L’altalena non danza più

Reportage dalla piana di Camp Garba, periferia Nord di Isiolo

Isiolo è una città di frontiera. Lo era ai tempi coloniali; lo è oggi, ancor di più, perché punto naturale di incontro con Somalia ed Etiopia.
Circondata da un territorio vastissimo e dalle bellezze incontaminate, Isiolo è diventata il
centro di un ambizioso programma turistico ed economico. Ma da anni questa terra è segnata da scontri tribali, che nel 2011 hanno visto una nuova recrudescenza. Forse in gioco c’è molto di più di quello che si vuol far credere.

Non è nei miei piani di fermarmi a Camp Garba. Devo solo passarci, scaricare il mio passeggero e continuare il viaggio sulle orme dei primi missionari del Meru. Da Nairobi arriviamo alla missione nel primissimo pomeriggio. P. Pierino Tallone, quasi cinquant’anni di Kenya, ci accoglie. Dopo le solite piacevolezze da vecchi amici, ecco che cominciano a venire fuori le notizie recenti. «Ieri sera hanno assalito la missione di Campi ya Juu, ci sono stati nove morti. La gente è molto spaventata e non si sa neppure se martedì – 3 gennaio – inizieranno le scuole come da calendario». Sento scoraggiamento nella voce del vecchio missionario che in questi ultimi anni, dal 1996 in avanti, di morti ne ha visti troppi a causa delle cosiddette violenze tribali. La missione di Campi ya Juu (campo, accampamento di sopra) si trova alla periferia sud-ovest della città di Isiolo, quasi di fronte alla grande cattedrale, nei cui grandi cortili la gente si sta riversando in cerca di rifugio.
Quando arriva il parroco, p. Simon Wambua, uno dei nostri missionari kenioti, capisco che la situazione è grave e incancrenita.
È dal 22 ottobre 2011 che gli eventi sono precipitati. Quel giorno, meglio quella notte, una banda di pastori Borana, scendendo con migliaia di cammelli dalle montagnole ai piedi del Monte Kenya, cominciarono ad uccidere indiscriminatamente e a bruciare i villaggi turkana che trovavano sul loro passaggio. Passando, rasero al suolo il villaggio di Mashakwata, uccisero diverse persone inermi e devastarono il bell’asilo-cappella costruito dalla missione. La gente terrorizzata abbandonò Mashakwata e Lokiki e si riversò nella missione di Camp Garba, dove si accamparono per parecchi giorni.
«Vuoi che andiamo a vedere?», mi chiede p. Simon. «Andiamo!».

Mashakwata
Detto fatto siamo in Land Rover e imbocchiamo una pista che partendo dalla strada asfaltata che punta a Nord, si dirige decisamente ad ovest attraverso una vastissima piana sul cui sfondo si stagliano le ultime propaggini del grande monte, il Kenya. Qua e là capanne turkana, giovani sfaccendati, campi coltivati a granoturco. Tutto è verde intenso. Le piogge sono state abbondanti e ci sarebbe cibo e pascolo per tutti. Ci fermiamo ad una specie di barriera. P. Simon invita un giovane leader locale – lo chiamiamo David Lorupe, anche se questo non è il suo vero nome – a salire in macchina con noi. Non è un politico di professione, ma gode della stima della sua gente. La pista è battutissima, spesso dobbiamo metterci in disparte per lasciar passare camion stracarichi di sabbia. Sembra tutta una piana a perdita d’occhio, ma di tanto in tanto bisogna fermarsi: un torrente ha scavato una profonda fessura nel terreno, un piccolo canyon. Sono i torrenti stagionali che scendono dal Kenya, violentissimi durante le piogge, ma facilmente guadabili in tempi ordinari. Grazie al monte hanno sempre un po’ di acqua e sulle rive i Turkana hanno sviluppato un’intensa attività di orticoltura che trova un mercato insaziabile nella vicina città.
Di colpo, nel letto di uno di questi torrenti, vedo decine e decine di camion che caricano sabbia. Arrivano da Meru carichi di pietre, scaricano ad Isiolo, entrano nella piana, si riempiono di sabbia e via di nuovo per Meru. Un ritmo incessante dalle prime ore dell’alba agli ultimi raggi di sole. La comunità turkana ha ottenuto dal governo la concessione della cava: ogni camion porta due suoi operai e due spalatori turkana e alla barriera comunitaria paga il valore di 5 euro, 2,5 per ogni spalatore; altri 5 euro li paga alla barriera della città. Ogni camion di sabbia: 10 euro. Valore a Meru? Certo molto di più.
Lasciata la cava, Lorupe ci guida verso Mashakwata, meglio quel che rimane del villaggio. Risalito il torrente stagionale attraverso un passaggio improvvisato siamo di nuovo nella piana. Nella vegetazione lussureggiante si indovinano recinti, qua e là rigogliosi campi di granoturco e resti di capanne bruciate o abbandonate ormai coperte dall’erba. «Qui hanno ucciso due anziani, uno era zoppo, non poteva neanche scappare», dice Lorupe indicando uno spiazzo sabbioso. Più avanti ecco il traliccio del serbatornio dell’acqua, il supporto da cui sono stati rubati i pannelli solari, la struttura semplice e solida dell’asilo, vetri rotti ovunque, la finestra del magazzino divelta per rubare tutto, e l’altalena e lo scivolo assaliti dalle erbacce. Una scena di desolazione.
Guardando l’altalena immobile, chiudo gli occhi e vedo il sorriso radioso dei bimbi elettrizzati dalla macchina foto, il loro volare sullo scivolo per farsi fotografare e lo spingere l’altalena sempre più su, quasi a toccare il cielo. «I bimbi toeranno a giocare qui!», penso in una preghiera che è anche una promessa.
«È stato un attacco improvviso», ricorda Lorupe. «Erano lassù – indicando la montagna – coi loro cammelli. Hanno cominciato a uccidere e bruciare, così, come se qualcuno glielo avesse ordinato». Dopo quello, altri attacchi sono seguiti, qua e là, all’improvviso, senza altro scopo se non quello di terrorizzare la gente con uccisione di bambini di scuola e anziani, sventramento di donne incinte e incendi di capanne. L’ultimo assalto è stato proprio quello della sera prima, 30 dicembre, alla missione di Campi ya Juu e ad altri quattro villaggi, dove l’obiettivo era la missione stessa e una serie di persone rappresentative della comunità turkana. Hanno attaccato alle 18.30, al crepuscolo, vestiti in tenuta militare con fucili automatici e pallottole in dotazione al personale di sicurezza governativo, cercando di penetrare nella missione. Per fortuna il cancello è stato chiuso in tempo. La macchina del parroco, p. Munene, ha ricevuto due pallottole e lui si è salvato per miracolo. Non così fortunato è stato il catechista (ammazzato a sangue freddo sulla soglia della sua casetta di legno, il corpo ritrovato solo il giorno dopo) ed altre otto persone, scelte – sembra – di proposito. Niente è stato rubato. Chiaro lo scopo: terrorizzare.

Rifugiati
Quando con p. Simon arriviamo alla missione di Campi ya Juu è già quasi buio. Ci sono militari ovunque e gruppi di volontari armati di arco e frecce, lance e coltellacci. Facce tese, niente donne e bambini in giro. La statua dell’Assunta, a cui la parrocchia è dedicata, è lì, proprio di fronte al cancello, indifesa come quella povera gente. Passiamo in cattedrale. Centinaia di persone, soprattutto bambini, donne e anziani, sono accampati nei vasti cortili. Qua è la ci sono fuocherelli accesi. Nella casa del parroco è in corso una riunione delle autorità locali. Il vescovo, mons. Anthony Mukobo, insiste per avere uno spiegamento di forze di sicurezza tale da rassicurare la gente e permettere loro di tornare a casa. «Questo non sarebbe successo se tutti i posti di comando e potere non fossero nelle mani di una sola tribù!», si mormora sottovoce. Poi i politici devono rispettare il loro ruolo di facciata. Parlano alla gente, «il governo è con voi, stiamo facendo di tutto per garantire la vostra sicurezza». Qualcuno ascolta nel buio della notte, ma la maggior parte continua a sedere attorno ai fuocherelli, indifferente: vecchi tristi, madri ansiose, bimbi senza lacrime dagli occhi sbarrati. Quante volte hanno sentito lo stesso ritornello?
Toando alla missione p. Simon racconta del periodo successivo al 22 ottobre e come una volta sia stato fermato da un posto di blocco borana (i Borana-Somali avevano creato una barriera di pietre tra la missione e la città, i Turkana un’altra tra la missione e il nord) dopo essere andato a portare cibo a dei rifugiati turkana. La banda di giovinastri che controllava il posto di blocco lo aveva tirato giù dalla macchina e malmenato perché aveva portato da mangiare a «quegli animali»! Tornato a casa malconcio aveva rassicurando i cristiani che già lo davano per morto.
È l’ultimo giorno dell’anno. mi è difficile dire grazie stasera. Ma lo dico per la fede di questo popolo, il coraggio dei miei confratelli e dei preti locali che stanno con la gente anche se hanno paura. Grazie per il dono di essere qui, in questa notte stellata così carica di dolore.
Poi mi rifugio nella cappelletta, per vegliare un po’ e ritrovare la quiete di cui ho bisogno.

Anno nuovo, speranza rinnovata
L’anno nuovo comincia presto. La prima messa è alle 8.30 a Kiwanjani (campo, spianata, pista), pochi chilometri a nord della missione. Mi aggrego a p. Tallone. Il tratto è breve. Mi fa notare i mucchi di pietre usati in passato per bloccare la strada e mai totalmente rimossi; questa era la zona turkana. Arriviamo in anticipo. Mi guardo attorno. L’asilo cappella è una struttura solida, due aule divise da una parete mobile di metallo, porte in ferro, solide inferriate. Don Giuseppe Zousa e Don Giulio Balocco della diocesi di Cagliari, fondatori della missione nel 1994, hanno fatto un buon lavoro. Ritiratisi a fine 2009, hanno lasciato il tutto ai Missionari della Consolata.
Le due aule sono diventate uno spazioso saloncino. La gente arriva alla spicciolata. La maggior parte sono donne e bambini, pochi gli uomini. È domenica, è il primo dell’anno: bisogna far festa e lodare il Signore. Si danza a volontà: all’ingresso, alla presentazione del libro della Parola, all’offertorio, alla comunione e alla fine. Non ci sono sconti sui canti. Il tempo non ha importanza, occorre celebrare. P. Tallone, lavagna alle spalle, predica, guida, celebra. La preghiera dei fedeli è spontanea, piccoli e grandi vi partecipano. La preghiera di una donna tocca il cuore di tutti. Prega per la pace: una preghiera intensa, appassionata, fiduciosa, quasi un pianto sommesso rivolto a Dio. C’è dentro tutto il dramma vissuto dalla comunità: il dolore delle donne, le lacrime dei bambini, la frustrazione degli uomini impossibilitati a proteggere le proprie famiglie. Invitano anche me a parlare. Condivido il mio dolore e aggiungo che forse ho capito perché i missionari della Consolata sono stati quasi forzati ad accettare Camp Garba: la Madonna Consolata li ha mandati per essere presenza di «consolazione» in questi tempi difficili.
La partecipazione a questa umile celebrazione mi riempie di speranza. La tristezza della sera è svanita. La forza, la fede, la semplicità di questa gente umile è contagiosa. «Il Signore davvero abbassa i potenti ed innalza gli umili!».

Cosa c’è sotto?
Ma i problemi restano. È vero che le comunità pastoraliste (come i Samburu, i Borana, i Turkana e anche i Somali) hanno sempre vissuto situazioni di conflittualità per il controllo delle risorse, dei pascoli e dell’acqua. La razzia ai danni delle altre tribù era una pratica normale, da celebrare nelle feste con danze, poemi e canti. Un tempo, prima della colonizzazione inglese, i grandi spazi attorno a Isiolo erano terra di nessuno in cui pascolavano anche i Maasai e che i Somali consideravano estensione naturale della loro terra. All’inizio degli anni Ottanta quegli spazi immensi sono stati pian piano occupati da migliaia di Turkana fuggiti in diverse ondate da zone lontane ad alta conflittualità. In quella pacifica invasione di disperati, c’è stata una tacita divisione del territorio: i Turkana si sono stabiliti a ovest della strada, i Somali e Borana sono rimasti soprattutto nella parte est, con ampi spazi di movimento soprattutto nei tempi di siccità affinché tutte le comunità, Samburu compresi, potessero usare le sempre verdi montagne a nord del Monte Kenya. I Turkana, di per sé pastori, per sopravvivere si son trasformati in agricoltori e lavoratori precari in Isiolo. Molti sono diventati cristiani, la maggioranza cattolici. Pur disorganizzati, sono una realtà che ha il suo peso nella politica locale soprattutto nelle elezioni.
Ed ecco una delle cause principali della conflittualità in cui i Turkana sono soprattutto le vittime, anche se spesso – sulla stampa – passano per essere i villani: la politica! Il parlamentare che rappresenta Isiolo è un Borana, ex cristiano – chierichetto dell’ucciso vescovo mons. Luigi Locati – tornato all’Islam. La sua rielezione a fine 2012 o inizio 2013 è a rischio. Se i Turkana e i Meru (altra presenza importante, soprattutto in città) si alleassero per un candidato unico, per lui sarebbe la fine. Le sue parole di miele chiamano alla convivenza, pace e riconciliazione, ma molti sostengono che sia lui a far arrivare da fuori migliaia di persone della sua tribù per farle registrare per le elezioni, aiutato in questo dalle autorità locali dominate dalla sua tribù. Turkana e Meru hanno sì qualche consigliere comunale e altri rappresentanti nell’apparato governativo, ma tutti in posizioni subordinate.

