in una baracca e mi hanno risposto che devono attenersi alle regole del municipio di Tirana e non possono farci niente. Ho chiesto anche lavoro, ma mi hanno detto che non c’è lavoro. Ad ogni modo cercherò di fare il sacrificio per fare le foto per la carta d’identità, almeno quella».
Un’altra conseguenza di questa che si potrebbe definire «cittadinanza limitata» è l’impossibilità di fruire dell’assistenza sanitaria; Albana fa di tutto per salvaguardare la salute dei figli, ma non si può permettere di prendersi cura della propria salute: «Le vaccinazioni le hanno fatte perché viviamo in un ambiente molto malsano e già così ci ammaliamo spesso. Per le vaccinazioni ho fatto il sacrificio, ma altro non posso. Io sto male, sono malata però non posso andare a prendere le medicine, e ci vogliono i soldi anche per la visita. Ci vogliono soldi pure per aprire un libretto sanitario».
In queste condizioni i bambini non frequentano la scuola, per motivi economici e, soprattutto, perché il pudore materno non permette di mandarli a scuola senza un abbigliamento quantomeno decente: «Mia figlia secondogenita, quando il papà era in vita, è andata per due anni a scuola. Poi dopo la morte del padre non è più andata. Manuel non va a scuola perché non ha i vestiti, poi ci vogliono i certificati, molti documenti. Come faccio a presentarlo a scuola senza vestiti? Non va bene; non è bello! Anisa fino a ieri era senza scarpe; ma ieri ho girato con la carriola per Kombinat e ho trovato questi stivali usati che indossa. Non posso presentarli a scuola così perché non è bello».
Fa male ascoltare una persona che si vergogna della propria miseria. Albana mostra due patate mezze marce per terra, in una scatola, e dice: «Questo ho trovato e questo darò da mangiare oggi ai miei figli. Che posso fare? Questa è la mia vita».
Da 11 anni vive a Tirana, prima viveva a Kukës dove aveva una casa, pur condivisa con il fratello del marito, e dove faceva le pulizie nel municipio. «A Kukës stavo bene; ma anche qui a Tirana si stava bene quando mio marito era in vita, poi lui è morto ed è crollato tutto, perché l’uomo è l’uomo e sa trovare le soluzioni ai problemi».
Non ha nessuno che la possa aiutare: i suoi genitori vivono in un villaggio vicino a Laç, in una piccola casa di due stanze con due sue sorelle, suo fratello e moglie, e non hanno la possibilità di aiutarla: «Poi, anche se andassi là cosa potrei fare? Qui almeno posso raccogliere qualcosa e venderla, ma lì non potrei fare niente. Se avessi la casa ci andrei. Ho paura per i miei figli, per me la cosa più importante è avere una casa».
La sua preoccupazione è che ritorni il proprietario e richieda la baracca in cui abita; in tal caso non saprebbe proprio dove andare.
È la vita angosciante di una madre sola, in una situazione disperata, che vive in una città non sua e ha come unico scopo della sua vita quello di proteggere i suoi figli, «Oggi ho paura a lasciare i figli da soli; quando vado a lavorare li porto sempre con me. Certo prima stavo meglio perché ero giovane, non avevo la responsabilità dei figli, mentre adesso devo badare a loro e non li lascio da soli sulle strade, anche loro lavorano con me e si stancano con me».
Anisa, la più piccola, mi dice che le piacerebbe andare a scuola, a lei piace ballare e da grande vuole fare la ballerina. La madre conclude: «Io vivo per i ragazzi, a me non piace più vivere così, ma devo farmi forza per loro, la mia vita è finita, speriamo che si possa fare qualcosa. Io ho 34 anni, li ho compiuti a dicembre. Eh! così è andata la mia vita».

Federico Gallas

Federico Gallas




Nikolla racconta

storie esemplari di albanesi feriali

Nato a Liqenas, al confine con la Macedonia, il primo di sei figli, Nikolla Trojanov  vive con un fratello a Kombinat; una sorella è emigrata in America e un fratello in Grecia; gli altri due, una sorella e un fratello, sono rimasti nel loro villaggio, ma i loro figli sono migrati all’estero.

Dall’infanzia ho imparato che un uomo non si deve arrendere davanti alle difficoltà. Mio padre si è sposato all’età di 17 anni con mia madre Fanie; abitavano in case vicine: il padre di mia madre ha combinato il matrimonio, mentre il nonno paterno era l’unico contrario: lui non voleva quell’unione, ma alla fine accettò, convinto dagli altri, anche a causa della religione ortodossa alla quale appartenevano tutte e due le famiglie.
Da sposato, mio padre visse nella casa di mia madre, che era figlia unica. Mio nonno materno era molto bravo; per sopravvivere faceva di tutto, muratore, falegname, contadino e fabbricava perfino reti da pesca. Non si stancava mai e con il suo lavoro manteneva tutti noi.
Voglio raccontare la storia di quando ci è morto un bue. Fu una tragedia! I buoi a quell’epoca erano la principale ricchezza familiare, una garanzia per il pane quotidiano, ed essendo molto cari non era facile ricomperarli. Tutti ci rattristammo; ma il nonno ci disse di non disperare: «Chiederemo un prestito e ne compreremo un altro».
Avevamo poca terra e in qualche occasione quasi niente da mangiare. Il pasto più comune erano fagioli, zuppa di riso e byrek (una specie di pizza di sfoglia ripiena di verdura). Di carne neppure a parlarne, se non molto raramente. Tale povertà l’avevamo ereditata dal mio bisnonno, che si era sposato per la seconda volta con una donna che pensava solo a se stessa e spendeva tutto in cibo, bevande e vestiti, tanto che il mio bisnonno fu costretto a vendere la casa e le terre.
Il nonno ci raccontava tante storie della Prima guerra mondiale. Diceva che nel suo villaggio si erano stabiliti i bulgari e i francesi, occupando due colline che si fronteggiavano. I bulgari erano molto duri, in varie occasioni entravano in casa nostra e portavano via il nostro pane. Invece, i francesi erano più rispettosi e condividevano ciò che avevano con i contadini. Erano ricchi e bevevano vino al posto dell’acqua.
Ricordo che il nonno ci diceva sempre: «La patria e la lingua non la dobbiamo dimenticare mai e, se è necessario, devi dare anche la tua vita per questo».

Del villaggio dove sono nato e vissuto a lungo, avrei tanto da raccontare. Il paesaggio era molto bello, le persone che ci vivevano erano molto buone, generose, si aiutavano a vicenda e non litigavano tra loro. Erano in maggioranza analfabeti, per motivi economici e politici, eppure restavo impressionato dal fatto che la maggior parte dei contadini erano molto intelligenti per natura.
Una volta andai a comperare il cemento in una fabbrica. L’amministratore era andato a scuola, mentre un suo dipendente che pesava il cemento non aveva alcuna istruzione. Quando si trattò di fare il calcolo, il dipendente fu più svelto dell’amministratore. Come individui noi eravamo intelligenti, era la povertà che ci rendeva sottomessi.
La scuola aveva solo due stanze: una serviva da aula scolastica, nell’altra dormiva l’insegnante. Un solo maestro gestiva contemporaneamente quattro classi, disposte in quattro file di sedie; le lezioni si tenevano dentro l’unica stanza: mentre l’insegnante spiegava a una classe, le altre facevano i compiti loro assegnati.
Di quell’epoca ho un buon ricordo delle feste religiose. Quella preferita era la Pasqua, che durava tre giorni. Tutta la gente si riuniva al centro del villaggio, cantavamo e ballavamo insieme. Ragazzi e ragazze avevano i loro balli preferiti, ma danzavamo separati. Eravamo tutti vestiti bene. E c’era anche tanto cibo, messo da parte durante tutto l’anno proprio in vista di quel giorno.
Un’altra bella festa era quella dell’acqua benedetta: una croce ortodossa veniva buttata nel fiume di fronte alla gente e i ragazzi si tuffavano per recuperarla; chi la trovava, la portava per tutto il villaggio di casa in casa come segno di benedizione, in cambio riceveva in dono qualche soldo. Prima di consegnare la croce alla parrocchia, il giovane la teneva a casa sua per alcuni giorni, simbolo di buon augurio per lui e la sua famiglia, per tutto l’anno. Era una festa davvero speciale.

Al tempo del re Zog le persone soffrivano molto. Ricordo che mia madre, invece della pasta, cucinava la petka, fatta di foglie secche impastate con le uova. La crisi economica, a quel tempo, era forte, i salari troppo bassi e i soldi non bastavano a coprire tutte le necessità. Diverse persone povere e senza lavoro persero case e terre perché, dopo aver chiesto soldi in prestito per comperare da mangiare, non riuscirono a restituirli, e i loro beni vennero confiscati.
Arrivati gli italiani, le cose iniziarono ad andare meglio in varie zone dell’Albania. Furono aperti nuovi posti di lavoro e molti uomini andavano a lavorare a Durazzo, come scaricatori di porto e guadagnavano bei soldi. Giravano tanti soldi che Durazzo la chiamavamo l’America dalle nostre parti.
Nel nostro villaggio si era stabilita una guaigione italiana, essendo per la sua posizione geografica in una zona tranquilla e senza rischi di essere attaccata. I soldati erano molto buoni, lavoratori tranquilli, ci raccontavano delle loro famiglie, delle persone che avevano lasciato in Italia. Uno di loro non andava a casa da due anni e ne sentiva una nostalgia enorme. Noi ragazzi ascoltavamo i loro racconti e provavamo dispiacere per loro.
Ricordo la strada davanti a casa nostra: era molto brutta e piena di buche, ma i soldati la sistemarono e piantarono dei fiori. Dove gli italiani mettevano mano si vedeva subito un grande cambiamento. Quando se ne andarono noi bambini, che avevamo fatto amicizia con loro, provammo grande dispiacere: nessuno ci avrebbe più dato del pane.
Con i tedeschi fu tutto molto diverso. Avevo 16 anni quando occuparono la terra albanese e sentimmo subito il cambiamento: erano persone fredde, arroganti, diverse dagli italiani. Non avevamo più il coraggio di andare da loro per cercare pane, come facevamo prima. Erano persone di poche parole e avevamo paura, anche perché uccidevano e bruciavano le case di chi aveva legami con i partigiani. Erano molto decisi e non esitavano a uccidere. Sparavano alla gente come se facessero il tiro al bersaglio.

Sotto il regime di Enver Hoxha non eravamo liberi di parlare apertamente. Nessuno poteva dire quello che pensava, perché i servizi di spionaggio erano pronti a incastrarti e farti del male. Erano uomini molto intriganti e in ogni momento potevano crearti problemi. La mancanza di libertà era sentita come una menomazione perfino dagli stessi membri del Partito.
Ne è un esempio la brutta esperienza capitata a un cugino più giovane di me. Aveva 18 anni e, come ogni giovane, desiderava una vita diversa. I servizi segreti gli tesero una trappola: lo invitarono in un bar e, dopo aver bevuto insieme come «amici», cominciarono a provocarlo, dicendogli che questa vita non era molto buona, che «il futuro era in Macedonia». Gli fecero credere che erano veramente suoi amici perché si sentisse libero di parlare. Mio cugino si fidò delle loro parole e manifestò le sue idee e i suoi sogni. Lo presero e lui si fece 14 anni di prigione.
Era un periodo molto duro e difficile, pieno di pericoli; ma non posso non riconoscere ciò che di buono abbiamo avuto durante tale regime. Prima di tutto è arrivata l’elettricità: è stato un grande evento; tutta l’Albania si è illuminata. Poi abbiamo avuto la scuola dell’obbligo per tutti; anche l’assistenza sanitaria è stata estesa a tutti.
In quel periodo c’erano molte attività. I giovani partecipavano alla ricostruzione del paese e aiutavano a rendere le terre più coltivabili. Non vi erano molte differenze sociali, perché eravamo una nazione molto povera. Eravamo abituati a non avere frigoriferi, lavatrici, televisione… Eravamo abituati al minimo indispensabile, le altre cose sembrano per noi un lusso.