La nuova «Las Vegas»
Un secondo motivo di tensione è il controllo dell’economia. C’è un ambizioso progetto turistico-ambientale per Isiolo. Vogliono costruirvi una resort town o città turistica, con – tra l’altro – sei alberghi a cinque stelle, campi da golf, casinò, sale per conferenze, teatri e cinema, un museo di arte locale, catene di negozi, piste per mountain bike e perfino un sito per riprese cinematografiche nel fantastico ambiente naturale. Dovrebbe diventare la Las Vegas del Kenya. Il tutto servito dalla nuova strada asfaltata che porta in Etiopia (in stato di avanzata costruzione ad opera dei Cinesi) e dal nuovo aeroporto internazionale (già in costruzione) che oltre al turismo serve a facilitare l’esportazione dal vicino Meru della miraa o tchat (ma il recente bando a questa droga da parte dell’Olanda ne ha messo in crisi il mercato milionario, mentre si teme che anche altre nazioni europee, come l’Inghilterra, ne proibiscano l’importazione) e dei prodotti ortofrutticoli che vengono coltivati abbondantemente sulle vicine falde nord del monte Kenya.
Questa città del turismo e divertimento occuperà un’area di 1000 ettari proprio alle spalle della missione di Camp Garba, con il suo centro nella gola di Kipsing Gap, un luogo tra due montagnole sempre verdi, il Katim e l’Oldonyo Degishu, circondato a sud dal famoso Lewa Wildlife Conservancy (quella di Adamson e della leonessa del film Nata libera), a nord dalle riserve nazionali di Buffalo Springs e Shaba National Reserve, più il Samburu Game Park sul fiume Ewaso Ng’iro, ricchissimo di acqua. È un luogo dalle potenzialità turistiche immense. In teoria il progetto, attualmente sotto studio con una compagnia giapponese, prevederebbe che i primi beneficiari siano i gruppi locali. Ma se uno dei gruppi, il più debole, venisse spazzato via in anticipo…
C’è anche un altro fattore che complica le cose: la sabbia. Abbondante nel letto dei fiumi stagionali è un elemento fondamentale del previsto boom di costruzioni legate allo sviluppo turistico e alla crescita continua della città di Isiolo. Per ora la comunità turkana ha ottenuto la concessione dell’estrazione, ma fino a quando? Da ultimo c’è il valore dei terreni attorno al polo turistico: sta andando alle stelle. E se gli occupanti fossero costretti ad andarsene «spontaneamente»?

C’entra la religione?
In questa difficile equazione, c’entra anche la religione? Apparentemente no, anche se di fatto da una parte ci sono delle tribù islamiche che controllano tutto il potere, e dall’altra tribù prevalentemente cristiane o tradizionaliste tra le quali solo i Meru detengono qualche reale potere economico. Un fatto sembra però evidente: la chiesa cattolica è l’unica realtà che impedisce una pulizia etnica senza testimoni. Non a caso negli attacchi più recenti sono stati uccisi due catechisti e assalita una missione, e la gente, sia dopo le violenze del 22 ottobre che quelle di capodanno, ha cercato rifugio nel perimetro della cattedrale o delle missioni (Camp Garba e Ngaremara, una quindicina di chilometri più a nord).
Inoltre non è un segreto per nessuno che i Somali hanno sempre sognato una grande Somalia che arrivasse fino a Isiolo, che a Isiolo ci sono centri di reclutamento della milizia di Al Shaabab, che la presenza dei fondamentalisti è molto estesa e che molti dei soldi sporchi provenienti dalla Somalia vengono riciclati proprio a Isiolo. Ufficialmente la religione non c’entra. Di fatto è uno degli elementi di cui tener conto.
Intanto la chiesa di Isiolo comincia a sentire il peso di questa situazione che si prevede di non facile soluzione. Anzi, nel sentire di tanti, questo 2012, prima delle elezioni, sarà un anno difficilissimo con un crescendo di violenza. Di fatto la gente di Mashakwata non è ancora tornata a ricostruire il suo villaggio, anche se avevano pianificato un ritorno in massa per il 2 gennaio. Per ora i loro bambini vanno all’asilo sotto un grande albero nella vicina scuola cappella di Kiwanjani. Sono una quarantina. Per fortuna, anche sotto un albero, i bambini sono sempre bambini e non perdono il sorriso e la voglia di giocare. Intanto l’altalena e lo scivolo di Mashakwata continuano ad aspettare che la gioia dei bambini li risvegli e li faccia ancora danzare.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Cari missionari

Padre angelo
mazzaschi…
vive

Nella comunità di Besozzola (frazione di Pellegrino Parmense) è vivo più che mai il ricordo di padre Angelo Mazzaschi, missionario della Consolata, per 23 anni in Colombia (1961-1983) e parroco nel paese natio negli ultimi mesi di vita, deceduto il 12 dicembre 1984, a 50 anni di età.
Il ricordo annuale della sua scomparsa ha avuto una speciale solennità il 4 dicembre 2011: la popolazione di Besozzola ha voluto celebrare il 50° anniversario di ordinazione, prima messa e partenza per la missione in Colombia del loro compaesano. E lo hanno fatto dedicandogli l’altare della chiesa parrocchiale, dove padre Angelo fu battezzato, ricevette i sacramenti, fu educato nella fede, celebrò la sua prima e ultima messa e dove ricevette l’ultimo saluto.
Alla celebrazione eucaristica, presieduta dal vescovo di Fidenza mons. Carlo Mazza, insieme al parroco Angelo Melfi e padre Ezio Roattino missionnario della Consolata, è stata rievocata la figura di padre Angelo. «Uomo di poche parole, ma disponibile e forte nella fede – ha ricordato il parroco -. Missionario di azione, totalmente dedicato al bene spirituale e sociale della gente».
Il vescovo mons. Mazza, nella sua omelia, si è complimentato con la comunità parrocchiale perché continua a tener viva la memoria del loro missionario. Anche lui ha poi sottolineato la capacità di padre Angelo di darsi agli altri senza aspettarsi nulla, cercando solo il bene della gente colombiana, testimoniando l’amore di Cristo con il riscatto sociale delle comunità a lui affidate, con attività di promozione umana e difesa della giustizia, seguendo la dottrina e gli insegnamenti della Chiesa.
Parlando dello spirito di avventura della missione, il vescovo ha pure sottolineato che la fede dà senso alla vita e che la vocazione al sacerdozio e alla missione nasce e cresce se è custodita dalla famiglia e accompagnata e apprezzata dalla comunità parrocchiale, come è avvenuto per padre Angelo.
Anche padre Roattino ha ribadito la dimensione missionaria della famiglia e della parrocchia; ha raccontato e rievocato l’operosa testimonianza di fede di padre Angelo la cui memoria è ancora viva anche nei luoghi in cui il missionario ha lavorato,  soprattutto a Florencia e San Vicente del Caguan.
In occasione di questa significativa ricorrenza, è stata curata una raccolta di documentazione (reperita nel tempo, pur se parziale per la difficoltà del ritrovamento) relativa alla vita di padre Angelo. Da tale documentazione, insieme alle testimonianza dei suoi superiori, confratelli e persone in Italia e Colombia che l’hanno conosciuto, egli emerge come uomo dell’amicizia, mite e disponibile, di poche parole ma di molte opere, dotato di grande spirito di sacrificio e tanto amore per i poveri, di coraggio nell’assumere posizioni ferme a difesa della pace e del bene sociale, di serietà e competenza nell’educazione e formazione dei giovani, molti dei quali diventati poi sacerdoti.
Sul ricordino della sua prima messa, celebrata a Besozzola il 2 aprile 1961, c’era scritto: «E porrò in loro un segno e li manderò alle genti d’oltre mare… e annunceranno la mia gloria alle genti» (Is 66,19); un impegno di fede che padre Angelo ha testimoniato operosamente con coraggio.
Iole Fiordilisi
Besozzola
(Pellegrino Parmense)




Spreco, quindi esisto

La lunga strada del cibo verso la discarica

Ogni anno si sprecano 1,3 tonnellate di cibo nel mondo. Dodici miliardi di euro solo in Italia. Molti sono prodotti non vendibili per usi diversi, non avariati, finiscono in discarica. Prodotti agricoli distrutti per ragioni di mercato. Cibo sprecato nelle mense scolastiche e ristoranti. L’impatto ecologico, sociale ed economico è elevato.

Nel nostro opulento mondo occidentale assistiamo sempre più spesso a un fenomeno inimmaginabile fino a qualche decennio fa: tonnellate di cibo finiscono nella spazzatura. Basta dare un’occhiata ai cassoni dei rifiuti vicino ai supermercati, per trovarci dentro sacchi pieni di prodotti di ogni tipo, ancora perfettamente commestibili, ma con qualche difetto nella confezione, oppure in prossimità della data di scadenza o, nel caso della frutta, con qualche ammaccatura, che però non ne compromette le qualità organolettiche, ma solo quelle estetiche. Anche i cassonetti situati vicino alle nostre abitazioni ospitano sempre più spesso grandi quantità di cibo avanzato, specialmente dopo le festività più importanti. Ad esempio tra la vigilia di Natale 2011 e Capodanno in Italia sono state buttate circa 440.000 tonnellate di cibo, per un valore totale di circa 1,32 miliardi di euro, equivalenti a più di 50 euro per famiglia. Latticini, uova e carne rappresentavano il 43% del totale, il pane il 22%, la frutta e la verdura il 19%, la pasta il 4% ed infine i dolci il 3%. Il 20% del totale della spesa alimentare degli italiani per le festività è finito nella spazzatura, nonostante la crisi economica  abbia fatto diminuire del 10% la quantità di cibo acquistata, rispetto all’anno precedente. Secondo la Fao, la tendenza allo spreco di cibo nel mondo occidentale è cresciuta del 50% dal 1974 a oggi, e attualmente vengono sprecate, dal campo alla tavola, 1,3 miliardi di tonnellate di cibo ogni anno, così suddivise: 670.000 tonnellate nei paesi industrializzati e 630.000 in quelli in via di sviluppo. Le popolazioni europee e nordamericane contribuiscono a questo spreco nella misura di 115 chili a testa all’anno, contro i 6-11 chili delle popolazioni dell’Africa sub-sahariana e del Sud-Est asiatico. Tutto questo, nonostante le persone che soffrono la fame nel mondo siano 925 milioni, secondo il rapporto Fao del 2010 e nella sola Europa vi siano 80 milioni di persone sotto la soglia della povertà. Mentre nei 27 paesi dell’Unione europea c’è uno spreco pro-capite annuo pari a 179 chili di cibo, solo in Italia si getta ogni anno una quantità di cibo che potrebbe soddisfare le necessità alimentari dei tre quarti dell’intera popolazione (cioè potrebbe nutrire 44 milioni di persone).
Traducendo il nostro spreco alimentare in cifre, possiamo dire che vanno persi lungo la filiera alimentare (produzione agricola, trasformazione industriale, distribuzione, consumo) 12 miliardi di euro, corrispondenti a circa 20 milioni di tonnellate di cibo. Soltanto gli ipermercati buttano ogni giorno 250 chili di cibo. Ogni anno, inoltre, vengono lasciate nella spazzatura circa 250.000 tonnellate di carne e, se pensiamo che per produe un solo chilo sono necessari 15.000 litri di acqua, ci rendiamo subito conto dell’impatto devastante sull’ambiente di questa insensata gestione del cibo.

Da spreco a risorse
Il fenomeno dello spreco alimentare in Italia è stato attentamente studiato da Last Minute Market (www.lastminutemarket.it), centro studi accademico dell’Università di Bologna, che si è occupato delle cause e delle conseguenze del fenomeno ed ha pubblicato i risultati della ricerca ne «Il libro nero dello spreco in Italia: il cibo», a cura di Andrea Segrè e di Luca Falasconi, Edizioni Ambiente, 2011. Oltre a questa pubblicazione,  l’organizzazione è specializzata nella raccolta del surplus alimentare presso alcuni supermercati in Italia ed alla sua successiva distribuzione ai bisognosi. Tra le sue iniziative, c’è stata l’organizzazione della conferenza «Transforming food  waste into a risource» (La trasformazione dello spreco del cibo in risorsa), svoltasi a Bruxelles il 28 ottobre 2010, a cui hanno partecipato le organizzazioni Fareshare (Gran Bretagna), Stop Food Wasting Movement (Danimarca) ed Andes (Francia). In questa circostanza è stata elaborata la Dichiarazione congiunta contro lo spreco alimentare, in cui è stato posto come obiettivo prioritario l’abbattimento del 50% dello spreco alimentare entro il 2025. Inoltre è stato fatto un appello alle Nazioni Unite perché la lotta allo spreco alimentare venga inserita nel 7° degli Obiettivi del Millennio (Assicurare la sostenibilità ambientale).
Dalla ricerca condotta da Last Minute Market risulta che in Italia le percentuali di alimenti sprecati, rispetto al totale disponibile, variano dal 34 al 55%, a seconda delle categorie di prodotti, con una tendenza a superare il 50% di spreco per verdura, frutta, bevande alcoliche e carne. I prodotti cerealicoli sprecati rappresentano poco più del 40%, mentre i prodotti ittici il 33,6%. Nel caso dei cereali, il minore spreco è dovuto a una inferiore deperibilità rispetto alle altre categorie, mentre i prodotti ittici sono sottoposti ad una filiera tecnologicamente migliore.

Cosa e quando buttiamo?
Per quanto riguarda le tipologie di prodotti alimentari sprecati,  possiamo distinguere tra una prima formata da tutti quei prodotti, che hanno perso le caratteristiche organolettiche ed igieniche minime perché possano essere considerati commestibili; la seconda è rappresentata da quegli alimenti definiti sub standard, perché non in possesso di determinate caratteristiche estetiche e tuttavia perfettamente commestibili. Da studi condotti negli ultimi dieci anni, risulta che grandi quantità di cibo sano, appartenente alla seconda categoria, vengono perse ad ogni livello della filiera agroalimentare. Possiamo parlare in questo caso di sprechi alimentari evitabili, cioè prodotti non più vendibili per ragioni diverse, che, non essendoci un uso alternativo, finiscono in discarica. È opportuno soffermarsi su ogni punto della filiera , prendendo in considerazione lo spreco nei campi, nell’industria alimentare, nella distribuzione e nelle nostre case.
Per quanto riguarda lo spreco nei campi, secondo i dati Istat del 2009 poco più del 3,3% della produzione agricola italiana non è stata raccolta. I motivi sono vari, tuttavia nessuno di questi compromette le qualità organolettiche e quindi la consumabilità dei prodotti. Si va dalla non conformità a determinate caratteristiche estetiche (ad esempio verdure fuori pezzatura oppure colpite dalla grandine), a ragioni eminentemente commerciali, come il mantenimento dei prezzi a un certo livello, grazie all’eliminazione di una parte del prodotto; oppure l’abbandono dello stesso nei campi da parte degli agricoltori, perché i costi di raccolta sono superiori al prezzo di mercato. La quantità effettiva di prodotti agricoli abbandonati nei campi nel 2009 è stata di 17.700.586 tonnellate. Se consideriamo in particolare il settore ortofrutticolo, nello stesso anno, è stata sprecata una quantità di ortofrutta (7 milioni di tonnellate) che avrebbe potuto soddisfare le esigenze quasi di una seconda Italia.
I prodotti agricoli, nel loro viaggio dal campo alla nostra tavola, possono essere fermati nelle cornoperative e nelle organizzazioni di produttori, che hanno il compito di applicare le norme previste dall’Organizzazione Comune di Mercato (Ocm), le quali prevedono il ritiro dal mercato di parte delle merci, per evitare il crollo dei prezzi. In questo caso, i prodotti ritirati  sono destinati in piccola parte al consumo di fasce deboli della popolazione, il resto viene utilizzato per la produzione di alcol etilico, al compostaggio ed all’alimentazione animale. La quantità di prodotti ortofrutticoli ritirati dal commercio ogni anno nei paesi dell’Unione Europea è di circa 300.000 tonnellate. Vale la pena di considerare che l’Unione Europea nell’annata agraria 2005-2006 ha stanziato 32 milioni di euro, di cui 6,8 solo all’Italia e questo denaro è servito per finanziare l’acquisto, la logistica e, nel 90% dei casi, la distruzione dei prodotti. Un vero e proprio sperpero di denaro pubblico.
A livello dell’industria alimentare, lo spreco annuale di cibo è di circa il 2,6% rispetto alla produzione finale totale, pari a quasi 1,7 milioni di tonnellate, e di questo quantitativo solo una piccola parte viene destinata a enti assistenziali, mentre la maggior parte diventa rifiuto, per giunta non sempre avviato alla raccolta differenziata.
Per quanto riguarda la distribuzione, un’indagine condotta a livello dei mercati all’ingrosso (centri agroalimentari e mercati ortofrutticoli) ha mostrato una perdita annuale dei prodotti gestiti come rifiuti dell’1-1,2%. Almeno un terzo di questi prodotti però potrebbero essere perfettamente utilizzati, perché presentano danni del tutto irrilevanti, mentre due terzi potrebbero essere recuperati con un’oculata gestione degli stock (uso di celle frigorifere, giacenza monitorata). Nel 2009 le perdite di prodotti ortofrutticoli a livello di distribuzione sono ammontate a 109.617 tonnellate. Per quanto riguarda il mercato all’ingrosso, questo spreco può ancora una volta essere riconducibile a ragioni di mercato volte al mantenimento dei prezzi. Nel caso della grande/ media distribuzione organizzata lo spreco di cibo può essere dovuto ad una cattiva programmazione delle foiture, ma più spesso alla manipolazione dei prodotti da parte dei clienti, che ne danneggiano l’estetica, rendendoli meno desiderabili. Nel 2009 le attività commerciali alimentari italiane hanno sprecato 263.645 tonnellate di alimenti, di cui il 40% erano prodotti ortofrutticoli.

Consumatori spreconi
L’ultimo anello della catena agroalimentare è rappresentata dai consumatori, cioè da tutti noi. Secondo la ricerca di Last Minute Market, nelle mense delle scuole italiane viene sprecata ogni anno una quantità di cibo pari al 13-16% degli acquisti effettuati. I motivi sono molteplici. Sicuramente la distrazione può essere responsabile del cibo lasciato ad invecchiare nel frigorifero o nella dispensa. Anche le allettanti offerte del «tre per due», i «sottocosto», che si possono trovare nei supermercati, oppure la difficoltà a reperire le confezioni monodose per i single sono spesso alla base dello spreco alimentare. Probabilmente tuttavia tendiamo a non porre attenzione al cibo che sprechiamo semplicemente per mancanza di un’adeguata educazione in proposito, se non addirittura a causa dell’errata convinzione, peraltro inculcataci dal sistema economico attuale, che maggiori consumi equivalgono a più benessere.

Spreco ad alto impatto
Lo spreco alimentare è responsabile degli impatti ambientale, economico, nutrizionale e sociale.
Per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti alimentari, ogni tonnellata genera 4,2 tonnellate di CO2, quindi ogni anno vengono rilasciate nell’atmosfera oltre 8 milioni di tonnellate di CO2  solo in Italia, come diretta conseguenza dello spreco di circa 20 milioni di tonnellate di cibo. L’impatto ambientale generato dallo spreco del cibo si valuta considerando tre diversi parametri: l’impronta del carbonio, l’impronta ecologica (ovvero la quantità di terra o di mare consumate nella produzione dei cibi) e l’impronta idrica (l’acqua consumata in tutti i processi della filiera agroalimentare).
La prima non si riferisce unicamente al processo di smaltimento dei rifiuti alimentari, che genera anche metano, ma si riferisce alla quantità di CO2 generata lungo tutti i processi e comprende quindi anche le emissioni generate nella produzione dei pesticidi e dei fitofarmaci adoperati, nelle trasformazioni industriali e nel trasporto.
L’impronta ecologica si riferisce alla quantità di terreno o di mare biologicamente attivo, necessaria per produrre la quantità di cibo per ciascuno di noi, nonché la quantità per smaltire i rifiuti generati. Non è solo l’estensione della superficie del terreno utilizzato per soddisfare le nostre necessità, ma anche tutto quello che essa rappresenta in termini di biodiversità, stabilità climatica, fissazione dell’energia solare e conversione in materie prime. Sulla base dei consumi attuali, l’Italia ha un’impronta ecologica di 4,2 ettari pro-capite, ma la sua biocapacità è soltanto di un ettaro, quindi esiste un deficit ecologico di 3,2 ettari globali pro-capite (l’ettaro globale o gha è l’unità di misura dell’impronta ecologica).
L’impronta idrica si riferisce al consumo delle risorse idriche lungo la filiera agroalimentare e tiene conto anche dell’acqua necessaria per la produzione dei beni di consumo. In Italia lo smaltimento dei rifiuti alimentari genera un consumo d’acqua pari a 105 milioni di metri cubi all’anno. Se poi consideriamo la quantità d’acqua usata per l’agricoltura, quella relativa alla quantità di cibo sprecato è di 5,3 miliardi di metri cubi all’anno, un quantitativo sufficiente a dissetare tutti gli abitanti del Kenya per 270 anni. 
L’impatto economico dovuto allo spreco di cibo è rappresentato dal mancato guadagno che si sarebbe potuto realizzare, se quel cibo fosse stato venduto al prezzo di mercato. Come visto sopra, per l’Italia è di 12 miliardi di euro per 20 milioni di tonnellate di cibo sprecate.
Per impatto nutrizionale si intende la quantità di nutrienti legati agli alimenti che vanno persi con lo spreco del cibo. Basta pensare, ad esempio, che la quantità di arance perse ogni anno contengono vitamina C pari al fabbisogno annuale di 13 milioni di persone, secondo quanto raccomandato dai La (Livelli di assunzione giornalieri raccomandati di nutrienti per la popolazione italiana). La quantità di pomodori da tavola lasciati in campo in un anno contiene invece vitamina E sufficiente per il fabbisogno annuale di circa 6,5 milioni di persone.

Rosanna Novara Topino

       

Rosanna Novara Topino




2012: anno internazionale delle cooperative

Cooperando

Le cornoperative sono una forma di impresa sociale. Alcune grandi e potenti, altre piccole. Legate alla comunità, rappresentano un importante strumento di sviluppo nel Sud del mondo.

Cooperative agricole, cornoperative di credito, cornoperative di lavoratori, di consumatori, di produttori: a uno sguardo anche superficiale, la presenza di queste forme d’impresa nella quotidianità di tutti i cittadini risulta piuttosto evidente, nel Nord come nel Sud del mondo. Secondo dati Onu, le cornoperative danno lavoro a circa cento milioni di persone sul pianeta (cioè una persona su settanta) e contano poco meno di un miliardo di associati, un settimo della popolazione mondiale. Le trecento più grandi cornoperative del globo hanno, insieme, redditi per 1.600 miliardi di dollari.
Non stupisce, dunque, che le Nazioni Unite abbiano deciso di dedicare a questa forma di impresa dodici mesi di iniziative e visibilità, dichiarando il 2012 «anno internazionale delle cornoperative» e preparando un fitto calendario di eventi ad esso correlati. La campagna di sensibilizzazione targata Onu, comunque, si concentra non «sul quanto» ma «sul come»: «le cornoperative – recita lo slogan ufficiale – costruiscono un mondo migliore», perché sono imprese possedute e dirette da e per i loro membri.
Questa la definizione generale, che cattura quello che si potrebbe definire lo spirito di cornoperativa. La realtà, tuttavia, appare estremamente più variegata e sotto la stessa etichetta ricadono tipi di impresa che vanno da piccole realtà di autofinanziamento e sussistenza a colossi economici con giri d’affari milionari. La più grande del mondo è una cornoperativa di consumatori, l’inglese The Co-operative Group Ltd: conta sei milioni di membri, dà lavoro a oltre centomila persone, agisce nel mercato alimentare e farmaceutico, nella foitura di servizi bancari e legali, nella gestione di imprese di pompe funebri, agenzie di viaggio, concessionarie di auto e negozi di elettronica, per un fatturato annuo di oltre tredici miliardi di sterline.
Ovviamente, il primo tipo di cornoperativa, quello di piccole dimensioni, è quello che più di frequente si incontra e si promuove nelle iniziative di cooperazione allo sviluppo. Nel Sud del mondo, le cornoperative sono uno strumento attraverso il quale si dà forma all’esigenza di una comunità di organizzarsi per garantirsi il sostentamento e l’indipendenza economica.

I valori fondanti
Il movimento cornoperativo si identifica in sette principi fondanti: adesione libera e volontaria; controllo democratico da parte dei soci; partecipazione economica dei soci; autonomia e indipendenza dei soci; educazione, formazione e informazione; cooperazione fra cornoperative e interesse verso la comunità.
Come questi principi vengano tradotti in entità legalmente riconosciute e quanto abbiano un effetto concreto sul tessuto economico locale dipende dalle singole legislazioni e dal contesto politico ed economico di ogni paese. Secondo l’Inteational Co-operative Alliance – Ica, principale partner delle Nazioni Unite nelle iniziative del 2012 sulle cornoperative, i sistemi giuridici e le realtà economiche di molti paesi, specialmente nel Sud, non sono adeguati a recepire i principi cornoperativi e a creare un ambiente favorevole per lo sviluppo dell’impresa sociale. «Gli operatori economici – spiega il premio Nobel per la pace Muhammad Yunus nel suo libro Un mondo senza povertà – non ne riconoscono l’esistenza né assegnano loro un posto nel mercato; le considerano delle stramberie e le tengono ai margini». Uno dei punti su cui con più forza batterà la campagna delle Nazioni Unite sarà dunque proprio quello di fornire alle imprese cornoperative, e ai gruppi che aspirano a costituirsi come tali, consulenza e informazioni per accrescere il proprio ruolo nelle economie locali.
I risultati di una maggior apertura al modello cornoperativo in alcuni paesi sono, d’altronde, piuttosto confortanti: secondo i dati del Fondo internazionale delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo (Ifad), in Brasile più di un terzo del Pil derivante dall’agricoltura (pari al 5% di quello totale) è stato prodotto da imprese cornoperative, che hanno ottenuto dall’esportazione di prodotti agricoli per 3,6 miliardi di dollari. Mentre in Kenya circa venti milioni di persone traggono le loro fonti di sussistenza dal movimento cornoperativo o dal suo indotto, che genera quasi metà del prodotto interno lordo e controlla il 70% del mercato del caffè e quasi tutto quello del cotone. In Costa d’Avorio le cornoperative hanno investito complessivamente ventisei milioni di dollari per costruire scuole, strade e cliniche per la salute matea e infantile.
Non solo. Secondo uno studio dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), le cornoperative dimostrerebbero una maggiore capacità di resistenza in tempi di crisi, poiché dipendono dal capitale dei membri e non da quello prestato dalle banche. I dati statistici, prosegue lo studio, indicano che le cornoperative hanno un tasso di sopravvivenza più alto rispetto a quello dei loro competitors e sono mediamente più longeve delle altre imprese.
Infine, la promozione del movimento cornoperativo in contesti come l’Africa orientale e meridionale è una delle esigenze emerse durante il forum degli agricoltori che si è tenuto al quartier generale dell’Ifad a Roma nel febbraio 2010, poiché solo mediante forme aggregative come quella delle cornoperative agricole sarebbe possibile aumentare l’autonomia, l’accesso al mercato e il potere decisionale dei contadini all’interno dell’economia dei propri paesi.