Mi sposai a 23 anni. Mia moglie aveva 20 anni. Mi innamorai di lei a prima vista, fu un vero colpo di fulmine. A quel tempo ero responsabile della manutenzione stradale e il lavoro mi portava al paese di mia moglie. Quando la vidi per la prima volta, sentii una forte emozione, mai provata fino allora. Lei mi vide e arrossì. Era scoccata la prima simpatia; poi, ogni volta che mi vedeva, usciva sulla porta. Cominciammo a incontrarci di nascosto: a quei tempi era molto pericoloso farsi vedere insieme apertamente, a causa dei pregiudizi.
Ora che il regime è finito, l’Albania si è aperta al mondo esterno; ma tale apertura presenta aspetti contrastanti. Di positivo c’è il fatto che abbiamo conosciuto un mondo a noi precluso e proibito per quasi mezzo secolo. Il rovescio della medaglia è il fatto che tanti giovani sono andati via dal Paese. Essi hanno scelto strade lontane dalle nostre, per una vita migliore.
Anche i miei figli sono andati via: prima la figlia maggiore, già sposata, decise di andare insieme ai suoi figli in Macedonia; pochi mesi dopo partì anche mio figlio minore. Furono le difficoltà economiche a costringerli a emigrare. La loro partenza fu decisa di colpo, a mia insaputa.
Fu un momento per me molto difficile. Sentivo che i miei figli non erano più miei; come se fossero stati comprati da qualcun altro. Inoltre, avevo paura che succedesse loro qualche disgrazia. Erano gli anni ‘90, quando valicare confini era ancora tabù e si rischiava la vita.
Arrivarono in Macedonia, ma ne rimasero delusi, perché non era quello che sognavano e si aspettavano. Rimasero nella zona di Beogroad per sicurezza; facevano qualche lavoro nei dintorni, ma la paga era appena sufficiente per sopravvivere. Mia figlia toò a casa poco dopo; mio figlio invece andò in Grecia. Non seppi più niente di lui, perché non avevamo il telefono. Ormai lo credevo morto e aspettavo da un momento all’altro di ricevere la brutta notizia. Alla fine, mi arrivò una lettera raccomandata che mi fece rinascere: mi scriveva di non preoccuparmi perché stava bene e lavorava al porto di Selanik. Fu la notizia più bella della mia vita.

Ora vivo a Kombinat presso mio fratello e la sua famiglia. È stato un grande cambiamento, alla mia età. Però essi sono stati gentili ad accogliermi, perché mia figlia non poteva occuparsi di me e mio figlio è ancora in Grecia. Speriamo stia bene e che ritorni un giorno.
Quando sono arrivato mi sono misso a piangere: non volevo fermarmi qui, ma dopo la morte di mia moglie non avevo scelta. Ricevo una pensione; non sono mai stato un peso per nessuno e mio fratello mi ha accolto con piacere; da parte mia lo aiuto economicamente. A me sta bene così. Passo il tempo raccontando ai due nipotini la storia mia e di mia moglie. Si siedono sulle mie ginocchia e ascoltano attenti; ma a volte pesano e devo farli scendere. 
Mio fratello è più giovane di me; anche lui ha lavorato sodo e si è comperato una casa: siamo in sei con lui, sua moglie Blerta, la loro figlia e due bambini. Il genero di mio fratello è andato in Germania a cercare fortuna insieme al cugino qualche anno fa. Sta bene, torna quando può, ma i figli non li porta mai con sé: questo io non lo capisco, dal momento che ora si può uscire tranquillamente dal paese. Secondo me ha un’altra donna; ma quando dico queste cose a mio fratello lui si arrabbia e io smetto.
Mio fratello è un gran lavoratore, ma da quando il lavoro nel suo settore è diminuito è nervoso. Io lo aiuto economicamente e mi prendo cura dei bambini ogni volta che mia nipote lavora nel negozio che vende i byrek. Mi piace e mi sento molto utile: rivedo in loro i miei figli e l’amore di mia moglie per loro.
Ma sono stanco. Sento molto la mancanza di mia moglie e dei figli lontani. Mia moglie è morta da anni, ma la sento sempre vicina. Era meravigliosa. Per quattro anni è rimasta a letto paralizzata. Io le stavo accanto e quando l’ho persa mi è sembrato che la mia vita si fosse spezzata. Mi sentivo come un uomo senza gambe e senza braccia.
Il sentimento di solitudine mi rattrista molto. Non ho paura della morte: oggi o domani, tutti dovremo morire. Ho più paura della solitudine: non vorrei morire solo in casa, a porte chiuse, senza qualcuno accanto, come si sente dalla televisione o si legge sui giornali. Anche se ho questi pensieri, credo che la vita sia da vivere in ogni momento.

Paolo Rossi

Paolo Rossi




Culto dell’etnia chiamata «albanità»

Processo storico dell’anima albanese

Nata come provincia romana dell’Illiria (II sec. a.C.), attraversati quattro secoli bui sotto il dominio ottomano, indipendente nel 1912 e conquistata dall’Italia nel 1939, dopo quasi mezzo secolo di regime nazional-comunista (1946-1990), l’Albania è tra i paesi emergenti d’Europa. La sua economia continua a crescere, ma il paese è ancora alle prese con seri problemi di arretratezza politica e sociale, che frustrano le sue richieste di integrazione nella comunità auropea.

Situato nella parte sudoccidentale della penisola balcanica, affacciata sul mare Adriatico in corrispondenza del canale d’Otranto, il cui punto più stretto è di circa 75 km, l’Albania ha una superficie di 28.748 km², poco più grande della Sicilia, e quasi 3 milioni di abitanti, secondo il censimento del 2011. La maggior parte della popolazione vive nelle periferie dei grandi centri urbani che, da soli, ne agglomerano oltre due terzi.
Per descriversi, il popolo albanese pone al di sopra di tutto l’importanza dei valori dell’etnia, in contrapposizione al concetto di stato. Ogni forma di ricostruzione storica del Paese va quindi fatta alla luce di come gli albanesi «pensano» l’Albania, ricordando che tale schema è alla base del modello di nazione albanese.

Dall’indipendenza alla «grande albania»
La discendenza storica dagli Illiri costituisce un titolo di vanto riaffermato indistintamente da tutti i leader albanesi: pirati di professione, furono sottomessi da Roma verso il II secolo a.C. e la loro regione fu inetgrata nella provincia romana dell’Illiria.
Nei secoli del dominio ottomano i clan albanesi continuavano a praticare di nascosto la loro fede: di notte nelle case si svolgevano le antiche liturgie e, nascoste sotto terra, si celavano spesso le statue dei santi, mentre il battesimo era amministrato in segreto cosicché molti albanesi avevano un nome islamico e un secondo nome, ufficioso, cristiano.
Intoo al XVIII secolo iniziò quindi a svilupparsi quella cultura turco-albanese che raggiungerà, alla fine del secolo, traguardi di raffinatezza soprattutto nel settore letterario.
Una serie di contingenze determinarono nel corso del XX secolo un’inattesa alleanza con Italia e Austria che temevano il controllo serbo e greco del territorio: unica alternativa possibile era la trasformazione del paese in uno stato indipendente, sotto tutela italo-austriaca. L’allora governo di Francesco Crispi – un italo albanese – riuscì a imporre all’Europa la faticosa nascita dell’Albania, attraverso la Conferenza degli Ambasciatori del 1910, che due anni dopo confermò la costituzione della nuova nazione: il 28 novembre 1912, a Valona, Ismail Qemalil dichiarò l’indipendenza dell’Albania.
Seguirono anni di assestamento politico, segnato da arretratezza economica e lotte tra anacronistici capi-tribù, finché si affermò Ahmet Zogu che diede vita al Regno albanese, proclamandosi re col nome di Zog I, e intensificò i rapporti economici con l’Italia. Roma considerava l’Albania come una propria colonia e vedeva con sospetto l’ingerenza nazi-tedesca nei Balcani, finchè il governo fascista, attraverso il proconsole Ciano, rovesciò la monarchia albanese: era l’alba del 7 aprile del 1939, Venerdì Santo. Da allora l’Italia controllerà l’Albania fino al settembre del 1943, trascinandola nella rovinosa campagna di Grecia, il cui risultato per gli albanesi si risolse in un trionfo storico del tutto inaspettato: sotto la guida di un re italiano e con l’appoggio tedesco, realizzarono la «Grande Albania», recuperando l’Epiro del nord (Ciamuria), alcuni territori della Bulgaria e soprattutto il Kosovo.

La dittatura di Hoxha
Nel periodo che va dal 1943 al 1945 comparvero nel territorio albanese numerosi movimenti partigiani tra loro contrapposti, mentre per i kosovari tali anni furono particolarmente drammatici: la componente albanese, che per decenni aveva subito la repressione serba, e i tentativi di «pulizia etnica» del governo di Belgrado, forte dell’appoggio nazista, cornoperò con particolare ferocia nelle rappresaglie compiute dagli occupanti contro i serbi, dando ai vari gruppi politici kosovari un indirizzo ideologico esasperatamente antisemita.
Nel generale contesto di anarchia in cui il Paese stava precipitando emerse, per disciplina e forza militare, l’insieme dei gruppi partigiani guidati da Enver Hoxha, che condusse una spietata guerra di liberazione, ben presto sfociata in guerra civile, quando l’anticomunismo spinse i nazionalisti monarchici e repubblicani a unirsi tra loro per combatterlo, arrivando addirittura ad affiancare i nazisti.
Hoxha goveò l’Albania dal 1944 al 1985, anno della morte, con un comunismo molto rigido e autoctono: è classificato tra i peggiori despoti del Novecento. Nonostante la stesura di una monumentale opera omnia, prodotta in ben 71 milioni di copie, che doveva consacrarlo a solo, autentico, continuatore di Lenin, Hoxha fu sempre legato a quel culto della etnia definito «albanità».
Quando il Cremlino si alleò, tradendo la besa (la parola data), con la Jugoslavia, storica nemica del popolo albanese che opprimeva i kosovari, la rottura con Mosca fu sancita definitivamente e Hoxha affidò agli intellettuali il compito di esprimere senza reticenze la messa in secondo piano dello schema marxiano fino ad allora sostenuto e imitato. L’alleanza con Pechino costituì una scelta di tipo strumentale, per la foitura di armamenti e strumenti per l’industrializzazione e lo sviluppo del Paese.
Nel 1976 anche la Cina fu accusata di «imperialismo» e il dittatore si ispirò a nuovi ideali da seguire, come quelli rappresentati dalla Svizzera, unica nazione che appariva neutrale rispetto alla Nato, e dall’Austria. Ma il popolo albanese, ormai guidato da Sali Berisha – il medico che sarebbe poi stato alla guida del primo governo anticomunista albanese – cominciò a capire che dietro tali scelte vi erano per lo più le solidità bancarie dei due Paesi, dove Hoxha teneva i suoi conti privati.
Gli albanesi giudicano oggi negativamente il quasi mezzo secolo di comunismo dominato da Enver Hoxha. Tuttavia, alcuni attribuiscono al dittatore alcuni meriti, come quello di aver permesso loro di imparare a leggere e scrivere, aver dato accesso al sistema sanitario e aver portato a coltura tutta la terra possibile; non da ultimo, sotto il suo regime la durata media della vita è passata da 38 a 70 anni.

L’era di berisha
Alla morte del dittatore, nel 1985, gli successe Ramiz Alia, che faceva parte dell’entourage di Hoxha, anche se, a differenza di gran parte degli altri, durante la guerra di liberazione non aveva avuto un ruolo militare di spicco. Nel 1987 Alia fece sì che l’Albania entrasse come membro permanente delle varie Conferenze balcaniche promosse dal governo Jugoslavo. Sul fronte interno, pressato dallo scontento popolare, avviò timide riforme politiche e, in concomitanza con il crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale, introdusse il multipartitismo.
Tra gli intellettuali e funzionari statali del regime c’era anche la casta dei medici, all’interno della quale si trovava Sali Berisha, un cardiochirurgo che si era conquistato ampia notorietà a livello internazionale e di cui Hoxha si fidava ciecamente. Ma spinto dall’illimitata brama di potere, alla fine del 1990, Berisha scese in piazza assieme agli studenti che protestavano contro il regime di Alia, l’anno seguente riuscì a manovrare e diventare capo del Partito democratico albanese, al quale impresse una ideologia semplicemente e ferocemente anticomunista e presentandosi ormai come leader incontrastato. Le elezioni del 1992 sancirono un risultato del 66% dei voti al Partito democratico: Berisha diventò presidente e venne rieletto nel 1996; ma quello stesso anno il «crollo delle Piramidi Finanziarie» provocò proteste di massa: nei primi mesi del 1997 il Paese precipitò in una specie di anarchia con circa 2.000 morti; le responsabilità del presidente non sono mai state chiarite ma erano evidenti: Berisha fu costretto a dare le sue dimissioni.
Nonostante nel settembre 1998 avesse preso parte al tentato colpo di stato contro il governo di Fatos Nano, nell’estate 2005 la coalizione del partito di Berisha, dopo otto anni di opposizione, ebbe nuovamente la maggioranza in parlamento, grazie alla ripetizione del voto in tre circoscrizioni, tra polemiche su compra-vendita di voti, insulti tra i leader e indicazioni elettorali di clan: Berisha divenne primo ministro; nel 2007 fece eleggere presidente un candidato di sua fiducia, Bamir Topi; nel 2009 consolidò la vittoria elettorale, continuando nella carica di primo ministro per il secondo e attuale mandato.
Dalla caduta del regime comunista a oggi, la storia della direzione del Paese si consuma in un’alternanza che vede protagonisti, fin dal 1991, Sali Berisha e Fatos Nano.