Cooperative e microcredito
Le cornoperative sono anche uno degli strumenti attraverso i quali vengono realizzate iniziative di microfinanza, in particolare di microcredito e, viceversa, la microfinanza si può basare (ma non sempre) su un modello cornoperativo. Entrambi nascono con l’intento di rendere disponibile l’accesso al credito alle fasce più povere della popolazione prive delle credenziali per rivolgersi al sistema bancario tradizionale.
Sebbene microfinanza e cooperazione abbiano delle indubbie somiglianze quanto allo spirito che li caratterizza, sono tuttavia due concetti diversi. Muhammad Yunus, uno dei massimi promotori del microcredito al punto da essee considerato il padre, ha concepito il proprio modello come qualcosa di differente dal credito cornoperativo. Nel suo libro Il banchiere dei poveri spiega che le cornoperative di credito in Bangladesh, suo paese natale, richiedevano la restituzione della somma prestata in una sola tranche, creando a suo dire nei contadini una resistenza a separarsi in un’unica soluzione da una cospicua cifra di denaro. Di conseguenza, i debitori tendevano a rimandare il rimborso del credito ricevuto e ad accumulare così un debito sempre più alto, fino a trovarsi nell’impossibilità di saldarlo. Yunus adottò il metodo opposto, decidendo di richiedere il rimborso del credito in soluzioni di entità talmente ridotta che il cliente non si sarebbe neanche accorto di pagarlo. Sempre a proposito delle cornoperative Yunus scrive che, sebbene nate in risposta allo sfruttamento degli operai da parte degli avidi proprietari delle fabbriche inglesi del XVIII e XIX secolo, le imprese di questo tipo non hanno come obiettivo principale quello di migliorare le condizioni dei poveri. «Se cadono nelle mani sbagliate – continua Yunus – le cornoperative possono anche diventare uno strumento di penetrazione nell’economia che consente guadagni a singoli individui o a gruppi ristretti invece che portare beneficio all’insieme della società».
Al di là dei dibattiti interni a quello che è il mondo, estremamente complesso, dell’imprenditoria sociale e dell’economia solidale, il legame fra cornoperative e microfinanza è abbastanza solido in molte realtà del mondo: in Colombia, ad esempio, sono imprese di questo tipo a gestire la quasi totalità delle iniziative di microcredito nel paese.

Chiara Giovetti

Donne e microcredito

Si conclude in questo mese il progetto empowerment delle donne vulnerabili e delle ragazze madri in due città, Kinshasa e Isiro, finanziato per metà con i fondi della cooperazione decentrata del comune di Roma (vedi MC ottobre 2011). Un botta e risposta sul progetto con padre Santino Zanchetta, responsabile della parte di progetto eseguito a Kinshasa.

Padre Santino, lei lavora a Saint Hilaire, un quartiere di Kinshasa, che lei ama definire «una periferia a misura d’uomo». Che cosa intende con questa espressione?

«Intendo che non si tratta della periferia tipica dei paesi poveri, con case accatastate le une sulle altre. È un quartiere densamente abitato, questo sì: solo la nostra parrocchia conta ventinovemila persone, inserite in un comune di oltre un milione e seicentomila abitanti. La gestione degli spazi, però è diversa: è lo Stato stesso che destina appezzamenti di terreno di diciotto per diciotto metri, che diventano il cortile dove si può costruire un’abitazione e vivere insieme alla propria famiglia con una certa autonomia».
I problemi sono tanti, comunque, a partire dai servizi e dalle infrastrutture.

«Sì, la foitura di elettricità e acqua dipende da società pubbliche che servono anche la nostra zona, ma la distribuzione è poco costante sia nelle quantità che nei tempi.
A livello di servizi educativi la situazione è molto problematica. Il 47% dei ragazzi in età scolare non ha la possibilità di andare a scuola: le famiglie non possono permettersi di pagare le rette per tutti i figli – di solito sono sette o otto – perciò ne fanno studiare solo alcuni. Chi patisce di più questa esclusione sono le ragazze, perché spesso le famiglie preferiscono far studiare i maschi, considerati il futuro fulcro della famiglia africana. Eppure, a ben guardare, sono proprio le donne con la loro “economia sommersa” a far quadrare il bilancio familiare».

Come nasce il progetto di empowerment delle donne?

«Per andare incontro a queste ragazze che non hanno potuto studiare, per poter fornire loro una dignità derivante dal saper leggere e scrivere e per permettere loro di “avere in mano un mestiere” con cui provvedere ai propri bisogni immediati – si pensi ai corsi di sartoria: anche il semplice saper riparare gli abiti dei familiari è già un risultato – e trarre da questo mestiere il proprio sostentamento. Oltre ai corsi di sartoria ce ne sono altri, ad esempio quelli di estetica o quelli di informatica».

Come si promuove l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro?
«Attraverso un programma di microcredito, che permette loro di avere un capitale iniziale per cominciare un’attività e di abituarsi all’idea e alla pratica del risparmio. Ogni donna riceve una somma pari a centoventi euro che deve utilizzare per avviare un’attività e restituire, entro una determinata scadenza, maggiorata di un piccolo interesse, in modo che il comitato gestionale del progetto possa utilizzare questa maggiorazione per aprire il microcredito a ulteriori donne».

Le donne sono organizzate in una cornoperativa?

«Sono organizzate in piccoli gruppi che funzionano in modo molto simile a una cornoperativa, ma in certi paesi – e il Congo è uno di questi – ottenere il riconoscimento formale come impresa cornoperativa richiede un iter burocratico lungo e complesso».

Può citare un esempio di successo del progetto?

«Il primo che mi viene in mente è quello di Matondo, una donna giovane ma già vedova, che ha otto figli. Due delle figlie, di diciotto e sedici anni, hanno preso parte ai nostri corsi e ora, oltre a lavorare negli atelier per il confezionamento di abiti, hanno aperto un chioschetto per strada dove vendono beni di prima necessità come zucchero, tè, pane, latte, caffè. Grazie a questa attività, hanno potuto far studiare altre due sorelle, di otto e undici anni, pagando autonomamente le rette scolastiche. Questo è solo un esempio, ce ne sarebbero molti altri».

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Voglia di nuovo

Eticamente

In Italia la disoccupazione giovanile è la più alta d’Europa. Si va verso un conflitto generazionale. Ma solo i giovani avranno il coraggio di cambiare.

Nel nostro paese i giovani sono un problema: senza lavoro, con poca istruzione, a carico della famiglia, privi di un avvenire.
La disoccupazione giovanile riguarda il 30,1% di uomini e donne tra i 18 e i 30 anni. Da uno studio della Ue siamo lo stato europeo con il più alto differenziale tra occupazione adulta e occupazione giovanile, dei 2 milioni e 150 mila disoccupati conteggiati in Italia, la maggior parte sono giovani.
Anche quando trovano un’occupazione, i giovani sono pagati poco e hanno meno tutele, spesso sono oggetto di nuove forme di sfruttamento, più subdole di quelle che dovette affrontare la classe operaia nel Novecento, molti di loro non hanno coscienza dei propri diritti, non vedono nel sindacato un presidio in grado di tutelarli ma, paradossalmente, un pericolo che può mettere a repentaglio la loro posizione.
Anche i «fortunati» che hanno laurea e master sono costretti ad accettare un lavoro precario che non rappresenta la «gavetta», ma una condizione di sotto inquadramento che dura anni e che non ha prospettive di carriera.

Poi ci sono i Neets (Not in Education, Employment or Training) i giovani che non lavorano e non studiano, un fenomeno recente che si sta allargando nei principali paesi industrializzati, dal Regno Unito al Giappone, investendo persino la Cina. Secondo l’Istat i Neets in Italia sono oltre 2 milioni, il 25,9% delle persone sotto i 29 anni, quasi il doppio della media europea. Hanno abbandonato gli studi, affascinati dall’idea di guadagnare per soddisfare i desideri di oggi senza aspettare le incertezze del domani; la scuola li ha lasciati andare per miopia e per mancanza di risorse, così ingrossano le fila delle agenzie interinali e si ritrovano sulle panchine dei parchi come vecchi senza futuro.
Il risvolto sociale di questa situazione è sotto gli occhi di tutti: giovani che pesano fino a 35 anni sul bilancio della famiglia di origine.
Ma cosa succederà quando i genitori lavoratori o i nonni pensionati non ci saranno più? Come faranno questi giovani a far studiare i loro figli, a curarsi quando saranno malati, a pagarsi l’assistenza quando saranno anziani?
Andiamo verso un conflitto tra generazioni per la spartizione del lavoro e del poco welfare rimasto. Senza un’azione di inclusione ed equità sociale che punti a conciliare i diversi interessi tutto sarà oggetto di conflitto, non solo il lavoro, ma i servizi, le abitazioni, i negozi, gli spazi.

Non possiamo rassegnarci a questa prospettiva, occorre ripartire e ricostruire. Se c’è una cosa che la crisi ci ha insegnato è la vacuità dell’individualismo: non è vero che bisogna arrangiarsi, che ci si salva da soli, una bufera come quella che ha investito l’economia negli ultimi due anni spazza via anche quelli che ce l’avevano fatta.
Dopo la sbornia neoliberista, economisti e politici si affannano a trovare altre ricette, riaggiustando conti e idee, ma senza il coraggio del nuovo.
Questo coraggio non appartiene agli adulti, ancorati a vecchie mentalità e a visioni superate, può venire solo dai giovani, sono loro che possono portare energia vitale nella società e innescare un vero cambiamento.
Occorre dare loro spazio non solo nei movimenti e nelle manifestazioni di protesta, ma ai tavoli della politica e nei centri della cultura.
Spesso non si affacciano in questi luoghi perché sanno di non ricevere ascolto e perché rifuggono i territori degli adulti, bisogna andarli a cercare, tirarli via dall’isolamento e convincerli che la via d’uscita è nello stare insieme, nell’impegno comune.

Per tanti giovani rassegnati altrettanti reagiscono, si indignano e si impegnano, proprio come abbiamo fatto noi, nei tempi andati. Loro hanno una qualità in più: la coerenza tra comportamenti pubblici e comportamenti privati; il convincimento che il mutamento deve avvenire su due piani, quello collettivo e quello individuale, incarnano l’idea che la responsabilità è di tutti e a ognuno spetti un ruolo.
Un approccio fresco che rinnova e reinterpreta l’idea di democrazia: non più un esercizio passivo che delega tutte le scelte a governi e istituzioni, ma partecipazione in prima persona.
Spetta ancora una volta alla politica intercettare questo cambio di pensiero e tradurlo in forme nuove di rappresentanza. Solo così si potranno affrontare e magari risolvere gli enormi problemi che abbiamo addossato ai nostri figli e nipoti.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Lotta di potere tra dame di ferro

Paese in cerca di riconciliazione, a 40 anni dall’indipendenza

Galleggiante sulle acque, ciclicamente afflitto da inondazioni spaventose, con una popolazione di quasi 170 milioni di abitanti su un territorio metà di quello italiano, il Bangladesh è uno dei paesi più poveri del mondo; le ferite ereditate da guerre e lotte per l’indipendenza, dopo 40 anni, stentano a rimarginare; alle tensioni etniche e religiose si aggiunge la ventennale rivalità politica tra due «dame di ferro».

Il 16 dicembre 1971 il Pakistan Orientale, che da lì a poco sarebbe diventato ufficialmente Bangladesh, trovava una difficile indipendenza, alla fine di una guerra breve ma sanguinosa, che doveva segnare non soltanto la neonata patria di 60 milioni di persone, tra le più povere del pianeta, ma anche i rapporti tra i protagonisti del conflitto e dell’intero Subcontinente Indiano.
Nasceva una nazione con forti limiti iniziali. Non solo i rapporti storici e culturali con la confinante India, che dovevano tradursi in un ingombrante protettorato, ma anche la povertà di risorse, la sovrappopolazione, la configurazione territoriale, la collocazione geo-politica…

Pianura galleggiante
Il Bangladesh ha sempre avuto un rapporto problematico con le sue acque, che insieme costituiscono una minaccia, ma anche garantiscono opportunità vitali per i suoi 170 milioni di abitanti concentrati su una superficie inferiore a quella italiana e un territorio generalmente piatto al livello del mare. Un territorio su cui convergono le acque dei fiumi Gange e Brahmaputra prima di gettarsi con la maggiore area deltizia al mondo nel Golfo del Bengala. Alle piene periodiche, sovente eventi disastrosi per l’apertura delle dighe a monte del territorio bengalese, in India, si aggiungono tifoni catastrofici o alte maree eccezionali.
Ora, tuttavia, e sempre più, è anche il progressivo crescere delle acque marine a preoccupare le autorità e le popolazioni costiere. Le statistiche degli ultimi  30 anni segnalano una crescita media delle acque di 5 millimetri l’anno e le proiezioni prospettano un futuro ancora più difficile.
I rifugiati del Bangladesh – in parte eredità del conflitto, in maggioranza migranti economici o veri profughi – in India, sono oggi oltre 10 milioni e crescono al ritmo di molte migliaia l’anno. Un numero di disperati contrastati non solo dal governo indiano, che pretende con provvedimenti repressivi spesso indiscriminati di contenere l’immigrazione illegale, i molteplici traffici frontalieri e l’infiltrazione del terrorismo islamista, che a più riprese in anni recenti ha portato devastanti attacchi in territorio indiano, ma anche dai fondamentalisti indù e dai movimenti che usano l’immigrazione dal Bangladesh come strumento della loro politica secessionista.
Né lingua né etnia distinguono le popolazioni ai due lati del confine e la comune cultura bengalese, quella che ha espresso il premio Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore e quello per l’economia Muhammad Yunus, li avvicina più di quanto la fede li divida.
Tuttavia il flusso di immigrati irregolari dal Bangladesh verso l’India, da un lato, la presenza di almeno 100 mila coltivatori indiani nel lato bangladeshi del confine restano una miccia sempre innescata nei rapporti tra New Delhi e Dhaka.

LE RAGIONI DI UN CONFLITTO
Il 16 dicembre 1971 il corpo di spedizione pachistano dichiarava la resa alle forze congiunte della resistenza bengalese e dell’esercito indiano. Finiva così la guerra d’indipendenza dell’odierno Bangladesh. Un evento traumatico che doveva ridisegnare la fisionomia del Pakistan, ma insieme proiettava nell’incertezza uno dei paesi più poveri e sovrappopolati del mondo.
Per 24 anni questo lembo di territorio nordorientale del Subcontinente Indiano era stato oggetto del destino disegnato a tavolino dai negoziatori britannici che nelle ultime, convulse settimane prima di lasciare al proprio destino la loro «perla» imperiale, incendiata dalle tensioni e divisa territorialmente, avevano delineato confini impossibili, tenendo solo conto della preponderanza religiosa della popolazione.
Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 1947 erano così nati due stati sovrani, l’India a maggioranza indù e il Pakistan a maggioranza musulmana. Un Pakistan però diviso in due tronconi ai due estremi dell’ex colonia indiana: il Pakistan Occidentale, oggi Pakistan, e il Pakistan Orientale, l’attuale Bangladesh.
La regione occidentale era da lungo tempo islamizzata da diverse invasioni fino dal 9° secolo, vicina per lingua e abitudini al mondo mediorientale, iranico e centro-asiatico, con una lingua nazionale, l’urdu, portata dagli immigrati dall’India dopo la separazione, con un ampio vocabolario arabo-persiano e scritta in una versione adattata dell’alfabeto arabo. Una terra, con eccezione di poche aree, caratterizzata da un paesaggio desertico, semi-arido o montuoso.
Il Pakistan Orientale è stata antica terra di diffusione buddista, prima di essere induista e poi, dal 14° secolo, diventare in maggioranza musulmana. L’acqua è la sua benedizione e la sua condanna, l’elemento che ha plasmato la sua gente, le attività economiche, la cultura.
Con l’indipendenza le regioni del Pakistan Orientale avevano perso, perché annesso allo Stato indiano del Bengala Occidentale, il suo centro più prestigioso e grande fucina culturale, Calcutta, e all’India erano rimaste anche le fabbriche dove confluiva la juta, maggiore risorsa delle aree oggi in Bangladesh.
Inevitabilmente, il peso demografico, geografico, strategico ed economico del lontano Occidente doveva diventare un elemento di rottura, alimentato dall’intransigenza dei governi del Pakistan, insediati prima a Karachi e poi a Islamabad. Passata l’euforia dell’indipendenza e dell’acquisizione di una identità distinta dall’India sì, ma altrettanto duale all’interno del nuovo Stato, con i primi sintomi di insofferenza le regioni orientali diventarono di fatto colonie su cui imporre leggi e scelte elaborate a 1.600 chilometri di distanza.

LA GUERRA
Nel giro di qualche anno l’insofferenza doveva diventare rabbia e richiesta di autodeterminazione. Il movimento di protesta dalle molte anime, tra cui quella marxista e quella nazionalista, trovò espressione a partire dal 3 marzo 1971 nelle manifestazioni guidate da Sheikh Mujibur Rahman. Settori locali delle forze armate come pure pubblici dipendenti si unirono al movimento che crebbe di forza e consistenza nelle settimane successive, sottoposto a pressioni e poi ad aperta repressione dal 25 marzo, quando l’esercito intervenne, per ordine del presidente-generale Yahya Khan, per riprendere il controllo della capitale.
La dichiarazione d’indipendenza, letta il 27 marzo nella città di Chittagong dal maggiore Ziaur Rahman, e la contemporanea proclamazione della nascita dell’Esercito di liberazione del Bangladesh, rappresentarono l’avvio del vero movimento di liberazione. Nei mesi successivi, defezioni dall’esercito regolare e una crescente partecipazione di civili metteranno in grado il Mukti Bahini, il movimento di guerriglia che associava le varie «anime» della resistenza, di confrontarsi con una repressione durissima, fino a quando l’India, che per ordine di Indira Gandhi già aveva infiltrato spie e armi, non dichiarerà apertamente il proprio intervento a sostegno dei bengalesi e delle proprie esigenze strategiche verso l’avversario pachistano, determinando l’andamento del conflitto.

PROSPETTIVE, SVILUPPO  E RICONCILIAZIONE
In sintesi, natura e storia recente contribuiscono a rendere il Bangladesh una realtà instabile che fatica a trovare un proprio equilibrio. Alla fine, anche nazionalismo e repressione non convincono ad allinearsi dietro una leadership velleitaria spesso corrotta, sovente repressiva. Alla guida, dopo la dura esperienza semi-dittatoriale di Muhammad Ershad dal 1981 al 1990, una classe politica litigiosa che ruota attorno a due donne: Sheikh Hasina, attuale primo ministro, figlia di Mujibur Rahman, a capo della Lega Awami, e Khaleda Zia, vedova del primo presidente del Bangladesh, Ziaur Rahman e leader del Partito nazionalista del Bangladesh. Una battaglia senza esclusione di colpi la loro, combattuta non solo dalle tribune elettorali o dai banchi parlamentari, ma anche nei tribunali e nelle piazze con scontri sanguinosi tra i loro sostenitori, a volte, anche se per periodi brevi, da dietro le sbarre di una prigione.
La domanda che sale più spesso dalla società civile è: quale paese ci avete dato dopo una guerra di liberazione che tutti hanno pagato a caro prezzo? Almeno l’80% dei bangladeshi sono poveri, speranza di vita e reddito sono tra i più bassi al mondo; libertà civili e democrazia vedono seri limiti. «C’è da chiedersi – dice la docente di storia e studiosa delle ripercussioni sociali dei confitti Yasmin Saikia, originaria del Bangladesh – su che cosa basi la pretesa di guidare il paese la leadership attuale, che si propone come erede dell’esperienza della guerra di liberazione. Troppi servono i propri movimenti politici e non la popolazione che resta divisa per origine e opportunità».
«Oggi – dice ancora la dottoressa Saikia – davanti a una storiografia ufficiale che continua a parlare di eroi, di personaggi eccezionali e non della gente comune che la guerra ha vissuto e sofferto, la popolazione non è incoraggiata a evolversi verso un dialogo reale tra le parti intee e con gli altri paesi del conflitto per puntare alla riconciliazione».
La recente ondata di arresti e di incriminazioni per crimini di guerra di esponenti della politica islamista radicale, personaggi non a caso all’opposizione nel Parlamento, ha più il sapore della vendetta che della giustizia.
Il Tribunale per i crimini inteazionali creato nel 2010 dal governo con l’intento di giudicare i leader collaborazionisti con il Pakistan Occidentale, ha finora sollevato più critiche che entusiasmo, non avendo alcuna legittimazione internazionale, che il Bangladesh non ha cercato.
Quello che la storia non racconta, in un difficile bilanciamento tra i massacri descritti con dovizia sui libri di testo e la realtà che fu di sofferenza di più popoli, è una verità che va emergendo oggi, a quattro decadi di distanza. A chiederla, la storia e le società civili dei paesi coinvolti nel conflitto: a portarlo avanti, in modo non sempre specchiato, le autorità che hanno riscoperto come sofferenze antiche e antichi rancori possano oggi coprire mancanze e promesse tradite.
Come sottolineato da Taslima Nasreen, la più conosciuta scrittrice del Bangladesh, in esilio perché minacciata di morte dai fondamentalisti islamici nel suo paese, «forse per i ricercatori inteazionali, il Bangladesh non è importante. Tuttavia, i cittadini del mio paese hanno ora la possibilità di diventare liberi pensatori, devono trovare il coraggio e l’orgoglio di condividere le proprie vicende passate con il mondo».

FEDI E CHIESA
In Bangladesh su una popolazione di circa 170 milioni di cittadini, i musulmani sono oltre l’85%, gli indù il 10%, i buddisti lo 0,6%, i cristiani lo 0,3%. Come nella confinante India, le problematiche delle fedi minoritarie si intrecciano con quella delle etnie meno favorite dalla storia e dal numero. Le minoranze, e fra esse gruppi consistenti come Oraon e Santal, non essendo contemplate e garantite in alcun modo dalla Costituzione, hanno scarse possibilità di sviluppo ed emancipazione.
La Chiesa denuncia da tempo come i loro diritti siano negati e calpestati. In gran numero e in modo sovente ignorato subiscono quotidiane discriminazioni, abusi e violenze da parte dei connazionali di fede musulmana, maggioritaria nel paese, nel disinteresse se non con la complicità di funzionari di polizia, pubblica amministrazione e magistratura.
Secondo un rapporto di qualche tempo fa, in parte diffuso dall’Agenzia Fides, le minoranze «sono spesso defraudate indebitamente della terra che hanno coltivato o delle case che hanno abitato per secoli; le donne subiscono stupri, sequestri, conversioni e matrimoni forzati; i cittadini non musulmani sono discriminati nella ricerca di lavoro e nell’istruzione. Vi sono violazioni aperte e continue dei diritti umani fondamentali, senza che nessuno intervenga».
Proprio perché tra le minoranze la Chiesa locale, e per molti decenni a partire dalla fine dell’Ottocento la missione ad gentes, ha lavorato non solo in termini di evangelizzazione ma anche e soprattutto di promozione umana, esse sono al centro delle molte iniziative di sostegno alla ricerca di giustizia e dignità. Come Hotline Human Rights Bangladesh, creata con il sostegno della Commissione Giustizia e Pace dei vescovi del paese, per monitorare il rispetto dei diritti umani; oppure di azione concreta sul territorio come il Resource Centre for Christian Youth in Bangladesh, attiva tra i gruppi etnici e le comunità indù, buddista e cristiana.

Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




Speranza senza confini

Reportage dalle missioni della Rift Valley: Heka (2)

Diceva Nyerere: «L’istruzione non è un modo per sfuggire alla povertà, ma uno strumento per combatterla». Un sogno rimasto nel cassetto in molte zone del Tanzania, ma non ad Heka, dove i missionari della Consolata lo hanno preso sul serio, dedicando energie fisiche e materiali alla scolarizzazione a cominciare dai più piccoli con la costruzione di asili nella maggior parte delle comunità della parrocchia.

DESERTO ON THE ROAD FINO Ad HEKA
Nell’auto guidata dal diacono Marco Turra, continuo il mio viaggio nel cuore della Rift Valley. Un paesaggio piegato dalla siccità. Scheletri di capanne abbandonate nella sabbia; bambini che pascolano mucche scheletriche. Il vento caldo continua ad abbronzarmi il viso, ormai bruciato da un sole implacabile. Attraversiamo villaggi stremati dal caldo e dalla siccità.
Nonostante il sole sia alto, gruppi di donne con i bambini sulla schiena avvolti nelle kange continuano con metodi arcaici a zappare i campi e a piantare nella speranza che prima o poi arrivi la pioggia. Il detto «la speranza è l’ultima a morire» sarà stato coniato qui. Ci avviciniamo a una pozzanghera che ha riempito un enorme buco nella strada, Marco rallenta e davanti ai nostri occhi un uomo con una tazza riempie un secchio di quell’acqua nera, melmosa, sporca. Alzo la macchinetta e capisco che non ha problemi a farsi fotografare ma il suo sguardo mi ghiaccia il cuore.
Dopo svariate ore arriviamo alla missione di Heka. C’è padre Saverio Diaz ad accoglierci e a offrirci subito da bere. Conosce bene l’effetto del caldo di questi posti. Colombiano, dai modi eleganti, inizia a rispondere alle mie domande con grande discrezione. «Sono stato tanti anni in Colombia. Dopo il 25° anno di sacerdozio ho chiesto di voler andare in missione in un altro continente e così mi hanno mandato in Tanzania. Ad Heka siamo in due: il kenyano Steven Muta e io. Le difficoltà del posto le avrai già capite. L’acqua è davvero un dramma. Abbiamo scavato qualche pozzo ma non basta. Siamo impegnati nella formazione per lo sviluppo di questa zona e della gente attraverso la costruzione di asili, il sostegno e la formazione dei maestri e andiamo a insegnare nelle scuole secondarie perché qui non ci sono nemmeno maestri. Padre Steven infatti insegna oltre che religione anche matematica nelle secondarie per sopperire alla mancanza di insegnanti. Abbiamo 22 asili nei villaggi vicini alla missione. Ciascun asilo ha dai trenta ai centoventi bambini. Il mio obiettivo è costruire asili a dimensione del posto. Qui non si può pensare di fare grandi strutture con costi di gestione enormi. Bisogna ottimizzare e fare strutture semplici, di mattoni non cotti che fanno da asilo durante la settimana e da Chiesa la domenica. Sono strutture che loro possono gestire e mantenere. Io ho sempre puntato sulla collaborazione della gente. Avete bisogno di un asilo?
I genitori portano sabbia, acqua, mattoni, il resto lo mettiamo noi attraverso i nostri benefattori. L’asilo riesce quasi sempre a mantenersi. I genitori pagano 1000 scellini al mese, 6 euro l’anno, per coprire le spese del cibo mentre lo stipendio per la maestra e le divise per i bambini li paghiamo noi. Organizziamo dei seminari di formazione per la gente, per i giovani e per le maestre che di solito vengono scelte dal villaggio quindi non hanno una grande formazione».