Dal boom economico alla crisi
A fine 2006 il Capo delegazione del Fondo monetario internazionale a Tirana, Istavan Szekely, lanciò l’allarme per il fatto che il governo albanese aveva appena sottoscritto un contratto con il gruppo americano-turco Bechtel-Enka per i lavori di un tratto dell’autostrada Durazzo-Morina, lungo circa 50 km, al prezzo di 418 milioni di euro: l’Albania, secondo le normative del Fmi, non avrebbe potuto richiedere più di 50 milioni di euro di debiti al mercato finanziario. Intrappolato nella promessa elettorale della riduzione delle tasse, vincolato dal contratto che richiedeva ulteriori spese, ridotte le entrate per via della crisi, il governo optò per una terza via: congedare il Fmi dall’Albania.
Nel 2007 l’Albania registrò una crescita economica del 6% e l’anno successivo dell’8%, cifre che solo la Cina superava. Con una crescita economica simile si sarebbero potute finanziare non una, ma ben due strade Durazzo-Morina senza eccessive preoccupazioni. Con un Pil di circa 10 miliardi di euro l’anno e una crescita economica dell’8%, la ricchezza finanziaria albanese aumentava di 800 milioni di euro l’anno, in dieci anni il Paese poteva diventare due volte più ricco e, nella stessa misura, crescevano i redditi pro-capite.
Tutto ciò in teoria. La realtà si sta rivelando coerente alle paure del Fmi che, complice la crisi del 2009, vede la crescita economica albanese crollata dall’8% al 2,8% in un anno: una catastrofe per la finanza albanese, poiché il piano della spesa pubblica – avendo assorbito anche la famosa strada – era stato calcolato sulla base di una crescita economica maggiore.
A fine novembre 2008 il deficit pubblico era a quota 23,5 miliardi di leke, un anno più tardi il deficit si triplica arrivando a 63,5 miliardi di leke, pari a più di 450 milioni di euro. Al Goveo non restava che giustificarsi dicendo che «ovunque in Europa il deficit pubblico è esploso a causa della crisi».

Anticamera europea
Il 14 aprile 2010 l’Albania ha consegnato al Commissario europeo per l’Allargamento, Stefan Fule, il dossier con le risposte ai 2.284 quesiti utili alle istituzioni dell’Ue perché esprimano un giudizio sulla richiesta di adesione dell’Albania. L’Ue ha sollevato dubbi circa la stabilità democratica delle istituzioni, l’esistenza di un’economia in grado di reggere le regole della competizione e del mercato unico, il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze, lo stato del sistema giudiziario, la corruzione e la criminalità. Per entrare nell’Unione europea l’Albania dovrà fare particolarmente attenzione al raggiungimento dei criteri di Copenhagen.
Il 2011 è stato un susseguirsi di episodi di piazza. A gennaio le proteste scaturite dagli scontri tra partiti di maggioranza e opposizione hanno fatto 3 morti e decine di feriti; a maggio le elezioni amministrative, dopo numerosi colpi di scena e riconteggi, hanno conferito al Partito democratico di Sali Berisha anche la guida della capitale, strappata allo storico sindaco Edi Rama e di nuovo gli albanesi sono scesi in piazza per protestare, nel disinteresse totale dell’opinione pubblica mondiale.
A ottobre è stato pubblicato il rapporto della Commissione europea sull’avanzamento dei paesi balcanici verso l’integrazione europea. Anche quest’anno l’Albania si è vista rifiutare lo status del paese candidato.
A dicembre sono stati infine pubblicati i risultati del censimento della popolazione, svoltosi nel mese di ottobre: sembra che la popolazione sia diminuita del 2,8% in 10 anni, ma molti sollevano dubbi su come si è svolta la ricerca.

Paolo Rossi

Paolo Rossi




Accade a kombinat

Premessa

A 20 anni dalla caduta del regime comunista, a quasi 15 dai disordini del 1997, dovuti alla grave crisi finanziaria delle «piramidi», Kombinat è diventato un luogo effervescente di vita, dove l’arte dell’arrangiarsi, della sopravvivenza e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo può evolvere nelle direzioni più impensabili. È stupefacente la capacità, almeno apparente, di convivenza sociale che regna in questa caleidoscopica realtà dove, nel comprensibile desiderio di una vita migliore a qualunque costo e in tempi rapidi, vi è una massadi persone impegnate nella lotta per la sopravvivenza, a fronte di pochi, più ricchi e più furbi, altrettanto impegnati nel trae i maggiori vantaggi. A Kombinat convivono vecchi abitanti e nuovi immigrati da diverse parti d’Albania e gli «sfortunati» (o esclusi, come i Rom) provenienti da altre zone di Tirana: tanti gruppi che si tengono distinti, pur non avendo conflitti visibili.
Naturalmente, pur nella convivenza dichiarata, permane una diversità tra abitanti di vecchia data e nuovi arrivati. Nei primi vi è fierezza e orgoglio per essere stati i costruttori di Kombinat, fabbrica e quartiere, e tanta nostalgia e amarezza per com’è ora: essi avevano creduto nel sogno di una «nuova» Albania e, ora più degli altri, rimarcano amaramente il degrado e l’abbandono in cui versa il Paese.
I nuovi arrivati sono giunti con la speranza che qui qualcosa in qualche modo si possa trovare o possa accadere, e comunque hanno abbandonato l’isolamento della campagna e delle montagne, per vivere il «benessere» della città. Ma tra questi vi è anche emarginazione, disperazione, che a volte portano all’alcornol, alla droga e alla prostituzione; vi è povertà economica e morale, che a volte porta all’inaccessibilità alla scuola e al sistema sanitario. Molti vivono in abitazioni di fortuna e non risultano neanche iscritti nelle liste dell’anagrafe comunale: hanno solo elaborato strategie di sopravvivenza per esistere in un’area deindustrializzata.

Il grande desiderio e bisogno di comunicare della gente può essere interpretato come un modo per esorcizzare la sindrome di abbandono da parte delle istituzioni e il senso di precarietà che minaccia non solo le esistenze individuali, ma l’intera dimensione collettiva. Con il vecchio regime, gli albanesi vivevano in un ambiente certamente non confortevole, come tenuti sotto chiave, ma almeno socialmente sicuro e «protettivo».
Oggi, i cittadini di vecchia data e i nuovi inurbati a Kombinat stanno scontando un disorientamento e tale da far rimpiangere l’organizzazione sociale e, ancor più tra i meno abbienti, il sostegno sanitario e assistenziale del regime passato.  
Occorre traghettare la società albanese verso un sistema in cui lo Stato possa nuovamente essere riconosciuto come garante di legalità e governabilità; uno Stato che ponga al centro della propria attività lo sviluppo del Paese e il benessere sociale dei suoi cittadini tutti.
È quello che l’Ong Col’or (Camminiamo oltre l’orizzonte) realizza dal 2003, lavorando in Albania in generale e con gli abitanti di Kombinat in particolare. In questi anni essa ha realizzato numerosi progetti che spaziano da attività a favore delle famiglie, al sostegno alla locale associazione di donatori di sangue, fino ad attività di formazione professionale e avviamento al lavoro per i giovani in difficoltà.

    Paolo Rossi       

Paolo Rossi




Cana (29): Le giare di pietra e le tavole in pietra della legge

Il racconto delle nozze di Cana (29)

Gv 2,6 (a): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra],
contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Con il v. 6 siamo arrivati al cuore del racconto dello sposalizio di Cana. Nella puntata Otto personaggi in cerca di simboli (MC 9 – 2009, pp. 20-22), presentando lo schema dell’intero racconto, che per noi è costruito a chiasmo, cioè a forma incrociata, dove si corrispondono il primo e l’ultimo elemento, il secondo e il penultimo, il terzo e il terzultimo fino a un punto centrale come al proprio cuore (per lo schema v. MC 9), abbiamo rilevato che l’autore con quello che precede e quello che segue vuole condurre il lettore a questo versetto, che è quindi la chiave più importante della narrazione.
Se questo è vero bisogna prestare molta attenzione non solo alla lettera del testo, ma alla «mens» dell’autore e cercare di capire quale messaggio vuole trasmetterci. Mettendoci in ascolto silenzioso e dinamico della Parola, cerchiamo di scoprirlo.

Dalla grammatica e sintassi …
Da un punto di vista testuale vediamo subito che la prima parte è costruita con un «ipèrbato», che è una figura letteraria per cui due termini che dovrebbero stare insieme sono interrotti da una o più parole: qui i termini «hydrìai – giare» e «kèimenai – collocate/giacenti [per terra]» sono separate dalla frase «per la purificazione dei Giudei», dando all’intero versetto un empito di suspence.
Alcuni codici antichi, sia importanti che meno importanti, eliminano il participio presente passivo «kèimenai – collocate/giacenti» per un evidente fine di semplificare e rendere il testo più scorrevole: «Vi erano poi là sei giare di pietra collocate/giacenti [per terra, pronte] per la purificazione dei Giudei». Invece l’autore, usando la costruzione che tecnicamente si chiama «perifrastica passiva», pone l’accento non sulla posizione delle giare, e cioè che erano per terra, ma sulla materia con cui sono fatte (sono di pietra) e sulla loro funzione e scopo, cioè «per la purificazione dei Giudei». La costruzione perifrastica è frequente nel quarto vangelo: cf, p. es., Gv 3,27; 6,65; 13,23; 16,24; 20,30 (cf BDR § 3522-3; M. Zerwick, Il greco 154 §362).
In altre parole, in questo modo, l’autore ci obbliga a considerare ancora una volta il rapporto che c’è tra lo sposalizio di Cana e ciò che è avvenuto ai piedi del Sinai: per ricevere la Torah, Israele tutto deve «purificarsi per tre giorni»; allo stesso modo per ricevere il compimento della Toràh, che è lo sposo-Gesù, bisogna che tutto il popolo nuovo si purifichi prima di accedere alle nozze.
Questo invito è dato in modo plastico e forte dalla presenza delle giare: «Vi erano poi là sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei»: la funzione delle giare è «permanete» perché esse non sono là occasionalmente, ma restano, anzi devono restare lì «collocate/giacenti per terra». Il loro immobilismo, quasi inerte come cadaveri, esprime la loro funzione permanente: c’è sempre bisogno di purificazione prima di accedere al cospetto di Dio.
C’è un altro elemento che ci porta alla stessa conclusione ed è l’uso della preposizione propria «katà» che noi abbiamo tradotto, semplificando, con «per». In greco questa preposizione si costruisce con il caso accusativo e indica una relazione, per cui si dovrebbe tradurre letteralmente con «in relazione alla purificazione dei Giudei», oppure «secondo la purificazione dei Giudei», oppure ancora «destinate alla purificazione dei Giudei».
Se si guarda dalla parte del soggetto, cioè le giare, la preposizione indica finalità/scopo: ci dice che le giare hanno come scopo proprio di essere sempre pronte per la purificazione dei Giudei. Se invece si guarda dal punto di vista della purificazione, cioè del complemento, allora si sottolinea la necessità della purificazione stessa. In questo senso si può anche tradurre: «Vi erano poi là, sei giare di pietra, destinate la purificazione dei Giudei»; oppure: «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione necessaria/obbligatoria dei Giudei».

… al significato pregnante dei simboli e parole
Ci soffermiamo su questi aspetti linguistici che a qualcuno possono apparire noiosi o pignoli, per fare notare ai nostri lettori che nella Parola di Dio, ogni sfumatura ha un senso e mai dovremmo cedere alla tentazione della superficialità o del pressappochismo. Se l’autore usa una frase piuttosto che un’altra non è per capriccio o perché ininfluente per la comprensione del testo. Quanti dei nostri lettori, infatti, nelle innumerevoli volte che hanno letto questo racconto, non hanno pensato che esso avesse come finalità di edificarci con un pensiero spirituale sul sacramento del matrimonio, mentre al contrario, prendendo lo spunto da un banale sposalizio, ci costringe a pensare all’alleanza del monte Sinai per concludere che ora davanti a noi non c’è un profeta, seppur grande come Mosè, ma c’è il Lògos in persona, il Figlio di Dio che è l’Alleanza del Padre?
Diciamo questo anche perché il Gv 2,6 che descrive le giare corrisponde nella costruzione sintattica a Gv 2,1, che abbiamo già esaminato nella puntata C’era là la madre di Gesù (MC 4 – 2011, pp. 30-32), dove avevamo già proposto il parallelo linguistico, osservando che la costruzione è tipicamente giovannea, riportando i testi di riferimento e mettendo in evidenza che la costruzione in Gv 2,1 e 2,6 è voluta espressamente dall’autore per creare un parallelo tra la madre e le giare secondo lo schema seguente:

– Gv 2,6:     «Vi erano poi là sei giare di pietra» 
    (êsan dè ekêi lìthnai hydrìai).
– Gv 2,1:    «Ed era la madre di Gesù là»
    (kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi).

Abbiamo anche messo in evidenza che la costruzione «era/erano… là», avverbio locativo + verbo «essere», si trova circa una decina di volte nel quarto vangelo (cf Gv in 2,1.6; 3,23; 4,6; 5,5; 6,22.24; 11,15; 12,9.26); per cui rileviamo che l’autore vi attribuisce una certa importanza: il tempo imperfetto del verbo «essere» ha un valore «qualitativo» nella linea secondaria della narrazione: da una parte fornisce informazioni circostanziali, cioè in più, per permettere al lettore di farsi un’idea più completa del racconto, e dall’altra ci descrive la qualità dello «stare», che non è solo una presenza occasionale, come potrebbe essere la partecipazione a un matrimonio, ma sottolinea e mette in evidenza che tale «presenza» è determinante, in quanto «doveva essere là»: quasi uno stato di necessità.
In altre parole, Giovanni informa il lettore sul contesto del racconto, offrendo dati supplementari che in questo caso mettono in relazione la madre con le giare. Dicendo che sia la madre che le giare «stavano… là», ci suggerisce l’idea che esse dovevano essere là fin dall’inizio: sia la madre che le giare rappresentano quello che «c’era da sempre», cioè tutta la storia d’Israele che s’identifica nell’alleanza data sul Sinai e scritta su tavole di pietra, come le giare sono di pietra (di questo parleremo nella prossima puntata).

Le giare, la madre, la Toràh e Israele
La madre rappresenta Israele e le giare la Toràh incisa nelle tavole di pietra che segnano la storia costante del popolo di Dio. Il tempo imperfetto, infatti, indica un’azione continuativa e duratura nel passato. In parole più semplici: con quella costruzione «era/erano… là» l’autore ci dice che sia la madre che le giare sono il passato che cedono il passo al nuovo che è Gesù. Non si tratta però di sostituzione, quasi che l’alleanza del Sinai fosse superata dall’avvento di Gesù, ma di un superamento nell’ordine della pienezza: il passato che era inerte (le giare giacciono per terra) e che non ha più speranza (manca il vino che tanto preoccupa la madre), ora può riprendere vita e attingere linfa dal nuovo perché Gesù non è «venuto ad abolire la Legge o i Profeti… ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17).
Se Giovanni annette molta importanza al confronto «madre – giare», significa che le due presenze e le modalità del loro essere presenti non sono casuali: la madre non è venuta alle nozze solo perché ha ricevuto un invito, ma «era necessario» che fosse «là», perché essa è rappresentativa dell’attesa di Israele. Nella madre Giovanni condensa tutta l’attesa messianica di tutta la storia del suo popolo; ella è la personificazione di tutto Israele da cui si distingue nettamente.
Da un lato Israele, pur possedendo la Toràh, non ha accolto il Lògos (Gv 1,11), preferendo il buio della sua chiusura anche alle novità di Dio; dall’altro la madre che rappresenta l’Israele che attende si apre al nuovo, prende coscienza che manca il vino e chiede il nuovo vino del Messia, quello che inaugurerà gli ultimi tempi con una abbondanza senza misura.
Allo stesso modo deve dirsi delle giare di pietra, perché anche esse «erano là, distese per terra/che giacevano» e c’erano prima ancora che le nozze avessero inizio. Anche queste hanno uno scopo, che è «la purificazione dei Giudei», ma sono inerti, tanto inerti che devono ripetere all’infinito il rito purificatorio, allo steso modo delle tavole di pietra della Toràh, che dopo essere state spezzate, devono essere riscritte e riconsegnate.
Anche le giare dicono che sono ormai inadeguate a ricevere «la pienezza del tempo» (Gal 4,4) che si apre al Regno definitivo. Bisogna aprirsi al nuovo, la tradizione e le tradizioni non servono più, possono essere qualche volta un rifugio di sicurezza, ma non sono quasi mai una spinta a cogliere «il presente di Dio». A volte invece possono essere deleterie e pericolose: «Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,13).

La funzione ripetitiva delle giare
Le giare sono il simbolo visibile della Toràh scritta e orale, incisa su tavole di pietra (Es 24,12; cf Mateos – Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 133 e 137), che sono diventate il «sacramento» del cuore di pietra di Israele descritto dal profeta Ezechiele e in attesa del trapianto del cuore di carne (cf Ez 11.19; 36,26). La madre e le giare sono il simbolo della sinagoga che attende il Messia:
    a)    Le giare sono pronte per la purificazione dei Giudei, quasi un prolungamento di quanto avvenne ai piedi del Sinai, dove Dio stesso impose che il popolo si purificasse per essere pronto e degno a ricevere la Toràh: «Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo”» (Es 19,10-11).
    b)    La madre/nuovo popolo è già sulla scena perché deve accogliere sia lo sposo, il Figlio, sia i figli che tornano dall’esilio, ponendo fine alle lacrime di Rachele che piange i suoi figli esiliati (cf Ger 31,15). La madre assume un connotato dirompente di profezia, perché annuncia l’arrivo del Messia e, al tempo stesso, chiude il tempo dell’attesa: il vino conservato nella cantina del monte Sinai, il vino della Parola di Dio sta per scorrere abbondante e senza misura inaugurando i tempi del Messia.

Un dato è certo, nella prima parte del v. 6, l’attenzione deve porsi sul tema della purificazione, che quindi è una idea importante e che bisogna approfondire, entrando più intimamente nel testo, da cui scopriamo che l’aggettivo di materia «líthinai – di pietra» è esclusivo di Giovanni (in tutto il NT ricorre solo altre due volte: in 2Cor 3,3 e in Ap 9,20). Gli elementi che Giovanni mette nel versetto sono molteplici e interessanti: le giare sono di pietra, sono in numero di «sei», sono inerti perché giacciono distese per terra e sono sempre in attesa di servire i Giudei per la purificazione. Sono così importanti che anche la quantità del loro contenuto (l’acqua) è misurata: ognuna di esse è «chōroûsai – contenenti due o tre metrète».

Una misura senza misura
Il participio presente attivo femminile che concorda con le giare forma una seconda coniugazione perifrastica, qui attiva. Anche in questo caso, invece di dire che «le giare contengono due o tre metrète», l’evangelista dice che «le giare erano contenenti due o tre metrète». È evidente che l’autore con questa scelta sintattica sottolinea non la normalità, ma l’abbondanza del contenuto, perché in un certo senso prolunga le parole «erano contenenti», che richiama l’attenzione meglio e maggiormente del banale e semplice «contenevano». Nella prima forma, uno è costretto a fermarsi, nella seconda uno prende solo atto e passa avanti.
La metrèta, infatti, è una misura che indica qui una quantità considerevole (vedi riquadro), segno che le giare erano usate da molte persone. In questo contesto, però, è quasi obbligo pensare alla contrapposizione di due fatti: da una parte il vino è «poco», tanto che deve intervenire la madre, dall’altra l’acqua della purificazione è abbondante, anzi sovrabbondante. Il «poco vino» è insufficiente e sottolinea anche la povertà della condizione dei partecipanti al matrimonio, espressione dell’antica alleanza, se rimane chiusa in se stessa; dall’altra parte, «l’acqua che diventa vino» è in quantità incommensurabile e indica l’abbondanza dei tempi messianici, di cui abbiamo parlato a lungo in due puntate precedenti: Un protagonista delle nozze: il vino del Messia, MC 2- 2010, pp. 24-26) e Un protagonista delle nozze: il vino dell’abbondanza, MC 3 – 2010, pp. 22-24). 
Ancora una volta, attraverso la struttura letteraria, i particolari e i personaggi, l’autore del racconto ci riporta ai piedi del Sinai per riprendere in mano di nuovo il codice dell’alleanza e risciacquarlo nel vino delle nozze di Cana che continuano ad essere sempre  di più un «midràsh» di Es 19, mettendoci in guardia che se non ci apriamo al nuovo, simboleggiato dal «vino bello», anche noi rischiamo di chiuderci nelle nostre sicurezze di una religione di comodo, con il rischio di vanificare la Parola di Dio. Delle giare di pietra e del fatto che fossero «sei» parleremo nella prossima puntata.
(29 – continua).

Paolo Farinella

Paolo Farinella




La mistica del buon samaritano

Centro Hakumana: una risposta alla sfida dell’Aids a Maputo

Il Centro Hakumana («stiamo uniti» in lingua ronga) è il nome del progetto che alcune religiose, ispirandosi alla parabola del Buon Samaritano, hanno lanciato per rispondere come chiesa alla sfida urgente della pandemia dell’Aids nella città di Maputo. Coordinatrice del progetto è suor Janete Vieira, missionaria della Consolata brasiliana.

Maxaquene, parola magica per gli abitanti di Maputo: è il nome di tre quartieri dove si trova lo stadio omonimo e l’omonima squadra di calcio, la più gloriosa del Mozambico, quella da cui uscì il grande calciatore Eusebio. Ma è anche una zona molto povera, in gran parte abitata da immigrati di altre parti del paese, che hanno trovato impiego nella capitale come lavoratori domestici, manovali, venditori ambulanti, operai specializzati che non possono permettersi di abitare nella città di cemento.
Di fatto le abitazioni sono fatiscenti, con muri incompiuti di blocchi e mattoni o con pareti fatte semplicemente di canne e lamiere. Unici complessi dignitosi in muratura, ben circondati da alte mura, sono alcuni centri governativi e istituzioni private; una di queste è l’Istituto superiore Maria Madre dell’Africa (Ismma), scuola a livello universitario fondata (1995) e gestita dalle congregazioni religiose presenti in Mozambico, con lo scopo di preparare religiosi e laici impegnati nel servizio pastorale della Chiesa, professori di educazione morale e civica nelle scuole e centri di formazione sia statali che privati.
Nel recinto del campus universitario e legato all’Ismma è sorto da pochi anni il Centro Hakumana, che si prende cura di mamme e bambini orfani o abbandonati, vittime dell’Aids o di emarginazione di varie forme. Ne è cornordinatrice suor Janete Vieira, missionaria della Consolata brasiliana, che mi accompagna in visita nei diversi reparti del Centro e mi presenta alcune persone dell’équipe: la direttrice suor Evelyn, la segretaria suor Elena, l’amministratrice suor Isabel. Passando nei vari reparti salutiamo alcune donne impegnate in lavori di cucito e artigianato; finché raggiungiamo le aule dell’asilo, accolti dalle grida festose di bambini indiavolati, che scorrazzano per le stanze o giocano con balocchi più grandi di loro. Nel frattempo suor Janete mi racconta la storia del Centro e i suoi scopi.

Un sogno diventato realtà
«Tutto è cominciato un giorno di marzo 2006, per opera della commissione Hiv-Aids della Conferenza dei religiosi e religiose del Mozambico – racconta suor Janete -. Da due anni eravamo impegnate, una trentina di religiose, nell’organizzazione di incontri e seminari per giovani, studenti, parrocchie e altri religiosi, offrendo formazione e informazione, orientamenti e consigli sulla pandemia dell’Aids e relative problematiche. Quel giorno sentimmo che dovevamo fare di più per rispondere come Chiesa alla sfida: ci mancava il contatto diretto con le vittime dell’Aids; parlavamo molto di loro, ma non con loro, e non facevamo qualcosa per aiutarli concretamente».
Per due ore furono lanciate molte idee, ma senza alcuna conclusione. Fu tutto rimandato all’incontro seguente. Ma nella riunione di aprile la Commissione si era ridotta a 5 persone e la discussione non approdò a nulla. «Uscii dall’incontro sconsolata, ma non rassegnata – continua suor Janete -. Se è opera di Dio, nessuno ci fermerà, dissi a suor Evelyn, Mercedaria della Carità, appena nominata direttrice dell’Ismma e alloggiata provvisoriamente nella nostra casa a Maputo».
Seguirono altri incontri di gestazione, finché suor Evelyn presentò un progetto dettagliato per la creazione di un centro di accompagnamento e assistenza a livello di integrazione sociale, psicologica, sanitaria, legale e spirituale delle vittime dell’Aids. Seguirono altri incontri per superare le obiezioni, integrare i vari suggerimenti e crescere in sintonia nell’affrontare una missione sempre più urgente e difficile, ma necessaria e appassionante. Finché fu scelto il nome da dare al progetto: «Centro Hakumana», termine della lingua ronga che significa «stiamo uniti». Fu anche abbozzato lo spirito che doveva animare il progetto: suor Janete suggerì la parabola del buon samaritano soprattutto le sue parole rivolte all’oste: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno».
«Bisognava trovare il luogo dove aprire il Centro – continua suor Janete -. Visitammo molti posti, ma nessuno rispondeva alle nostre esigenze, finché decidemmo  di sfruttare un vecchio magazzino abbandonato nel territorio dell’Ismma. Quando presentammo il progetto con un artistico power-point al Consiglio permanente delle Conferenze dei religiosi e religiose, i superiori maggiori si sentirono sconcertati di fronte alla prospettiva di una nuova attività del genere, pur condividendo l’urgenza di una risposta al problema dell’Hiv/Aids in Maputo, come conferenza di religiosi, non in forma isolata; le obiezioni furono molte, finché il presidente della conferenza disse che bisognava aprirsi ai nuovi soffi dello Spirito e autorizzò l’uso del magazzino».
La bozza del progetto fu subito spedita a diversi istituti e organizzazioni per chiedere i finanziamenti. Per qualche mese sembrava che non accadesse niente, finché la congregazione delle Mercedarie della Carità promise 10 mila dollari, le Missionarie della Consolata altri 10 mila euro, le suore della Consolazione 16 mila dollari.
Cominciarono subito i restauri del fabbricato e la costruzione di annessi (cucina e chiosco per le refezioni), si comperarono tavoli, sedie e culle per bambini. Altra mobilia, tra cui cucina elettrica, frigorifero e televisore, arrivarono da una Ong in smobilitazione, il resto fu possibile acquistarlo grazie agli aiuti di alcune associazioni spagnole. Il sogno stava diventando realtà.