GLI ASILI DI PADRE DIAZ
Partiamo alla volta degli asili e ci immergiamo nel bush. Chilometri di terra battuta in un paesaggio che sembra abbandonato quando di colpo spunta un asilo. Ne vedrò diversi. La struttura è simile per tutti: funzionali, colorati, ben tenuti e accoglienti. I bambini sono visibilmente provati dalla fame, ma menomale che almeno qui riescono a mangiare. Padre Saverio mi fa vedere anche una scuola primaria governativa.
«Dicono che hanno speso 6 milioni di scellini per fare i gabinetti. Con quella somma io ci faccio una scuola di mattoni e cemento» precisa il missionario. Arriviamo all’ora dell’uju. Una fila lunghissima di ragazzi aspetta il proprio tuo con la tazza in mano per prendere la razione che gli spetta. Sono davvero tanti. La scuola è semplice, ma piccola per quella moltitudine di ragazzi.
Accanto ad alcuni lotti di terreno padre Saverio mi mostra le aule che sta costruendo proprio perché la scuola è piccola. Andremo a vedere anche un’altra scuola in costruzione finanziata dal S.O.S. di Padova che oltre a finanziare circa 70 borse di studio per ragazzi, sta aiutando nelle costruzioni. Conoscerò un missionario davvero capace di amministrare alla grande quei soldi che per una zona simile sono sempre troppo pochi.
Toiamo alla sede della missione prima che i bambini dell’asilo parrocchiale vadano a casa. Scendo dal fuoristrada che sono letteralmente assaltata da un centinaio di bambini bellissimi che mi vengono incontro, abbracciandomi e prendendomi la mano. Si vede che sono abituati a vedere i volontari. Per niente spaventati come i bambini dei villaggi, iniziano a cantare, a salutarmi in italiano e in inglese.
La scuola è ben tenuta, le maestre sono accoglienti e capaci. Disegni di animali e di fiori avvolgono le pareti estee e intee della scuola. C’è davvero poca differenza con i nostri asili.
Nella missione c’è anche un dispensario costruito e tuttora sostenuto dalla famiglia di Vittorio Bosco di Torino. Il dispensario è gestito dalle suore. È poco frequentato in questo tempo. Una suora mi spiega che tra le malattie maggiormente diffuse ci sono la malaria, infezioni intestinali e infezioni alla pelle dovute alla mancanza di acqua e di igiene. L’aids poi è ormai estremamente diffusa anche qui. Infatti hanno delle stanze apposite per la prevenzione, analisi e terapia dell’aids.
Toiamo nella casa parrocchiale e continuiamo a parlare, mentre aspettiamo che torni padre Steven da scuola per far pranzo.

ASCOLTANDO PADRE DIAZ
Padre Saverio è un profondo conoscitore delle varie etnie del Tanzania. Mi conferma molte cose già dette da altri missionari sui wasukuma e sui wagogo, come il loro perseverare nel vivere in maniera povera e senza migliorare le proprie condizioni di vita e delle case. La motivazione di ciò è dovuta alla loro superstizione: sono convinti che il male viene dall’invidia. Mi racconta la storia di un ragazzo che lui aveva aiutato per continuare gli studi. «Era diventato un bravo falegname e aveva iniziato a lavorare, riuscendo a mettere da parte anche qualche soldo. A un certo punto questo ragazzo si ammala di tumore e muore. Sono andato dalla famiglia dicendo loro che con i soldi che il ragazzo aveva messo da parte, volevo costruire una casa in cemento per loro. I parenti si sono opposti con resistenza per paura che migliorare la loro condizione, potesse portare la gente a ingelosirsi e a fare malefici. Ho comunque costruito la casa per reinvestire al meglio i soldi del ragazzo e la nonna e il resto della famiglia per più di un anno non sono entrati nella casa, rimanevano fuori durante il giorno e la notte tornavano nelle loro capanne per paura della sciagura che poteva abbattersi su di loro».

UNA NUVOLA DI POLVERE
Vedo arrivare una nuvola di polvere… sembra quasi un cartone animato. È padre Steven in moto, di ritorno dalle sue ore di insegnamento ai ragazzi di una scuola superiore. Dopo pranzo mi soffermerò a parlare con lui. Sono solo due i missionari ad Heka. Padre Steven oltre a occuparsi dell’amministrazione della missione, fa catechesi e organizza seminari per i giovani della zona, prepara i catechisti, fa pastorale e segue le jumuiya ndogo ndogo, ossia le piccole comunità di base. Mi ripete gli stessi problemi che ho toccato con mano anch’io.
Con padre Steven c’è un ragazzo, ventenne: Novastus. È un giovane che insegna matematica nelle secondarie. Viene da Sadani, una zona nella diocesi di Iringa, dove i missionari della Consolata hanno una missione. «Ho conosciuto i missionari della Consolata durante la scuola secondaria – racconta -. Quello che mi ha colpito da subito di loro è stato il sacrificio e la capacità di mettere insieme persone di culture diverse con professionalità e stile. Io provengo da una famiglia povera e ho avuto la fortuna di incontrare i missionari della Consolata che mi hanno aiutato non solo a studiare ma anche a crescere, a capire cosa volevo fare, come farlo e chi volevo diventare da grande. Sto bene con loro e vorrei continuare a seguirli proprio per apprendere il loro modo di stare con e in mezzo alle persone».
Chiedo a Novastus come vede il suo paese e cosa possono ancora fare i missionari della Consolata in Tanzania. «C’è uno sviluppo economico molto veloce in Tanzania, che però non va di pari passo con quello sociale. Dal punto di vista politico sembra che qualcosa possa migliorare, quindi anche le politiche sociali e assistenziali. Dovrebbe esserci una struttura che controlli bene le risorse che vengono spese nella formazione di maestri e di studenti, perché le differenze tra le zone sono enormi. Pensa alla diversità tra la regione di Iringa e questa. Tanti soldi vengono investiti male, per non dire che finiscono nelle mani di gente che non pensa allo sviluppo culturale, sociale e sanitario. I missionari possono continuare ad aiutarci solo investendo nella formazione: dall’asilo all’università. Solo la formazione culturale può sviluppare e migliorare la realtà. E se tu entri in un asilo o in una scuola dei missionari della Consolata capisci quest’attenzione globale alla persona».
Prima di ripartire per Sanza padre Saverio mi fa vedere la chiesa nuova che hanno finito da poco. Passiamo prima davanti a quella vecchia che è stata sostituita perché troppo piccola.
Entro nella nuova chiesa: è semplice ma elegante, proprio come padre Diaz che è un grande artista. I disegni originali e i mosaici sono opera sua come le modifiche alla struttura tecnica della chiesa per via del caldo. L’anima sudamericana si fonde con il ritmo africano e il risultato è spettacolare.

Romina Remigio

Romina Remigio




Sangue e orgoglio

Reportage dal cuore delle rivolta

La rivoluzione egiziana compie un anno. Ma il regime in carica sembra aver cambiato solo la testa. Le elezioni sono vinte dai Fratelli Musulmani.
Ora si attende il passaggio di potere ai civili e  le prossime mosse del nuovo governo.

Egitto, venerdì 18 novembre. Milioni di persone affollano le piazze, colorandole di bandiere rosso-nere e bianche: «Via il regime militare. Vogliamo la democrazia e la libertà», è il mo-nito lanciato dagli egiziani, che danno vita a una protesta pacifica, rispondendo all’appello del movimento dei Fratelli Musulmani (Fm), uno degli attori politici più significativi nel nuovo «risveglio arabo». Non ci sono né morti né feriti, quel giorno. Il successo di pubblico è enorme. I giornali arabi escono con foto di piazze gremite e con articoli a tutta pagina. Parlano di regia dei Fm e della presenza dei salafiti. I due gruppi islamisti, con ideolo-gie e basi sociali molto differenti, si contendono la scena egiziana.
Il giorno dopo, invece, le piazze si tingono di rosso sangue: la polizia carica la folla e provoca 600 feriti.
Il Cairo, 20 novembre, ore 9. Oltrepassiamo Qasr el-Nil e ci dirigiamo verso una delle più famose piazze del mondo: Midan Tahrir, al centro, nel gennaio del 2011, di manifestazioni contro il trentennale regime del dittatore Hosni Mubarak, dimessosi poi l’11 febbraio.
Al centro della piazza si trova una grande rotonda spartitraffico; a Nord Est, è visibile la statua di Omar Makram, eroe nazionale che combatté contro Napoleone. Nell’area ci sono anche il famosissimo museo Egizio, il quartier generale della Lega Araba e altri importanti edifici.
Man mano che ci avviciniamo, la strada si riempie di gente. Prima di entrare nella piazza, siamo fermati a un posto di blocco volante, allestito dai manifestanti per tentare di evitare l’infiltrazione di spie, provocatori, «servizi» vari.
All’interno dell’enorme piazza ci sono già migliaia di persone, soprattutto giovani. Spieghiamo che siamo giornalisti italiani e che vogliamo registrare la manifestazione. Sembrano contenti: un simpatico adolescente si offre di accompagnarci. Questo ci permette di andare in giro con tranquillità, senza destare sospetti (stranieri che fotografano in un luogo come questo potrebbero essere solo giornalisti o spie). In generale, sono contenti che la loro lotta di liberazione riceva attenzione.

Rivolta popolare
Il cielo grigio-smog del Cairo sovrasta case, alberi e persone, dando un senso di immaninza e pericolo a tutte le azioni che si compiono. La piazza si riempie di manifestanti che giungono da tutti i quartieri della capitale, e anche da fuori. Giovani e vecchi si ritrovano per strada, si salutano, si sorridono, discutono, si organizzano. La lotta contro il regime militare ha coalizzato gran parte degli egiziani, soprattutto le classi popolari e medie, gli studenti, gli intellettuali.
Con il passare dei minuti, il clima diventa sempre più pesante, e non solo per il devastante inquinamento. Le facce sono tese: l’esercito e la polizia sono pronte ad attaccare i manifestanti. I ragazzi, cellulare all’orecchio, chiamano a raccolta i loro amici o raccontano la cro-naca momento per momento a chi sta «postando» notizie sulle pagine di Facebook, o su Twit-ter. Sono i social network che hanno fatto conoscere a tutto il mondo le «primavere arabe», scoppiate a dicembre del 2010 con la rivolta in Tunisia e seguite da Egitto e altri paesi.
Tra un lampione e l’altro sventolano bandiere egiziane di questo o quel partito, di sindacati, di gruppi giovanili. Per terra, sono ancora visibili i segni di altre manifestazioni.
Qua e là, venditori ambulanti offrono maschere anti-gas. Ce ne sarà presto bisogno. Dietro Midan Tahrir, verso via Mohammed Mahmoud, i militari stanno facendo un pesante uso di lacrimogeni, e il fumo avvolge ormai tutta l’area. Una moltitudine inizia a dirigersi verso il punto di «contatto» con esercito e polizia, mentre un corteo sta già sfilando in una via laterale urlando slogan. Le forze di polizia attaccano la folla, si inizia a correre per trovare riparo.
Questa è la realtà quasi quotidiana del Cairo e dell’Egitto tutto.

A quando il cambiamento?
La rivoluzione del 25 gennaio 2011 ha solo «tagliato la testa» al regime, senza sconfiggerlo. Il «corpo» è rimasto intatto, o quasi, e si è rafforzato. La nomenklatura militare ha il con-trollo dei settori più importanti della società: mediatico, politico ed economico.
La gente continua a manifestare, a morire nelle piazze, a sparire nelle prigioni, ad essere ferita, torturata, ma non cede: è una resistenza popolare determinata al cambiamento, questa volta definitivo. Questo ci spiegano le persone con le quali parliamo.
«Non sappiamo come andrà a finire – ci dice un manifestante -. Il regime non molla, ma neanche noi. Da gennaio (2011, ndr) è cambiata solo la facciata, il resto è uguale, con qualche lieve miglioramento».
Il 25 novembre ci rechiamo nuovamente in piazza Tahrir. La piazza è piena di gente, di famiglie con bambini, di ragazzini: è il nuovo Egitto che vuole nascere e vivere, senza più paura di repressioni e torture. Bancarelle sparse qua e là vendono «souvenir» della rivoluzione: bandiere, T-shirt, cappelli, spille, le consuete maschere anti-gas, kefiah, e ogni sorta di gadget che ricordi il «25 gennaio 2011». E non mancano i carretti con cibo e bevande.
Seduta per terra, contro un furgone, una mamma in hijab (velo islamico) e fascia tricolore egiziana, tiene in braccio un bimbo di pochi mesi, mentre vende braccialetti e altri oggetti. Poco dopo arriva il marito, e ci spiega che loro sono lì, tutti e tre, da mesi, per partecipare alla rivolta contro il regime (di Mubarak prima e militare dopo).
Altri ragazzi si lasciano fotografare davanti alle tende dei sit-in permanenti; altri, mentre suonano e chiacchierano su tappeti. Altri ancora sono arrampicati su pali della luce o sui leoni con occhi bendati del ponte di Qasr el-Nil, divenuti simbolo del «Leone d’Egitto» accecato e uscito di scena (Mubarak).
È la vita quotidiana che è scesa in piazza, per chiedere giustizia e libertà, come recita il nome del partito che uscirà vincente dalle elezioni parlamentari.

Avanti, a oltranza
Ci avviciniamo a un’area «calda» della piazza, dove, più tardi, sarebbero scoppiati altri scontri tra dimostranti ed esercito, e veniamo bloccati a un «check-point» popolare: sono ragazzi e ragazze cordiali e pronti a dare spiegazioni sugli eventi in corso e i problemi che attraversa l’Egitto. Uno di loro, Mustafa, un giovane ingegnere e «generale del gruppo rivoluzionario», ci racconta: «I militari se ne devono andare. Siamo noi a dare ordini a loro: andatevene, diciamo. Non sappiamo cosa succederà nei prossimi mesi, ma abbiamo diversi piani. Quando arriveranno, li affronteremo a mani nude. Siamo a un punto di non ritorno: andremo avanti fino alla morte, se sarà necessario».
Ahmed è uno dei tanti manifestanti adulti. È un commerciante, e membro dei Fratelli Musulmani. Tutti i giorni partecipa alle proteste popolari: «La gente è contro l’esercito. Ci sono stati troppi morti e troppi feriti. Non possono continuare a spararci addosso. Hanno usato persino il gas nervino.
I Fratelli Musulmani, come organizzazione, sono andati poco in piazza, perché temono la presenza di infiltrati, di provocatori, persone ignoranti, sostenitori di Mubarak. Questi ultimi sono ben conosciuti dalla polizia, che li usa. Collaborano, creano disordini e foiscono alle forze militari il pretesto per attaccare la folla che manifesta. Ci sono egiziani al soldo di Israele e degli Stati Uniti. Il regime israeliano ha paura del movimento dei Fm, perché sa che se questo vincerà le elezioni, i rapporti cambieranno a favore dei palestinesi.
La popolazione aspetta un nuovo governo, democratico, giusto, che cambi tutto il sistema malato egiziano, e che tronchi i rapporti con Israele».