Primo caso con rodaggio
Il 2 novembre 2007 suor Janete stava recitando il rosario intorno alla chiesa della Polana, in attesa che cominciasse la messa, quando arrivò una ragazza con una scarpa rotta in mano e il viso vergognoso e triste; si avvicinò e, con tono di sfida, le disse chiaro e tondo:
– Suora, aiutami ad abortire.
– Cosa dici, ragazza?
– Sono incinta e l’uomo mi ha abbandonata. Non sono in condizione di avere questo bambino e non voglio che soffra come ho sofferto io.
– Ascoltami bene, ragazza: io ti posso aiutare a tenere il bimbo non a ucciderlo.
– Allora, prenditi cura di me.
«In quel “prenditi cura di me” riconobbi la voce di Dio ricorda suor Janete -. Senza rendermene conto mi ero impegnata con il primo caso di Hakumana».
Carola, così si chiamava la ragazza, 15 anni, era stata abbandonata in un mercato e poi adottata e cresciuta in una famiglia che la usava come serva; scappata da casa, si diede a una vita libertina, finché fuggì con un militare che, quando seppe che era incinta la abbandonò lasciandola senza un soldo.
Suor Janete portò la ragazza nella casa della sua comunità e il giorno seguente le procurò una famiglia cristiana che l’accogliesse e aiutasse nell’evolversi della mateità. Instabile, aggressiva, indipendente, testarda, Carola si rivelò subito un caso complicato: per il suo comportamento cambiò residenza per tre volte; affetta da malattie veneree non voleva farsi curare.
«Accompagnammo la ragazza passo passo nelle sue necessità basilari – continua suor Janete -. Tutti i giorni avevano colloqui per creare familiarità e chiarire la sua storia; una parrocchiana della Polana la orientò in tutto ciò che concee la mateità e a preparare il corredo per il bambino, che venne alla luce il 7 aprile 2008. Dimessa dall’ospedale, accogliemmo Carola e Karol nel nostro centro: era il nostro primogenito».
Carola era senza carta di identità, poiché rifiutava di chiamarsi con il cognome registrato all’anagrafe dai genitori adottivi. Fu registrata nuovamente con il nome di Carola Janete de la Consolata. L’ambiente di Hakumana sembrava l’aiutasse a sognare una vita diversa: partecipò ai corsi di alfabetizzazione nel Centro e, mentre Karol rimaneva ad Hakumana curato dalle «zie», cominciò a frequentare le scuole serali; ma il contatto con altri adolescenti le faceva desiderare una vita di «giovinetta spensierata». Toò a occuparsi del figlio a tempo pieno, provocandogli denutrizione e malattie a causa della sua inesperienza.
«C’era bisogno di un accompagnamento più intenso – racconta suor Janete -. Noi suore ci costituimmo in comunità residente nel Centro e Carola venne col figlio a vivere con noi, imparando a cucinare, ad aver cura del bimbo e di se stessa; imparò soprattutto ad amare e a sentirsi amata».
«Instabile e allergica a ogni regola – continua suor Evelyn -, un giorno Carola ci accusò di volerle rubare il figlio per venderlo fuori del paese. Per fortuna nel nostro gruppo avevamo già una psicologa clinica, suor Herminia, che riuscì a neutralizzare gli impulsi della giovane e farla rientrare nella vita reale. Ma che fatica! Dopo un anno e mezzo di accompagnamento cominciò qualche miglioramento: la vedevamo crescere giorno per giorno nel senso di responsabilità e impegno nella scuola e nell’amore al suo bambino».
«Tutto sommato – conclude suor Janete – il caso di Carola è stato anche per noi un prezioso tirocinio: ci era capitata proprio mentre discutevamo sui alcuni punti del progetto Hakumana da definire, come destinatari, servizi da offrire, metodologia d’azione. Carola fu la prima beneficiata e il primo contesto di applicazione».

Lo stile del samaritano
Scopi e metodi del Centro Hakumana oggi sono tutti ben chiari e definiti. Oltre a promuovere pubblici incontri di informazione e formazione sulle problematiche dell’Hiv/Aids e sul loro impatto sociale, il Centro si occupa soprattutto di persone affette dal virus e dei loro familiari o che si trovano in altre situazioni di vulnerabilità. Per rispondere alle necessità di tali persone, l’équipe del Centro Hakumana è chiamata prima di tutto a un lavoro di discernimento: si analizza caso per caso e si traccia un programma di azione. Generalmente in prima istanza si richiede alloggio, cibo, medicine e appoggio affettivo. Vengono poi avviati processi di orientamento e assistenza sanitaria e psicologica, legale e spirituale, per aiutare le persone a riacquistare autostima e dignità, sviluppare relazioni sociali e reintegrarsi nella comunità. Tutto avviene con molteplici modalità e mezzi: corsi e terapie di gruppo, interviste e colloqui personali, accompagnamento sistematico e visite a domicilio, investigazioni e interscambio di esperienze, attività di terapia occupazionale e mini progetti di autosostentamento, come cucito e artigianato, sostegno con alimenti e medicine.
«Tutti i servizi prestati da Hakumana si ispirano alla mistica della parabola del buon samaritano» spiega suor Janete, mentre indica su una parete del Centro un disegno e una scritta riferiti alla parabola evangelica. E continua: «Il samaritano non perse tempo, ma fece con prontezza quello che doveva fare: curare, rimediare, consolare, proteggere. Utilizza gli elementi alla sua portata per sottrarre il malcapitato dalle grinfie della morte e dall’indifferenza impietosa di chi passò senza fare nulla. L’olio e il vino con cui il samaritano unse le ferite del malcapitato, è per noi il sangue prezioso di Cristo che redime e salva; il lino con cui fu avvolto il corpo è per noi l’amore che ridona forza e rinfranca nelle vicissitudini del cammino della vita».
«L’esperienza di essere “prossimo” spinge il samaritano a “prendersi cura” del malcapitato fino alla completa guarigione – continua suor Evelyn -. Una volta fatta l’esperienza dell’amore tanto inusuale, sollevare il fratello diventa una passione anche per noi; non si può più essere indifferenti. Diventare prossimo dà forza e senso alla nostra vita».
«Nel samaritano è raffigurato Cristo stesso che si avvicina, solleva, cura e conferisce dignità – riprende la meditazione suor Janete -. Nel malcapitato vediamo Gesù che si identifica con tutti i poveri e gli oppressi del mondo: in essi anche noi incontriamo la Sua presenza reale, un sacramento di salvezza».

Locanda e locandiere
«Alcune situazioni complesse e delicate, come quella di Carola – continua suor Evelyn – ci hanno insegnato che Hakumana non poteva contare solo sull’azione di  un “buon samaritano”, ma aveva bisogno anche di un “albergatore”: c’era bisogno di una comunità di riferimento per accogliere e prendersi cura fino in fondo di certi casi estremi».
Nacque così un grande sogno: formare una comunità intercongregazionale: formata, cioè, da religiose di diverse congregazioni, ognuna con la propria specificità, aperta a laici volontari desiderosi di fare esperienza missionaria a servizio dei più emarginati; una comunità con stile di vita in funzione dei destinatari del progetto Hakumana e flessibile alle necessità della persona accolta; una comunità in cui i gesti concreti di amore, servizio, disponibilità, diventano realtà e sfida quotidiana.
Janete, Evelyn e una volontaria affittarono un piccolo appartamento non lontano dall’Ismma, poi si trasferirono nel Centro stesso quando il padrone di casa vendette l’alloggio. «Forse i tempi non erano ancora maturi per tale esperienza – sorride suor Janete -. Diventammo subito oggetto di chiacchiere e calunnie, accusate presso il cardinale di Maputo di dare scandalo, perché non facevamo vita comune con le nostre rispettive comunità. Ritornate nei nostri conventi, abbiamo studiato nuove strategie per continuare i programmi di lavoro del Centro Hakumana, restando fuori del convento per tutto il tempo richiesto per il bene degli utenti del nostro Centro».
Ben presto le critiche si volatilizzarono insieme agli accusatori. La Comunità Hakumana si ricostituì con tutte le approvazioni dei superiori religiosi ed ecclesiali. Grazie agli aiuti arrivati da varie parti, il progetto Hakumana poté essere sviluppato con nuove strutture e nuove iniziative: nel giro di un anno ospiti e servizi furono triplicati.
Attualmente l’équipe di Hakumana è formata da sette persone, cinque religiose e due assistenti sociali laiche. Ogni giorno Hakumana accoglie 60 bambini, una trentina di mamme che accompagnano i loro figli, una decina di uomini, ma non tutti si fermano per la refezione. Durante la settimana passano al Centro un centinaio di persone al giorno per incontri di formazione, colloqui con lo psicologo, assistente sociale e legale, o per cure e assistenza medica.
«La nostra attenzione di “buon samaritano” si estende ai vari quartieri di periferia con visite a domicilio; quando ci arrivano offerte specifiche, comperiamo abitazioni per donne abbandonate e alle prese con miseria e malattie – conclude suor Janete -. Ne abbiamo alcune qui a Maxaqene B, dove vivono 3-4 mamme che cercano di ricostruirsi un futuro per se stesse e per i propri figli».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Normalità cercasi

Elezioni legislative nel paese del cacao

Finalmente il rinnovo del parlamento. Scaduto da 5 anni. Ma i militanti di Gbagbo non ci stanno e boicottano lo scrutinio. Il legislativo risulta così monco, e rappresenta solo metà degli ivoriani. Reportage della nostra inviata.

Un anno fa la Costa d’Avorio era nel mezzo di una violenta guerra civile, scoppiata come crisi post elettorale ma con radici antiche di oltre un decennio e risultato di un travagliato percorso politico (vedi MC Febbraio 2011). Si parlava di Republique du Golf perché il presidente Alassane Ouattara, legittimamente eletto al secondo tuo delle elezioni presidenziali svoltesi il 28 novembre 2010, aveva trasformato l’Hotel Golf nel suo quartier generale. L’Hotel, in passato il più lussuoso di Abidjan, era protetto dalle forze militari delle Nazioni Unite e dai soldati francesi contro gli attacchi delle milizie pro Gbagbo, il Presidente uscente che, non accettando il verdetto delle ue, si era autoproclamato vincitore. La crisi è durata cinque mesi, durante i quali il paese è rimasto paralizzato; le vittime ufficiali sono state 3.000 e gli sfollati oltre 100.000; l’economia, già in stallo, ha sofferto danni incalcolabili, e gli ivoriani, non riescono a dimenticare l’incubo vissuto.

Violenza, odio, follia
Abullay, autista e residente di Abobo, uno dei quartieri popolari di Abidjan più coinvolti negli scontri, ci descrive le atrocità e l’orrore di quei mesi. «Mai in vita mia e in questo paese avevo osservato tanta violenza, tanto odio, tanta follia. E per quale motivo? Qualcuno me lo spieghi per favore, perché io non capisco». La voce di Abullay fa eco a quella di tanti altri ivoriani, di ogni classe, etnia, religione e in ogni angolo della Costa d’Avorio. L’orrore della guerra tra le milizie delle Forze Nuove (Fn), in difesa del presidente Ouattara, e l’esercito controllato dell’ex presidente Laurent Gbagbo, ha provocato uno shock che la gente non ha ancora superato, specie a distanza di un periodo così breve.
Oggi il problema sicurezza è tra i più sentiti e costituisce una priorità per il futuro governo del paese. Le armi distribuite durante la crisi non sono ancora state deposte e sono nelle mani dei civili che, non sapendo più a che fazione obbedire, si sono semplicemente trasformati in banditi, e attaccano camion carichi di cacao, rubano e spargono terrore. A livello di forze dell’ordine, quelli che prima erano chiamati ribelli ora costituiscono le Forze Repubblicane della Costa d’Avorio (Frci) e dovrebbero essere i garanti della sicurezza.  Polizia e Gendarmerie sono parzialmente inoperative per i danni subiti nella guerra e perché prive di armi, anche a causa dell’embargo ancora in vigore. Alcuni giovani soldati Frci ci spiegano che non ricevono un salario da mesi, vivono in hotel o edifici che avevano occupato nella loro discesa dal Nord e spesso si rivolgono alla popolazione locale per ricevere cibo, tabacco e denaro; in cambio, dicono, garantiscono la protezione. Il ministro Achi Patrik, deputato Pdci (Partito Democratico della Costa d’Avorio, guidato dall’ex presidente Henri Konan Bedié) eletto nella circoscrizione di Adzopè (Regione dell’Agneby) ammette la gravità del problema: «Ci sono oltre 26.000 militari, un tempo membri delle Forze Nuove e delle Forze di Difesa e Sicurezza (Fds), queste ultime fedeli a Gbagbo, che oggi devono essere reintegrati nella società. Nelle neonate Frci convivono con difficoltà i due gruppi armati (i membri delle ex Fn sono maggioritari), e spesso mancano di formazione, di inquadramento, di disciplina. Inoltre, la quantità di armi ancora in circolazione è elevatissima; la sicurezza resta una bomba pronta ad esplodere in ogni momento».

Armi e manipolazione
Il capo villaggio di Akoupè, zona Est del paese, cuore della resistenza di Gbagbo, risponde all’interrogativo di Abullay: «Il popolo della Costa d’Avorio è pacifico, ma quando entra in gioco la politica, tutto si trasforma. Fratelli, cugini che aderiscono a fazioni opposte diventano nemici, l’odio e l’irrazionalità prevalgono su ogni etica di fratellanza e solidarietà. Nella nostra regione la popolazione è principalmente contadina e in maggioranza analfabeta. I leader politici hanno manipolato questa gente per oltre dieci anni con argomenti di propaganda e promesse fasulle, come la possibilità di definire il prezzo del cacao, che in realtà dipende dal mercato internazionale. Le armi sono state distribuite e la miccia della rivalità etnica innescata».
L’11 dicembre 2011 gli ivoriani sono stati chiamati nuovamente alle ue, questa volta per eleggere 255 deputati dell’Assemblea Nazionale (il Parlamento unicamerale). Le ultime elezioni legislative si erano svolte nel 2000 e gli eletti avrebbero dovuto avere un mandato di cinque anni ma, a causa della duratura crisi politica, sono rimasti in carica per oltre dieci anni con una legittimità precaria e un’operatività limitata.
Le elezioni del 2011 sono definite di «uscita dalla crisi» e vengono convocate e organizzate in tutta fretta dal governo Ouattara. Il Fronte Popolare Ivoriano (Fpi), partito di Gbagbo, decide di non partecipare perché le condizioni richieste non vengono accolte: il Fpi richiede la liberazione dell’ex presidente e il rientro di tutti gli altri leader esiliati; lo scongelamento dei conti del partito e una ricomposizione più equilibrata della Commissione Elettorale Indipendente (Cei). Gbagbo è invece estradato e portato all’Aia, il 29 novembre, per comparire davanti alla Corte penale internazionale. Il sabotaggio elettorale del Fpi è tema di discussione costante: alcuni membri del partito decidono di candidarsi comunque sotto il titolo di Indipendenti ma la maggior parte dei fedeli di Gbagbo obbedisce alle istruzioni e si auto esclude dal processo elettorale. In varie zone del paese il partito, a poche ore dal voto, invia sms invitando a non andare a votare, e a elezioni concluse ne chiede l’annullamento, definendo tutto il processo una mascarade (mascherata).

Parlamento monocolore
Il prefetto di Affery è convinto che il Fpi stia commettendo un grave errore, di cui si pentirà. «I militanti dell’ex presidente non hanno capito che dovranno aspettare altri cinque anni per rientrare nell’Assemblea Nazionale; e in questo periodo non avranno voce, non ci sarà vera opposizione né contropotere a quello presidenziale».
Di parere opposto madame Goman, quadro storico Fpi: «Queste elezioni sono una vergogna e faranno indietreggiare il paese di dieci anni. Come è possibile che il nostro presidente, che nel primo tuo delle presidenziali ha ottenuto il 40% dei voti, sia trattato in questo modo, estradato e giudicato da quella comunità internazionale che ha sempre fatto gli interessi della Francia e non degli ivoriani?».
I preparativi delle elezioni legislative da parte della Cei si svolgono in modo abbastanza regolare, malgrado i dubbi sulla composizione altamente politicizzata della Commissione; la campagna elettorale ufficialmente dura una settimana ma ogni candidato aveva avviato una strategia pre-campagna «classica». Il direttore di campagna ministro Bictogo, eletto deputato nella circoscrizione di Agboville per il partito di Ouattara Rdr (Rassemblement des Républicains), ci spiega che la pre-campagna consiste nel porta a porta, ovvero nel visitare tutti i capi villaggio, le associazioni di giovani, di donne, di religiosi, per spiegare il programma del candidato. Inoltre, e questo non ci viene detto ma risulta chiaro dall’osservazione sul terreno, ogni candidato lascia doni tangibili della propria generosità. Sedie, teloni in plastica, kit scolastici, pompe idriche, derrate alimentari, biciclette, ma anche semplicemente soldi sotto forma di micro finanziamenti per i vari gruppi.
A campagna ufficialmente iniziata la corsa elettorale diventa estremamente visibile: i comizi variano di grandezza in base ai fondi del candidato e nella loro sontuosità includono performance di artisti, riti di autorità tradizionali, tanta musica e striscioni. In generale i discorsi ufficiali accennano in modo pacato a temi etnici e religiosi ma non incitano alla violenza, anzi, invitano alla riconciliazione e alla pace. Si distribuiscono t-shirt e si organizzano rumorose carovane di moto e auto cariche di gente che urla eccitata: la regola sembra dire che vince chi fa più rumore e chi fa più «regali». Alcuni candidati hanno pianificato tutto da tempo e con astuzia, come Nando Martin (eletto nella circoscrizione 01), che alcuni anni fa aveva fondato una Ong, e adesso durante la campagna utilizza i risultati dei suoi progetti di sviluppo per mettere in mostra quanto le priorità della popolazione gli stiano a cuore; addirittura, durante il giorno del voto, i suoi collaboratori, distribuiscono cibo agli scrutatori in tutti i seggi. 

Elezioni pacifiche
Le dichiarazioni delle varie missioni di osservazione elettorale, tra cui l’Unione Africana e il Carter Center, sono tutte dello stesso tono. Un voto pacifico e senza incidenti vistosi, ma con un’affluenza alle ue debole, un’educazione elettorale inesistente e alcuni vistosi casi di uso di risorse pubbliche da parte di candidati che ricoprono funzioni governative. Il tasso di partecipazione, a conteggi ultimati, è del 36% e non sembra così disastroso se si pensa che è di tre punti percentuali più elevato di quello delle elezioni del 2000. In Costa d’Avorio, così come in generale nella regione dell’Africa dell’Ovest, l’interesse della popolazione verso le elezioni legislative è ridotto rispetto a quelle presidenziali. Se si aggiunge al boicottaggio del Fpi il clima di terrore che ha regnato nel paese fino a pochi mesi fa, non stupisce che la gente non sia andata a votare in massa. I risultati finali, piuttosto prevedibili, assegnano la maggioranza di deputati al partito Rdr, seguito dal Pdci.
L’alto numero di ministri eletti, tra cui il primo ministro Guillaume Soro, leader delle Forze Nuove, fa riflettere; i deputati, infatti, possono godere dell’immunità parlamentare e rimanere «intoccabili» dai giudici ivoriani, malgrado siano stati responsabili di crimini durante la guerra. Inoltre, una volta eletti, sceglieranno comunque la carica ministeriale, lasciando la poltrona della deputazione ai loro supplenti, ma l’immunità resterà in vigore. Il tema della giustizia è un altro argomento delicato nell’attuale contesto ivoriano. Antornine, anziano leader di opinione, oggi membro di un comitato di saggi per la riconciliazione nel comune di Agboville, spiega: «Le atrocità sono state commesse da entrambe le parti rivali del conflitto. Uccisioni, stupri, violazioni dei diritti umani: tutti hanno le mani sporche di sangue. Perché solo i responsabili Fpi e Gbagbo devono essere giudicati e imprigionati? La giustizia dovrebbe essere universale, e invece, in Costa d’Avorio è la giustizia del vincitore che prevale. Il rischio è di produrre nuovi antagonismi, di andare avanti su ferite non chiuse, che bruciano, e che prima o poi, porteranno a nuova violenza». 
Il frettoloso trasferimento di Gbagbo alla Corte Penale Internazionale dell’Aia, dove sarà processato per crimini contro l’umanità, non è arrivato al momento giusto: è avvenuto, infatti, a due settimane dalle elezioni e pochi giorni dopo un incontro informale tra il procuratore capo Ocampo e Ouattara nella residenza privata dello stesso Ouattara a Parigi. Tale evento ha suscitato perplessità legittime e incrementato il senso di sfiducia di molti ivoriani verso la comunità internazionale.
Malgrado un processo elettorale pacifico e piuttosto trasparente, la strada per la riconciliazione e la pace in Costa d’Avorio è ancora in salita. Riprendendo le parole del saggio Antornine: «Bisogna perdonare. Bisogna sedersi insieme e parlare. Non bisogna condannare, non ora. La ripresa economica sarà il principale mezzo per ristabilire la normalità: la gente affamata e diseducata è il bersaglio più facile delle manipolazioni politiche. Ora è tempo di costruire scuole, di creare posti di lavoro, riavviare il commercio del cacao e di cercare di dimenticare la paura».

Ermina Martini

Ermina Martini




Voci dal Congo

Qui Kinshasa

Il presidente uscente vince al primo tuo e si proietta verso il secondo mandato di 5 anni. Ma i disordini non mancano. La gente, però, sceglie pace e stabilità.

Kinshasa è famosa per il gran numero di persone che camminano per strada. I quartieri di Masina e Kingasani sono conosciuti come «Cina Popolare» per la quantità di gente che c’è ovunque. Attraversare la strada diventa un’esperienza nella quale occorre combinare audacia, rapidità e prudenza. La capitale ha quasi 10 milioni di abitanti ed è molto estesa, perché pochi sono gli edifici a più piani.
A partire dal 28 novembre e fino a metà dicembre, tutto era diverso. Il giorno delle elezioni non si vedeva circolare quasi nessun veicolo. Dei taxi, imprescindibili per spostarsi in città, neanche l’ombra.
Quel giorno ho fatto un giro e ho inconrato gente piuttosto disorientata. Nella tessera elettorale c’era il nome del collegio, ma quando vi arrivavano lo trovavano chiuso e dovevano recarsi altrove. I commenti erano: «Vogliono ubriacarci affinché non votiamo», «Dove dobbiamo andare?», «Sicuro che hanno trasferito anche il mio nome?». Alcune persone hanno passato più di quattro ore cercando il proprio collegio elettorale, finché hanno potuto votare.
Altri non hanno avuto questa fortuna. Trovato il seggio, il loro nome non era sulla lista e hanno dovuto tornare a casa stanchi e arrabbiati con il sentimento di essere stati presi in giro.
Sabato, il giorno della chiusura della campagna elettorale, è stato un giorno difficile. I tre maggiori candidati dovevano fare il comizio finale, ma nessuno ha potuto farlo. Ci sono stati scontri tra i diversi gruppi di sostenitori, e la polizia li ha repressi brutalmente. Carine, un’amica mi ha chiamato al telefono per sapere la situazione dalla nostra parte della città. Le ho detto che era tutto tranquillo. Lei invece era sdraiata a terra da oltre due ore, vicino a sua madre e a sua sorella maggiore, perché si sentivano diversi spari nelle vicinanze e c’era il rischio che proiettili vaganti entrassero in casa. La settimana dopo le elezioni le scuole continuavano a essere chiuse e c’erano pochissimi mezzi e taxi in circolazione. Si viveva una calma tesa. Tutti stavano aspettando che accadesse qualcosa di strano in un qualsiasi momento. 
Il sabato alcuni bambini sono venuti a trovarci a casa. È stata una sorpresa perché era quasi una settimana che nessuno veniva a visitarci. Non ne potevano più di stare in casa. Erano già due settimane che non avevano corsi e non sapevano cosa fare. Questo mi ha fatto pensare al ritardo scolastico che può comportare una situazione come questa. Parlando di guerre e conflitti si contano le vittime e i feriti, i danni materiali, ma non si parla dei bambini che non possono andare a scuola o degli universitari che, pur avendo pagato le tasse, perdono l’anno.  

I giorni passavano e la Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) ha iniziato a rendere pubblici risultati parziali. Si sentiva in giro un’aria di delusione. Molti congolesi avevano l’impressione che li stessero ingannando e prendendo in giro. Erano disillusi. Si sentivano commenti del tipo: «Hanno riso di noi. Non andrò mai più a votare in vita mia». La gente aveva fatto molti sforzi per ottenere la tessera elettorale. E questa è una città dove si vive giorno per giorno, non si ha l’opportunità di economizzare, non ci si può permettere il lusso di passare due giorni in coda.