Ancora violenza
La settimana che va dal 18 al 25 novembre è contrassegnata da un bilancio di vittime della violenza di stato molto alto: 40 morti e migliaia di feriti.
Il 21, il movimento dei Fratelli Musulmani, che si presenta alle elezioni con il Partito «Freedom and Justice, Fjp» (Giustizia e Libertà), diffonde un comunicato stampa in cui critica lo Scaf (Supremo consiglio delle forze armate egiziane) per gli «eventi di sangue», e chiede l’apertura di un’inchiesta, le dimissioni del governo militare, leggi anticorruzione, il passaggio dei poteri a un’amministrazione civile entro la metà del 2012.
Mentre sono in corso le elezioni parlamentari, ripartite in tre tui, e iniziate il 28 novembre, proseguono le manifestazioni e la repressione da parte dell’esercito. Uno degli episodi che fa il giro del mondo, grazie al video diffuso via Inteet è quello del 17 dicembre, quando una giovane donna viene brutalmente picchiata dalla polizia, in piazza Tahrir.
Anche il mese di dicembre è contrassegnato da scontri e vittime. Nonostante l’evidente ri-chiesta popolare di libertà e giustizia, il regime militare non molla le redini del potere, e continua a reprimere i manifestanti.

Fratelli vittoriosi
Domenica 14 gennaio è l’ultima giornata elettorale: i Fratelli Musulmani, con il loro Fjp ottengono il 46% dei seggi parlamentari. Di fatto sono il partito più forte dello schieramento politico egiziano. Il 16, il partito annuncia la nomina del proprio segretario generale, Mohamed Saad al-Katany, come candidato alla presidenza del nuovo parlamento egiziano, che viene eletto all’apertura dei lavori il 23 gennaio.
I due vice-presidenti apparterranno agli altri due schieramenti che hanno ottenuto i maggiori risultati: il salafita «Nour Party» (il Partito della Luce), e il liberale «Wafd».
I leader del Fjp ribadiscono l’impegno a raggiungere gli obiettivi della rivoluzione.
In un articolo pubblicato dal quotidiano «Al Masry al Youm» il 16 gennaio, Katany afferma:
«La priorità di questo parlamento saranno i diritti dei martiri e dei feriti della rivoluzione. Il parlamento lavorerà per andare incontro alle aspirazioni della rivoluzione sia a livello legislativo sia di controllo. Il parlamento non escluderà alcun partito, al di là della sua rappresentatività (…). È tempo di accordi, non di competizione».
Lo stesso segretario generale aggiunge che il parlamento collaborerà sia con lo Scaf sia con il governo del primo ministro Kamal al-Ganzouri, fino a che il potere passerà nelle mani di un governo eletto.
Secondo quanto prevede l’agenda stabilita dal regime militare, ciò dovrebbe accadere a lu-glio. Mercoledì 25 gennaio, primo anniversario della Rivoluzione, migliaia di cittadini si danno appuntamento a piazza Tahrir, per chiedere la fine della giunta militare e il passaggio a un governo civile.
La folla intona slogan contro i leader militari e sventolano striscioni contro il regime instauratosi dopo la caduta di Mubarak. Due giorni prima, Tantawi aveva annunciato la parziale rimozione dello stato di emergenza, in vigore da decenni nel Paese. La decisione è parsa più un tentativo di blandire il popolo egiziano e di impedire nuove manifestazioni, che un vero e proprio cambiamento di direzione.
La rivoluzione del 25 gennaio e la caduta di Mubarak avevano scatenato grandi speranze e aspettative, che sono andate deluse: lo Scaf occupa con la forza e la repressione il trono lasciato libero dal «Faraone». Le recenti elezioni parlamentari, che hanno dato la vittoria ai movimenti islamici, e le manifestazioni di piazza che non s’arrestano, sono un chiaro messaggio alla giunta militare: «Andatevene!». Resta da vedere se l’esercito, abituato a governare l’Egitto da molti decenni, lascerà ai civili tutti i poteri come aveva promesso un anno fa. E se i Fratelli Musulmani sapranno mantenere le promesse di cambiamento, giustizia sociale ed economica, democrazia e libertà.

Angela Lano

Angela Lano




La terra contesa

Conversazione con padre José Auletta

Un’ora di dialogo, 35 anni di esperienza missionaria, e di storia Argentina. Sullo sfondo, senza tempo, la maternità (ferita) della Terra, il ventre da cui nascono quei popoli indigeni con i quali padre José Auletta vive e lotta da sempre.

Seduto al bar dell’aeroporto di Jujui di fronte a una tazzina di caffè. Tra le dita una bustina di zucchero «Chango», quello prodotto dall’industria agroalimentare contro cui padre José stava lottando insieme alla comunità indigena del Rio Branco banda sur per farle riconoscere il suo diritto alla terra ancestrale. Gli occhi lucidi di commozione per la nostra partenza che sarebbe avvenuta da lì a poche decine di minuti. Il missionario dalle parole e dai gesti chiari (e duri) in favore dei poveri e capace di parole e gesti altrettanto chiari in favore dell’amicizia, ci ha lasciato questa immagine di sé tra quelle più vivide del nostro soggiorno di qualche tempo fa presso di lui nel Nord dell’Argentina.

Ne sentiamo la voce risuonare nei corridoi della redazione e lo vediamo comparire con il suo sorriso che non nasconde mai un pizzico di ironia.

Non è cambiato nell’aspetto: nonostante ci parli di qualche acciacco, e dello stress degli ultimi mesi di intenso lavoro, ci sembra in forma. Come sempre, quando saluta una persona – che abbia 3 o 93 anni – si avvicina, ci abbraccia calorosamente, ci prende il viso tra le mani chiedendo come stiamo. Noi ne approfittiamo subito per farci raccontare qualche sua impressione sul suo paese d’adozione, sul suo lavoro.

Dal ’76 dei Generali all ’11 dei Kirchner

Padre Giuseppe Auletta, Pino per noi, José per la sua gente argentina, originario di Calciano, in provincia di Matera, è arrivato in Argentina nel 1976, tre anni dopo la sua ordinazione sacerdotale, otto mesi dopo l’inizio, il 24 marzo, della dittatura militare. In trentacinque anni di missione nel paese della Boca e del tango ha assistito ai suoi grandi cambiamenti: «Sono arrivato senza neppure sapere cosa stesse succedendo. Man mano che sono venuto a conoscenza della situazione ho compreso meglio la sofferenza del popolo, della nazione e tutto lo sforzo che si è fatto per tornare al regime democratico alla fine del 1983».

Padre José assume un tono vagamente didattico mentre parla del difficile cammino della democrazia in Argentina: «Ho visto come il paese cominciava a riprendersi, innanzitutto in quanto popolo, secondariamente dal punto di vista economico. Ci sono stati alti e bassi, c’è stato il grande inganno della parità dollaro-peso con la presidenza di Saul Carlos Menem negli anni ‘90: un sistema monetario che alla lunga ha portato alla crisi del 2001-2002. Quelli sono stati anni molto critici non solo dal punto di vista economico, ma anche della stabilità democratica. Grazie a Dio anche quella fase è stata superata, e ora siamo nell’epoca Kirchner, prima con Nestor, e adesso con Cristina».

Un guizzo improvviso nello sguardo del missionario e un leggero cambio di registro nella sua voce ci fa intuire il tema sul quale vuole proseguire la sua breve carrellata dei grandi cambiamenti avvenuti nella società argentina degli ultimi trentacinque anni: «C’è da registrare un avvenimento molto importante collocato nell’estate del 1994: l’Argentina ha rinnovato la sua Costituzione riconoscendo, finalmente, i diritti dei popoli indigeni. Ci vuole ancora un lungo cammino perché dalle parole scritte si passi a un riconoscimento effettivo dei loro diritti, però intanto un passo significativo è stato fatto. Il 12 agosto del 1994 è stata approvata la nuova Carta fondamentale, e proprio negli ultimi giorni precedenti quella data, dopo un confronto con diversi gruppi etnici, è stato approvato l’inciso – non un articolo, ma un inciso – 17 dell’articolo 75 che riconosce i popoli indigeni come popoli originari con diritto alla terra, alla propria educazione, alla propria organizzazione e con diritto ad essere consultati quando i loro interessi si vedessero messi in discussione».

Tra populismo, crisi ambientale e multinazionali

Conosciamo bene l’amore del missionario lucano per i popoli indigeni e sappiamo che il tempo a nostra disposizione potrebbe facilmente trascorrere parlando esclusivamente di loro. Già la segnalazione del citato inciso 17 mostra il suo desiderio di raccontare della sua passione. Lo prendiamo in contropiede chiedendogli se se la sente di darci ancora qualche spunto generale sull’Argentina: «Dal punto di vista sociale i dati parlano di un calo della povertà. Questo è, ovviamente, molto positivo, se non fosse che i programmi che hanno permesso questo calo rischiano di essere assistenzialisti, e hanno uno scopo populista: sono interventi basati sull’aiuto (sussidi per famiglie molto numerose, per le ragazze madri, ecc.), basati sul dare per poter poi ricattare. Questo è uno degli aspetti che mi fa sostenere la necessità di un perfezionamento del regime democratico argentino: oggi – come succede anche in Italia – il movimento politico, più che a coinvolgere le persone con coscienza critica, tende a usarle».

Assieme al tema della povertà e del populismo, padre Auletta ci parla di uno dei problemi cardinali per l’Argentina e per l’America Latina: quello della terra. «Il tema ambientale è molto serio: si è sempre data ampia libertà alle imprese nazionali, e soprattutto interazionali, di comprare grandi estensioni di terra in tutte le latitudini. La soia ha invaso e distrutto zone intere dell’Argentina, danneggiando soprattutto, guarda caso, quelle in cui abitano le comunità indigene. Si vendono non solo i territori, ma anche le persone che vi abitano. Comunità intere si ritrovano senza casa né sostentamento e si vedono costrette a emigrare, nutrendo così il fenomeno dell’urbanizzazione disordinata e degli insediamenti precari». Anche nella città in cui il missionario ha lavorato fino a pochi mesi fa, San Ramon de la Nueva Oran, in provincia di Salta, si vedono da un momento all’altro nascere insediamenti di venti, trenta, cento famiglie in un pezzo di terra limitato, dando luogo a volte ad aspri conflitti per la sopravvivenza.

«Purtroppo lo Stato non ha messo limiti alla vendita della terra e di conseguenza ci ritroviamo con una Benetton – tanto per dire che anche noi italiani abbiamo le nostre responsabilità – che diventa padrona di un milione di ettari nel Sud, nella Patagonia, strappando la terra agli indigeni di quelle zone. Molte grandi multinazionali comprano terra in quantità, nonostante ultimamente la presidente Cristina Kirchner abbia cercato di introdurre un progetto di legge per limitarne la vendita».

Anche quello dei biocarburanti è un tema caldo: «È diventato una delle scuse per estendere l’area da deforestare. Nella nostra zona abbiamo assistito a disastri ambientali enormi. Per fare un esempio: qualche tempo fa una frana ha invaso nel giro di mezz’ora gran parte della città di Tartagal, la terza città della provincia di Salta. In quei momenti terribili si vedevano venire giù tronchi di alberi mescolati al fango: lo smottamento era stato causato dalla deforestazione, negata sfacciatamente dal sindaco, casualmente proprietario di una falegnameria».

I mass media e il calcio

L’esempio del politico proprietario di aziende ci stimola a orientare la nostra chiacchierata con padre Auletta sul tema dei mass-media. Abbiamo infatti avuto notizia di un disegno di legge argentino che vorrebbe limitare l’espansione degli oligopoli mediatici, e chiediamo al nostro interlocutore il suo parere a riguardo: «Penso che sia una sorta di guerra del governo che si sente toccato nei suoi interessi dal gruppo capeggiato dal quotidiano El Clarin. In effetti, bisogna riconoscere che questo ha le mani su una grossa fetta del panorama mediatico del paese: non possiede solo il giornale, ma anche diversi canali televisivi, case editrici, addirittura l’approvvigionamento della carta. È oggettivo che sia una minaccia. Quindi è stata varata e poi approvata la legge che dovrebbe limitare la concentrazione di proprietà dei mass-media. Il problema è che il governo tende a fare come El Clarin: sta riunendo diversi canali televisivi simpatizzanti che stigmatizzano come nemico chiunque esprime una qualche contrarietà rispetto al suo operato. Bisognerebbe invertire questa tendenza, e vedere riconosciuta a tutti la libertà di pensiero, di espressione. Al momento una vera libertà non c’è perché economicamente, commercialmente, è facile essere soggetti al taglio dei mezzi e delle possibilità».

Rimanendo sul tema dei media accenniamo di aver sentito di un’altra legge per la quale le partite di calcio in Argentina possono essere trasmesse solo dalla televisione pubblica. Ci chiediamo se questo non sia un segno di quanto il calcio in quel paese sia vissuto come un diritto inalienabile (che quindi lo Stato deve garantire), o una religione. Il missionario prosegue la sua riflessione sulle strategie populiste del governo: «Anche questa è stata una mossa per assicurarsi la simpatia del popolo argentino, sapendo che esso, come quello italiano, non può restare senza calcio. Assicurare la trasmissione gratuita delle partite è un’azione che raccoglie il consenso di tutti».