Finalmente è arrivato il 14 dicembre, il giorno della proclamazione dei risultati provvisori. Era venerdì. La città era completamente deserta e io tornavo dal lavoro alle due del pomeriggio. Un percorso che faccio normalmente in oltre un’ora non mi ha preso più di dieci minuti. Arrivato a casa, trovai tutta la comunità del Teologato davanti alla Tv. L’annuncio era imminente. Iniziarono alle tre a trasmettere i risultati con discorsi interminabili, che facevano anche riferimento a «Dio onnipotente». I risultati venivano scanditi per regione secondo il numero di voti di ogni candidato. Oltre un’ora per arrivare ai totali. Incredibile!
È stato ancora più incredibile constatare quello che si temeva, confermato dalla Ceni: una differenza di tre milioni di voti tra Kabila e Tshisekedi. Nelle province in cui Kabila aveva vinto, la percentuale di partecipazione si avvicinava … al 95%! Per evitare disordini, l’esercito e la guardia repubblicana avevano isolato le zone strategiche della città. Sembrava di vivere in uno stato di assedio. C’erano blindati a lato delle strade e autobotti che sparavano acqua calda dove si riuniva un gruppo numeroso.  I tentativi di manifestazione erano repressi immediatamente. Il governo aveva anche impedito la trasmissione di sms. Così per oltre un mese nessuno in Rdc ha potuto inviare messaggi, si potevano solo ricevere dall’estero. Tutto questo per ostacolare la capacità di convocazione di manifestazioni, visto che c’è poca gente collegata quotidianamente a Inteet e usare i social network era difficile.
Altro dato significativo: Kabila non ha convocato neppure i suoi sostenitori per ringraziarli del loro appoggio durante il processo elettorale.
Tutti hanno manifestato disaccordo con le irregolarità dello scrutinio: i candidati, i partiti politici, la società civile, la chiesa cattolica, la comunità internazionale.
C’era un’aria di tristezza in tutta la città. Anche se Tshisekedi non avesse vinto le elezioni in tutto il paese, però certo, era chiaro che Kabila non avesse vinto con la differenza che mostravano i risultati finali.
Eravamo ormai alla vigilia di Natale, ma devo riconoscere che quest’anno non c’era un clima di festa e nemmeno il desiderio di farsi gli auguri per il nuovo anno. Se si facevano gli auguri a qualcuno, questi ti guardava in faccia come per dire: «Lo dici sul serio o stai prendendomi in giro?».

Ramón Lázaro Esnaola

 

Ramón Lázaro Esnaola




Scomparsi due milioni di voti

Elezioni presidenziali e legislative insanguinate

Almeno 18 morti, oltre 100 feriti gravi, guerriglia urbana in capitale. Questo il terribile bilancio delle elezioni
nel paese più ricco di minerali dell’Africa. E Joseph Kabila, dopo 11 anni di regno incontrastato, è confermato presidente. Ma c’è chi parla di «colpo di stato elettorale».

All’alba del 2012 la Repubblica Democratica del Congo si trova con un «nuovo» presidente. Quel Joseph Kabila che aveva preso il potere il 26 gennaio del 2001, alla morte del padre Laurent Desiré, e non lo ha mai mollato.
Ma le elezioni di novembre scorso sono state tutt’altro che trasparenti e regolari. E per di più macchiate di sangue.

Antefatti
I primi segnali scoraggianti appaiono all’inizio del 2011, quando la coalizione di maggioranza modifica la Costituzione da pochi anni in vigore, optando per il tuo unico anziché il doppio tuo nelle presidenziali, con la motivazione del notevole risparmio economico. Evitare il ballottaggio ha di certo favorito il presidente uscente Joseph Kabila (eletto nel 2006 nelle prime elezioni democratiche dopo quarant’anni), forte del suo ruolo, degli appoggi istituzionali, del sostegno dell’esercito e soprattutto degli enormi mezzi finanziari dispiegati in campagna elettorale.
Altra mossa ben studiata, nei mesi prima del voto, è la gestione del cosiddetto enrôlement, la registrazione degli aventi diritto al voto: da più parti piovono denunce di persone a cui è stata negata la tessera elettorale, di altre cui è stato chiesto in cambio del denaro, di altre ammesse al voto pur senza possedee i requisiti. A giugno, la Fondazione Bill Clinton denuncia la registrazione di minori a Kinshasa, chiedendo alla Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) – che gestisce tutto il processo elettorale – di riportare la legalità e anche di pagare regolarmente gli agenti deputati all’enrôlement. Così non è stato. Chi scrive è testimone diretta di alcuni di questi accadimenti nella provincia del Nord Kivu, in luglio: persone infuriate per non essersi potute registrare, altre perché all’atto dell’iscrizione erano stati chiesti loro dei soldi da funzionari della Ceni che non percepivano stipendio, altre ancora parlano di gente ammessa senza avere la nazionalità.
La tensione va rapidamente aumentando in tutto il paese, in particolare nella capitale.
Il 5 settembre, lo storico oppositore Etienne Tshisekedi annuncia ufficialmente la sua candidatura in rappresentanza di un’ampia coalizione di partiti. Ne seguono incidenti tra accoliti del suo partito, l’Udps (Unione per la democrazia e il progresso sociale), e quelli del partito presidenziale, il Pprd (Partito del popolo per la ricostruzione e la democrazia). Il giorno seguente la polizia disperde i manifestanti del Pprd che protestano, uccidendone uno e ferendone altri. Per una settimana, a Kinshasa, vengono vietate tutte le manifestazioni.
Nei giorni seguenti, arrivano le altre candidature alla presidenza, undici in totale: tra gli altri, Vital Kamerhe, ex presidente dell’Assemblea Nazionale (dimessosi per protesta contro l’operazione militare Umoja Wetu voluta da Kabila nel 2009 che aveva consentito alle truppe ruandesi l’ingresso nel paese); Kengo Wa Dondo, presidente del senato; Nzanga Mobutu, figlio dell’ex despota Mobuto Sese Seko.

Popolazione «lievitata»
Concluse a luglio le operazioni di enrôlement, inizia il controllo degli elenchi elettorali, con alcune sorprese, come l’aumento del 25% degli iscritti (superiore alla crescita demografica del Paese), concentrato in particolare nelle regioni favorevoli a Kabila. Negli stessi giorni, circola a Kinshasa un documento riservato della società belga Zetes, incaricata dal governo congolese del rilascio delle tessere elettorali biometriche (controllo dell’impronta digitale): il testo contiene i risultati della verifica effettuata sui doppioni presenti nei database dei votanti e certifica la presenza di un altissimo numero di persone registrate due volte: in particolare, oltre il 13% nella provincia del Bandundu (278.039 elettori), il 12% nell’Equateur. Numeri fortemente discordanti con quelli ufficiali foiti dalla Ceni, che parla di un totale di 119mila doppioni. Tra questi, i peggiori sono i cosiddetti «doppioni binari», ovvero persone con foto e impronte digitali identiche, ma dati anagrafici differenti. Secondo Zetes, ciò «porta a pensare che si tratti di una manipolazione effettuata direttamente nella banca dati del computer usato per l’iscrizione degli elettori»: una vera e propria frode. A seguito della fuga di notizie, la Zetes interviene sul quotidiano congolese Le Potentiel, che diffonde la notizia, asserendo che non è possibile manipolare il database informatico senza lasciare tracce evidenti: secondo loro, i doppioni sarebbero stati generati alla base, da persone che avrebbero chiesto due volte il documento o per errori di trascrizione del nome, o per cambiare una foto non gradita, o per godere dei vantaggi del possesso di due tessere elettorali.
Non da ultimo, con l’avvicinarsi della giornata del voto, emergono sempre più chiari anche i problemi logistici: la difficoltà di avere il materiale in tempo, dalle ue alle schede stampate, fino alla complicata distribuzione del tutto in un paese enorme e senza infrastrutture. Nel 2006, molto di questo lavoro era stato svolto dalla missione Onu in Congo, l’allora Monuc (che ha ora cambiato il nome in Monusco), con il notevole sostegno economico di molte realtà inteazionali, tra cui in primis l’Unione Europea: tutte istituzioni che stavolta si sono tenute un passo indietro, contribuendo il minimo necessario e restando il più possibile sotto tono.
E anche qui si sente puzzo di brogli: alcuni candidati del Bandundu, a inizio novembre, denunciano che nell’elenco delle sedi elettorali appena pubblicato dalla Ceni compaiono località inesistenti; da varie parti si levano proteste per la distribuzione dei seggi, come nei distretti dell’Ituri e dell’Haut Uélé, dove la soppressione di varie postazioni di voto penalizzerebbe in particolare la popolazione pigmea. Secondo la denuncia circostanziata di un candidato alle legislative del Kasai Orientale, altri seggi sarebbero localizzati addirittura dentro le abitazioni private di candidati, in particolare del Pprd di Kabila. Kinshasa non è da meno: qui molte persone non riuscirebbero a trovare il proprio seggio per errori nella cartografia e indirizzi errati o non aggioati; varie scuole disporrebbero di un numero di seggi molto inferiore a quello indicato. La Ceni si giustifica spiegando che nella maggior parte dei casi si tratta di seggi operativi nel 2006 in edifici scolastici che hanno poi cambiato destinazione d’uso e dispone l’invio di tende.
Tante e tali anomalie prestano il fianco a denunce dai toni accesi da parte dell’Udps, che parla di elezioni-farsa, già decise con un «colpo di stato elettorale» della Ceni e del partito al potere.

Campagna disastrosa
A ridosso del voto, ecco le irregolarità nella campagna elettorale, aperta ufficialmente il 28 ottobre: da subito, in varie località del paese si registrano scontri tra le varie fazioni e manifestazioni violente o represse in modo violento; i manifesti elettorali sono affissi un po’ ovunque, anche nei luoghi apertamente vietati.
Il 9 novembre a Vital Kamerhe viene violentemente impedito da un gruppo di giovani del Pprd di raggiungere la città di Kikwit, nel Bandundu. Lo stesso Etienne Tshisekedi è più volte bloccato nei suoi spostamenti, come quando le autorità gli negano l’autorizzazione all’atterraggio al rientro dal Sudafrica. Dal canto suo, Tshisekedi non brilla per correttezza istituzionale: il 6 novembre, durante un’intervista telefonica alla Radio Televisione Lisanga (Rltv) rilasciata proprio dal Sudafrica dov’è bloccato, dichiara senza mezzi termini: «La maggioranza di questo paese è con noi. Potete, quindi, considerarmi Presidente della Repubblica». Dopo aver lanciato al governo un ultimatum di 48 ore per liberare i suoi sostenitori arrestati durante le manifestazioni, aggiunge: «Alla scadenza dell’ultimatum, chiederò alla popolazione di attaccare le carceri e di liberarli e, come presidente, ordino alle guardie delle prigioni di non opporre loro resistenza». Dopo l’intervista, il governo interrompe il segnale di Rltv per otto giorni.
Le irregolarità non riguardano solo i candidati alle presidenziali. Alle legislative vengono ammesse candidature in violazione alle norme vigenti, ad esempio quelle di magistrati, membri del governo, responsabili della pubblica amministrazione senza che abbiano presentato le dimissioni dai precedenti incarichi, come richiesto dalla legge. Come se non bastasse, tanti di loro sarebbero ricorsi ai soldi pubblici per finanziare la propria campagna elettorale. Oltre venti ministri si danno alla propaganda, lasciando vacante il loro posto e giacenti montagne di pratiche: così, il ministro degli affari catastali assume una dozzina di interim, pur essendo lui stesso candidato.
Human Rights Watch intanto denuncia un ricorso massiccio a discorsi incitanti all’odio e alla discriminazione etnica, sia da parte dei candidati che dei loro fans, in particolare nell’Est del paese e nel Katanga. Il 9 novembre, il Comitato congiunto delle Nazioni Unite per i Diritti Umani deplora in un rapporto gli atti di violenza, le violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali legate al voto. Oltre ai numerosi casi di intimidazioni verso i sostenitori dell’opposizione, si registrano minacce di morte contro i difensori dei diritti umani.
Un’altra denuncia circola da più parti nelle settimane immediatamente precedenti il voto: molta gente starebbe vendendo la propria tessera elettorale in cambio di soldi.

Scontri a Kinshasa
I giorni di fine campagna elettorale sono tesissimi. A Kinshasa, il 26 novembre, ultimo giorno prima del silenzio elettorale, sono previsti i comizi conclusivi dei tre principali candidati, Kabila, Tshisekedi e Kamerhe. I loro sostenitori si sono riuniti nei luoghi assegnati (molto vicini gli uni agli altri), dando il via a scontri tra fazioni, che provocano un morto e moltissimi feriti. Il governatore decide di annullare tutti i raduni previsti, «per preservare l’ordine e la pace sociale». A Tshisekedi, di ritorno dal Bas-Congo, viene negata l’autorizzazione ad atterrare a N’Ddjili, l’aeroporto principale di Kinshasa, dove è atteso dalla folla. Dirottato al piccolo aerodromo di N’Dolo. Di qui, incurante dei divieti, si dirige verso i suoi fans a N’Djili, attraversando la città in piedi su una vettura decapottabile, ma viene fermato dalla polizia e trattenuto fino allo scadere della mezzanotte, ora di chiusura della campagna elettorale. La mattina dopo, giorno di silenzio elettorale, Tshisekedi convoca ugualmente per il pomeriggio i suoi sostenitori per il comizio finale allo stadio. Ma gli unici presenti sono un gran numero di poliziotti in tenuta antisommossa.

Difficile voto
A due giorni dal voto, molti seggi non hanno ancora ricevuto il materiale elettorale, essendo molti aerei bloccati dal maltempo. Ciò ne provoca l’apertura tardiva, il 28 novembre.
Alla disorganizzazione e alla confusione si aggiungono, in alcune zone del paese, atti di violenza, il più grave dei quali a Lubumbashi, con tre morti; in alcune zone del Kasai, la popolazione è furiosa perché sulle schede manca il n. 11, proprio Tshisekedi: un «problema di stampa», secondo la Ceni. Da Bukavu, sud Kivu, arriva la denuncia che le frontiere col Rwanda son rimaste aperte fino alle 22 (con un massiccio afflusso di persone), mentre per legge andavano chiuse due giorni prima. In varie parti del paese, ci sono notizie di scatoloni colmi di schede già precompilate.
A causa del caos in alcune zone rimaste senza materiale elettorale, la Ceni decide di prolungare le operazioni di voto di un giorno, ma solo nei seggi dove si sono verificate carenze di materiale.
Tali ritardi sommati a mille altre difficoltà costringono a posticipare l’annuncio dei risultati delle presidenziali, previsto per il 6 dicembre. Nel frattempo avvengono fughe di notizie, risultati parziali non ufficiali e accuse da entrambe le parti. Il 2 dicembre, il ministro dell’interno sospende in tutto il paese e fino a nuovo ordine il servizio di sms «per evitare la diffusione di falsi risultati». Il blocco  verrà revocato solo il 28 dicembre (con la raccomandazione agli operatori telefonici di identificare tutti gli abbonati «per agevolare il governo nel prendere decisioni in materia di ordine pubblico»), costituendo un unicum mondiale denunciato da Reporters sans frontières.

Tre milioni di preferenze
I risultati provvisori completi, pubblicati dalla Ceni il 9 dicembre, non lasciano adito a dubbi: Joseph Kabila 48,95%, Tshisekedi 32,33%. Tre milioni di voti di differenza, 58,81% l’affluenza alle ue.
Tshisekedi reagisce immediatamente: «Abbiamo dei verbali elettorali in cui risulta che ho vinto io e di gran lunga. Ho ottenuto il 54% dei voti contro il 26% di Kabila. Perciò mi considero ormai come un presidente eletto della Repubblica Democratica del Congo. Vi ringrazio per la fiducia che mi avete sempre dimostrato e vi chiedo di mantenere la calma».
Il Congo si ritrova con due presidenti.
Il 16 dicembre, rispondendo al ricorso presentato da Vital Kamerhe, la Corte Suprema di Giustizia accoglie la forma, ma ne rigetta la sostanza, ratificando dunque il risultato del voto.
Il 20 dicembre, Joseph Kabila presta giuramento come presidente eletto: dei capi di stato invitati, è presente solo il discusso presidente Mugabe. Gli altri inviano primi ministri, ministri o ambasciatori.

Osservatori sconcertati
Le prime perplessità emergono da subito: la missione mista di osservazione Aeta (Agire per elezioni trasparenti e pacifiche) e Eurac (Rete Europea per l’Africa Centrale), già la sera del 28 novembre diffonde un comunicato stampa in cui, pur elogiando gli sforzi degli agenti elettorali, evidenzia i molti problemi riscontrati.
Ma è nei giorni successivi che si comincia a rendersi conto della misura (enorme) di brogli e irregolarità. Nel Katanga e nel Bandundu, due delle regioni filo-Kabiliste, i dati lasciano quanto meno perplessi: in Katanga risulta aver votato quasi il 70% degli aventi diritto, 11 punti sopra la media nazionale, e Kabila ha un 89% di preferenze, contro un misero 7% di Tshisekedi, 221mila voti. Cifre non credibili, secondo gli osservatori, poiché nella regione vivono almeno 800mila persone originarie del Kasai, notoriamente sostenitori di Tshisekedi.
Per contro, proprio nel feudo di «Tshi-Tshi», risultano aver votato poco più del 50% degli aventi diritto e il 16% dei verbali dei seggi sono introvabili. Lo stesso è avvenuto a Kinshasa, dove fortissima è l’opposizione a Kabila: quasi 2mila seggi (per 350mila voti) hanno «smarrito» i verbali.
Il primo dicembre, è la missione di osservazione dell’Ue a parlare di varie irregolarità, tra cui l’intercettazione di schede già compilate, ue non sigillate, voto di minori, segreto del voto non garantito. Il rapporto sostiene che le elezioni non siano state trasparenti a nessuno stadio del processo: evidenzia che molti dei risultati dei bureaux de vote resi pubblici la sera dello spoglio, affissi alle porte e consultati dagli osservatori europei sul campo – in particolare a Lubumbashi – non corrispondono a quelli in seguito pubblicati dalla Ceni; evidenzia poi come i témoins congolesi e gli osservatori inteazionali non abbiano avuto accesso al Centre National de traitement, dove venivano raccolti i dati che confluivano da tutto il paese. Quanto alla par condicio – si sottolinea nel testo -, la tv nazionale ha dedicato l’86% degli interventi a Kabila, l’8% a Kengo Wa Dondo, il 3% a Kamerhe e solo l’1% a Tshisekedi. Non solo: i risultati delle ue vanno per legge convalidati dalla Corte Suprema. Ma la missione Ue ne mette in discussione l’autorità, dopo che Kabila, in piena campagna elettorale, ne ha nominato 18 nuovi membri.
Il bilancio dei due giorni di voto stilato da Human Rights Watch è preoccupante: 18 morti – di cui 14 nella capitale – e un centinaio di feriti gravi, causati per la maggior parte dalla Guardia Repubblicana (ex guardia presidenziale).
Il 10 dicembre, è la volta del dossier del Centro Carter: la compilazione dei risultati del voto non è credibile. «In varie zone del Katanga si sono registrati tassi di partecipazione che vanno dal 99 al 100%, cosa impossibile, e tutti i voti, o quasi tutti, sono andati a Kabila». L’ente cita, ad esempio, il caso della circoscrizione di Malemba Nkulu in cui, con 493 seggi e un tasso di partecipazione del 99,46%, Kabila ha ottenuto il 100% dei voti.
Il numero più alto di osservatori sul terreno era però quello predisposto dalla Chiesa cattolica nazionale, che in vista del voto aveva formato 30mila persone. Ed è anche in base ai loro rilievi che il 12 dicembre, in una dichiarazione alla stampa, l’arcivescovo di Kinshasa Monsengwo ha affermato che i risultati pubblicati dalla Ceni «non sono conformi né alla verità, né alla giustizia».
A metà gennaio, dopo un’assemblea plenaria straordinaria, la Conferenza episcopale congolese (Cenco) ha diffuso un messaggio dal titolo «Il coraggio della verità», nel quale ribadisce che ciò che è accaduto è «inaccettabile. È un’onta per il nostro paese». E prosegue: «Riteniamo che il processo elettorale sia stato inficiato da gravi irregolarità che rimettono in questione la credibilità dei risultati pubblicati».

Libertà «condizionate»
Poco alla volta, anche le grandi potenze prendono coraggio, pronunciandosi in maniera ufficiale: il 14 dicembre, il Dipartimento di Stato americano parla di «gravi irregolarità»; dopo la convalida del voto da parte della Corte Suprema, l’Unione Europea manifesta preoccupazione, minacciando di rivedere il proprio sostegno alla Rdc, e il segretario di Stato Usa Hillary Clinton esprime «profonda delusione»; rammarico anche dal ministro degli esteri belga.
Il 28 dicembre, l’associazione Joualiste en danger denuncia 160 violazioni della libertà di stampa nel 2011, di cui la metà durante il periodo elettorale, concentrate tra ottobre e dicembre. Nel 2010, i casi erano stati la metà. Jed denuncia anche la «frenesia propagandistica» in cui molti dei media congolesi sono caduti nel periodo elettorale, in particolare quelli pubblici.
Ad alcuni casi clamorosi (sospensione di Radio France Inteational e Radio Veritas), che hanno sollevato proteste inteazionali, si sommano le tante intimidazioni e vessazioni alla stampa locale.
Di fronte alle contestazioni circostanziate e documentate, il presidente della Ceni, Daniel Ngoy Mulunda,  ammette candidamente: «Sì, 1.375.000 voti sono andati persi, è vero, ma siccome Joseph Kabila precede Etienne Tshisekedi di oltre 3 milioni di voti, ciò non cambia il risultato». Riguardo allo scarso tasso di partecipazione al voto nel Kasai, Mulunda spiega che la colpa è da attribuire agli attacchi ai seggi elettorali che si sono verificati il giorno del voto. D’altro canto, l’altissima partecipazione al voto nei territori favorevoli a Kabila si spiegherebbe, secondo lui, con la buona organizzazione dei sostenitori del presidente.

Giusy Baioni

Giusy Baioni




Attenzione contro indifferenza

Il messaggio quaresimale del Papa è finalmente arrivato, anche se all’ultimo minuto, pochi
giorni prima della Quaresima. Il tema è preso dalla lettera agli Ebrei (10,24): «Prestiamo attenzione
gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone». Tre i punti
sottolineati: l’attenzione contro l’indifferenza, la reciprocità contro l’individualismo materialista,
lo stimolo al bene contro l’appiattimento e la mancanza di speranza.
Sono parole attualissime in questa nostra società di grandi brontoloni individualisti e senza speranza.
Cito abbondantemente dal messaggio con qualche povero commento per sintetizzare in
questa paginetta dell’editoriale un testo che merita di essere letto nella sua interezza (si trova facilmente
in www.vatican.va).
«Il verbo che apre la nostra esortazione (fare attenzione, ndr.) invita a fissare lo sguardo sull’altro,
prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti
alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il
disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la “sfera privata”.
Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura
dell’altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere “custodi” dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare
relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell’altro e a tutto il suo bene.
Il grande comandamento dell’amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere
una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in
molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell’altro un vero alter ego, amato in modo infinito
dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di frateità, la solidarietà, la giustizia, così come
la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore».
Quest’attenzione ci porta ad avere a cuore il bene totale dell’altro: fisico, morale e spirituale. È un
antidoto contro il «cuore indurito» che rende ciechi alle sofferenze e bisogni altrui. Presi dai nostri
problemi, dalla crisi economica, dalla morsa del gelo, dal degrado sociale e dalla paura, noi
tutti siamo davvero a rischio di ritrovarci col cuore «indurito», cieco ed intristito. «Non bisogna tacere
di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per
semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri
fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene».
Per reagire a questa situazione occorrono reciprocità e solidarietà. L’«attenzione» è dare e ricevere,
scambiarsi doni, aiuto, sostegno, stimoli. Diventa gareggiare nel bene, rallegrarsi e ringraziare
dell’azione di Dio in mezzo agli uomini. «I discepoli del Signore, uniti a Cristo mediante l’Eucaristia,
vivono in una comunione che li lega gli uni agli altri come membra di un solo corpo. Ciò
significa che l’altro mi appartiene, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza.
Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione: la nostra esistenza è correlata
con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche
una dimensione sociale».
Da ultimo il Papa ci invita a «stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone: camminare insieme
nella santità». Sembra quasi un invito assurdo in questo nostro mondo, parlare addirittura
di santità in tempi in cui si fa fatica a vedere oltre il muro di neve che ci circonda, in cui si è persa la
capacità di sognare e il sopravvivere sembra la regola principale.
«Prima santi», diceva il beato Giuseppe Allamano. Puntare alla santità oggi non vuol dire essere
persone che vivono fuori del mondo, ma essere in questo mondo con una carica di speranza, di
energia, di rinnovamento unica. È una carica che fa reagire all’appiattimento, alla mediocrità, alla
disperazione. Rende capaci di ottimismo, «fa gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere
buone». Non per buonismo, ma per sete di giustizia, di solidarietà, di un nuovo modo di fare politica,
di nuove relazioni dove la persona e non il profitto sia al centro, perché la persona è immagine
di Dio. Vivere da santi è allora vivere, non semplicemente lasciarsi vivere.

                                                                                                                                         Gigi Anataloni

Gigi Anataloni