Figli della terra

Una buona fetta del tempo che ci eravamo dati per la nostra chiacchierata è consumata, è arrivato quindi il momento di chiedere a padre José di parlare del suo amore incondizionato per gli indigeni. In Argentina fino a tre decenni fa non c’era nemmeno la consapevolezza della presenza di popoli nativi all’interno dei suoi confini. Oggi questa è maggiore, benché ci sia ancora molto cammino da fare perché il mezzo milione di indigeni argentini, suddivisi in diversi gruppi etnici e sparsi su tutto il territorio nazionale, vengano percepiti come soggetti di diritti. «Dal 1990 ho avuto la grazia di vivere per 10 anni con gli indios Tobas nella colonia aborigena Chaco. Con loro ho scoperto il bisogno di vivere in una terra sentendomene figlio, non proprietario, ma figlio. Grazie a Dio ho potuto accompagnare la comunità nel cammino per il titolo comunitario della terra arrivato nel 1996. Nel frattempo ho collaborato anche in altri progetti infrastrutturali: strade intee, centri comunitari, piccoli progetti di case portati avanti con il sistema dell’aiuto vicendevole e dell’autocostruzione, però l’asse portante della mia esperienza è sempre stato quello di tendere ad essere figli, e non ospiti, della terra».

Quella del Chaco è stata la prima importante tappa di innamoramento di padre Auletta per gli indigeni. Una seconda tappa è stata quella di Oran, conclusasi pochi mesi fa, dove ha lottato accanto a una comunità di Tupì-Guaranì per il diritto a vivere e lavorare sulla loro terra ancestrale dalla quale erano stati sfrattati (ma in seguito riammessi), anche violentemente, da un’azienda agroalimentare facente parte della Seabord Corporation, multinazionale Usa. «In questa e nelle altre comunità native accompagnate negli anni di Oran ho potuto ammirare la loro costanza nella fiducia, la loro testarda speranza, di poter arrivare a sperimentare di essere figli della terra. Non siamo arrivati a ottenere il titolo comunitario, ma è in atto un confronto legale che in questo momento comunque sta garantendo alle comunità una relativa tranquillità nella loro terra». Il missionario lucano è visibilmente emozionato nel parlare della «sua gente»: «Queste comunità mi hanno dato un esempio di resistenza e di fiducia nella giustizia, sempre pacifiche, convinte del loro diritto, però con uno spirito di pace». E ricordando gli ultimi momenti trascorsi a Oran si commuove, interrompendosi, ma senza sentirsi in imbarazzo per quell’affetto che è frutto e strumento della missione: «Quando ci siamo salutati, hanno ricordato tutti i momenti trascorsi insieme, ringraziandomi e esprimendo il loro affetto per me. Quando si sono espressi così io mi sono sentito piccolo, come un seme che ho cercato di essere per loro e con loro. Veramente posso dire di avere, più che dato, imparato e ricevuto».

Il «buen vivir»

Padre José a Oran era parroco in un territorio non indigeno, ed è entrato in contatto con la realtà indigena grazie alla sua partecipazione a un’equipe interpastorale di cui ci parla come di un’esperienza molto interessante: «Essa è sorta quando la comunità era stata sfrattata dalla sua terra e aveva vissuto sulla strada, la nazionale 50, quasi cinquanta giorni con sole, pioggia, freddo. Allora ci riunimmo, membri delle diverse pastorali diocesane e scegliemmo il tema «terra» come l’asse portante su cui girano la maggior parte dei problemi, costituendo l’equipe interpastorale con la quale hanno iniziato a collaborare anche persone senza un’identificazione cristiana specifica come alcuni avvocati che stanno dando un loro contributo importantissimo. Questa equipe ha fatto sì che s’intervenisse, non solo su situazioni concrete come i conflitti fondiari, ma anche sulla sensibilizzazione della società bisognosa di essere messa al corrente della realtà culturale, sociale, giuridica dei popoli indigeni attraverso alcuni convegni sul tema dell’interculturalità. Il recupero dell’identità indigena è un cammino per gli indigeni stessi che nei decenni passati erano arrivati addirittura a vergognarsi di ciò che erano, mentre il loro specifico culturale, linguistico, religioso è una ricchezza straordinaria che andrebbe condivisa con tutti: se parliamo, ad esempio, anche solo della loro vita improntata all’equilibrio con l’ambiente, sarebbero veramente dei buoni maestri per molti. Potrei fare riferimento ad un sistema di vita che sviluppano soprattutto i popoli andini, e magari non solo loro, parlando del “vivere bene”, che è molto diverso dal “vivere meglio a scapito di…”. Vivere bene significa vivere in armonia, economicamente, religiosamente, culturalmente».

Prima di chiudere la nostra conversazione con il solito e, ormai, atteso abbraccio seguito da un cantilenato Muy bien, chiediamo a padre José se può rivelarci la sua prossima destinazione, ma subito capiamo che ancora non sa dove andrà al suo ritorno in Argentina: «Intanto vorrei ricordare le parole con cui mi hanno salutato le comunità. Pur soffrendo per la mia partenza da Oran – perché ci siamo veramente voluti bene – mi han detto: “Che tu possa continuare a fare il bene dovunque ti troverai, come lo hai fatto con noi”. Il mio desiderio è quello di tornare a lavorare con i poveri, con gli indigeni, con i criollos che lottano per una vita più degna. Non sono troppo anziano: mi rimangono ancora un po’ di forze per potermi spendere in realtà come quelle in cui ho lavorato negli ultimi due decenni, anche se gli acciacchi si faranno sentire, però sento che il Signore mi offre ancora questa possibilità».

Luca Lorusso




L’assistenza non è uguale per tutti

Storie di cittadini di serie B

Aricla è una delle tre assistenti sociali del municipio di Kombinat; nel suo lavoro incontra situazioni a volte disperate, soprattutto tra le famiglie ultime arrivate nel quartiere, vittime di discriminazione e burocrazia.

Tutti gli uffici del municipio di Kombinat sono situati al piano terra di un vecchio stabile; l’ingresso è buio e affollato. Subito dopo l’ufficio tecnico-urbanistico (il più ampio e luminoso dell’intera sede, costituita da altre tre stanze e un bagno) vi è l’ufficio dell’Assistenza sociale: uno sgabuzzino dove trovano posto un armadio, un piccolo tavolo con computer e due sedie; le assistenti sociali del comune sono tre, che si avvicendano o si ammassano nello sgabuzzino. Proseguendo vi è il bagno alla turca dove sono anche allocati gli attrezzi per la pulizia e un grande bidone di plastica pieno d’acqua che sopperisce all’assenza dello sciacquone. Le dimensioni del bagno sono uguali a quelle dell’ufficio dell’Assistenza sociale. Accanto al bagno si apre un piccolo corridoio, al fondo del quale sulla sinistra si trova l’ufficio del Sindaco (una donna), modesto e solo un poco più spazioso degli altri; attaccato alla porta dell’ufficio del Sindaco, c’è un piccolo tavolo con l’usciera. Al capo opposto del corridoio c’è l’ufficio del personale e all’ingresso un box adibito a ufficio informazioni. È questa la postazione politico-amministrativa di un quartiere che ufficialmente conta circa 60.000 abitanti, ma che secondo le stime dell’Ong Col’or, supera i 90.000.
Aricla, capelli scuri, lunghi e folti, statura media e robusta è una delle assistenti sociali e sta lavorando. Nell’ufficio non c’è una luce diretta, solo delle vetrate in alto permettono l’ingresso della luce dal vicino ufficio tecnico che a sua volta si affaccia sulla strada. Le condizioni di quest’ufficio costituiscono una metafora adeguata dello stato della pubblica amministrazione e del servizio sociale nel quartiere di Kombinat. L’assistente sociale è cordiale e vivace come la maggior parte della gente di qui. Vive da molto tempo nel quartiere e lavora in quest’ufficio dal 2001, dopo essersi laureata.
Dal 2005 l’unico servizio che assicurano alle famiglie è l’aiuto di tipo economico («non abbiamo nessun altro servizio perché non ci sono i fondi») ed è una legge dello Stato che stabilisce quali tipologie di persone possono fruire di questo aiuto.
Vi è una curiosa differenza di denominazione tra coloro che provengono da altre parti dell’Albania e chi risiede a Kombinat da molti anni: i primi sono denominati árdhur, «nuovo venuto», mentre i secondi sono chiamati «cittadini»; questa differenza nominale è sintomatica della diseguaglianza nella fruizione dell’assistenza.
Eppure la maggior parte delle richieste proviene dai nuovi arrivati, poiché i vecchi residenti sanno quali sono le prassi da seguire per accedere agli aiuti, mentre i nuovi non conoscono come funziona la procedura. Questi ultimi, anche se vivono in condizioni più gravi, non possono ricevere nessun tipo d’aiuto.
«Ci sono casi di famiglie disperate che non possiamo aiutare perché non hanno portato i documenti entro il mese previsto per legge. Noi dobbiamo attenerci alla legge altrimenti possiamo avere dei guai con il ministero del lavoro».
Per accedere all’assistenza economica bisogna dimostrare di essere disoccupati, esibendo il certificato di disoccupazione rilasciato dall’ufficio di collocamento al lavoro; la somma erogata varia secondo le condizioni della famiglia: al capofamiglia spettano 2.600 lekë, ai membri già abili al lavoro 600 lekë e ai figli 700 lekë al mese; una famiglia di tre componenti può giungere a 3.900 lekë al mese (circa 30 euro).
Per intervenire sul grave fenomeno della disoccupazione l’unità municipale di Kombinat in collaborazione con il municipio di Tirana ha realizzato, tra il 2005 e il 2008, un progetto per coloro che erano titolari di assistenza economica ed erano in grado di lavorare. Il progetto prevedeva il loro impiego nella manutenzione e pulizia dell’ambiente; essi ricevevamo una somma di danaro aggiuntiva a quella che percepivano per l’assistenza, che comunque non poteva superare la paga minima di 1.400 lekë (circa 10 euro), e questo intervento veniva denominato «reddito minimo».
L’amministrazione dell’unità municipale non prevede praticamente alcuna forma di assistenza a favore dei minori. L’assistente sociale si limita solo a verificare che una famiglia non può accudire i figli e sulla base della documentazione i minori possono essere inseriti nei centri di accoglienza dello stato. A Kombinat ci sono solo centri diui, gestiti da Ong, e solo a Tirana vi è un centro residenziale.
Anche per l’«evasione scolastica» possono solo registrae l’esistenza: l’autorità scolastica segnala i vari casi, si fanno le verifiche delle situazioni solo presso le famiglie in assistenza o chiedendo informazioni ai parenti o al vicinato, poi tutto finisce lì. Sono soprattutto i bambini rom e quelli molto poveri che non vanno a scuola. Di conseguenza è diffuso il lavoro minorile; essendo il cimitero di Tirana vicino a Kombinat, molti bambini vendono i fiori per i defunti o fanno la pulizia delle tombe.
Secondo Aricla il problema sociale più rilevante nel quartiere è la disoccupazione sempre più grave, che provoca aumento della povertà; con la povertà cresce la violenza in famiglia, soprattutto contro le donne e i bambini; ma anche gli uomini sono vittime di violenza e per loro la situazione è ancora più grave perché hanno più difficoltà a parlarne; e a Kombinat non c’è nessun centro antiviolenza.
Il senso di frustrazione e impotenza di Aricla è evidente e dichiara che, se lei potesse realizzare un sogno da professionista del sociale, innanzitutto cambierebbe la legge sull’assistenza, togliendola alle famiglie che possono lavorare e aiutando quelle che hanno più bisogno, indipendentemente dal loro essere vecchi o nuovi residenti; avvierebbe poi progetti per offrire un lavoro solo a chi ne ha veramente bisogno e infine: «Farei un grande negozio di alimentari sovvenzionato dallo stato dove la gente povera possa prendere il cibo».

Paolo Rossi

Storia di Erion: tassista abusivo
La famiglia di Erion, tassista abusivo, è arrivata a Tirana nel 1947, quando dal nord e dal sud dell’Albania tanti arrivavano in questa città per lavorare nelle fabbriche di Kombinat.
Suo padre, durante l’occupazione italiana, faceva l’agricoltore; poi lavorò per una ditta italiana che stava costruendo l’acquedotto per Kavaja; successivamente fece il vigile del fuoco a Kombinat. Gli ha lasciato in eredità una proprietà a Fier, comprata prima della guerra, ma di cui ancora non è riuscito a entrare in possesso.
Erion ci tiene a dire che ai tempi di Enver Hoxa non c’era disoccupazione e ricorda che i tecnici russi erano molto amabili; sulla situazione attuale di Kombinat, invece, ha un’opinione molto negativa. «Per certi versi la vita era molto più bella prima: c’era tanta amicizia; ora invece la vita è diventata molto più aggressiva, perfino tra fratelli – afferma Erion -. Tutta colpa di quelli venuti dal nord, che hanno portato qui certe loro usanze, come le “vendette del sangue”; a volte si uccidono per una parolaccia, per una piccola contraddizione. Quelli sono molto più selvaggi, noi siamo più dolci; quando li vedo io dico loro: perché andate a sfondare delle porte che non vi portano da nessuna parte?».
Nella sua critica a quelli del nord, Erion continua: «Sono arrivati soprattutto tra il ’90 e il ’97 e hanno occupato metà delle fabbriche di Kombinat, facendone case e casupole; quelli venuti da altre parti, invece, non sono andati a vivere nell’area delle fabbriche, ma hanno comprato casa o hanno trovato altre sistemazioni. Nessuno li emargina, sono loro che si tengono in disparte».
Se deve portare qualcuno a sud di notte ci va volentieri, ma prima di andare al nord ci pensa due volte. E sottolinea ancora la differenza tra sé e i nuovi arrivati: «Questi katundar (dispregiativo per indicare gente di campagna ndr) sono venuti qui e hanno comprato del terreno ma non lo lavorano. Dopo 30 anni di lavoro io non ho la pensione e non mi hanno ancora restituito i terreni, per cui devo fare il tassista pirata».
Secondo lui, a Kombinat la situazione non è allarmante: la notte si può uscire tranquilli; ma al tempo del regime bastavano tre poliziotti per «tenere in pugno Kombinat»; ora di poliziotti ce ne sono tanti, ma non c’è ordine.

Paolo Rossi