Speranza senza confini
Reportage dalle missioni della Rift Valley: Heka (2)
Diceva Nyerere: «L’istruzione non è un modo per sfuggire alla povertà, ma uno strumento per combatterla». Un sogno rimasto nel cassetto in molte zone del Tanzania, ma non ad Heka, dove i missionari della Consolata lo hanno preso sul serio, dedicando energie fisiche e materiali alla scolarizzazione a cominciare dai più piccoli con la costruzione di asili nella maggior parte delle comunità della parrocchia.
DESERTO ON THE ROAD FINO Ad HEKA
Nell’auto guidata dal diacono Marco Turra, continuo il mio viaggio nel cuore della Rift Valley. Un paesaggio piegato dalla siccità. Scheletri di capanne abbandonate nella sabbia; bambini che pascolano mucche scheletriche. Il vento caldo continua ad abbronzarmi il viso, ormai bruciato da un sole implacabile. Attraversiamo villaggi stremati dal caldo e dalla siccità.
Nonostante il sole sia alto, gruppi di donne con i bambini sulla schiena avvolti nelle kange continuano con metodi arcaici a zappare i campi e a piantare nella speranza che prima o poi arrivi la pioggia. Il detto «la speranza è l’ultima a morire» sarà stato coniato qui. Ci avviciniamo a una pozzanghera che ha riempito un enorme buco nella strada, Marco rallenta e davanti ai nostri occhi un uomo con una tazza riempie un secchio di quell’acqua nera, melmosa, sporca. Alzo la macchinetta e capisco che non ha problemi a farsi fotografare ma il suo sguardo mi ghiaccia il cuore.
Dopo svariate ore arriviamo alla missione di Heka. C’è padre Saverio Diaz ad accoglierci e a offrirci subito da bere. Conosce bene l’effetto del caldo di questi posti. Colombiano, dai modi eleganti, inizia a rispondere alle mie domande con grande discrezione. «Sono stato tanti anni in Colombia. Dopo il 25° anno di sacerdozio ho chiesto di voler andare in missione in un altro continente e così mi hanno mandato in Tanzania. Ad Heka siamo in due: il kenyano Steven Muta e io. Le difficoltà del posto le avrai già capite. L’acqua è davvero un dramma. Abbiamo scavato qualche pozzo ma non basta. Siamo impegnati nella formazione per lo sviluppo di questa zona e della gente attraverso la costruzione di asili, il sostegno e la formazione dei maestri e andiamo a insegnare nelle scuole secondarie perché qui non ci sono nemmeno maestri. Padre Steven infatti insegna oltre che religione anche matematica nelle secondarie per sopperire alla mancanza di insegnanti. Abbiamo 22 asili nei villaggi vicini alla missione. Ciascun asilo ha dai trenta ai centoventi bambini. Il mio obiettivo è costruire asili a dimensione del posto. Qui non si può pensare di fare grandi strutture con costi di gestione enormi. Bisogna ottimizzare e fare strutture semplici, di mattoni non cotti che fanno da asilo durante la settimana e da Chiesa la domenica. Sono strutture che loro possono gestire e mantenere. Io ho sempre puntato sulla collaborazione della gente. Avete bisogno di un asilo?
I genitori portano sabbia, acqua, mattoni, il resto lo mettiamo noi attraverso i nostri benefattori. L’asilo riesce quasi sempre a mantenersi. I genitori pagano 1000 scellini al mese, 6 euro l’anno, per coprire le spese del cibo mentre lo stipendio per la maestra e le divise per i bambini li paghiamo noi. Organizziamo dei seminari di formazione per la gente, per i giovani e per le maestre che di solito vengono scelte dal villaggio quindi non hanno una grande formazione».
GLI ASILI DI PADRE DIAZ
Partiamo alla volta degli asili e ci immergiamo nel bush. Chilometri di terra battuta in un paesaggio che sembra abbandonato quando di colpo spunta un asilo. Ne vedrò diversi. La struttura è simile per tutti: funzionali, colorati, ben tenuti e accoglienti. I bambini sono visibilmente provati dalla fame, ma menomale che almeno qui riescono a mangiare. Padre Saverio mi fa vedere anche una scuola primaria governativa.
«Dicono che hanno speso 6 milioni di scellini per fare i gabinetti. Con quella somma io ci faccio una scuola di mattoni e cemento» precisa il missionario. Arriviamo all’ora dell’uju. Una fila lunghissima di ragazzi aspetta il proprio tuo con la tazza in mano per prendere la razione che gli spetta. Sono davvero tanti. La scuola è semplice, ma piccola per quella moltitudine di ragazzi.
Accanto ad alcuni lotti di terreno padre Saverio mi mostra le aule che sta costruendo proprio perché la scuola è piccola. Andremo a vedere anche un’altra scuola in costruzione finanziata dal S.O.S. di Padova che oltre a finanziare circa 70 borse di studio per ragazzi, sta aiutando nelle costruzioni. Conoscerò un missionario davvero capace di amministrare alla grande quei soldi che per una zona simile sono sempre troppo pochi.
Toiamo alla sede della missione prima che i bambini dell’asilo parrocchiale vadano a casa. Scendo dal fuoristrada che sono letteralmente assaltata da un centinaio di bambini bellissimi che mi vengono incontro, abbracciandomi e prendendomi la mano. Si vede che sono abituati a vedere i volontari. Per niente spaventati come i bambini dei villaggi, iniziano a cantare, a salutarmi in italiano e in inglese.
La scuola è ben tenuta, le maestre sono accoglienti e capaci. Disegni di animali e di fiori avvolgono le pareti estee e intee della scuola. C’è davvero poca differenza con i nostri asili.
Nella missione c’è anche un dispensario costruito e tuttora sostenuto dalla famiglia di Vittorio Bosco di Torino. Il dispensario è gestito dalle suore. È poco frequentato in questo tempo. Una suora mi spiega che tra le malattie maggiormente diffuse ci sono la malaria, infezioni intestinali e infezioni alla pelle dovute alla mancanza di acqua e di igiene. L’aids poi è ormai estremamente diffusa anche qui. Infatti hanno delle stanze apposite per la prevenzione, analisi e terapia dell’aids.
Toiamo nella casa parrocchiale e continuiamo a parlare, mentre aspettiamo che torni padre Steven da scuola per far pranzo.
ASCOLTANDO PADRE DIAZ
Padre Saverio è un profondo conoscitore delle varie etnie del Tanzania. Mi conferma molte cose già dette da altri missionari sui wasukuma e sui wagogo, come il loro perseverare nel vivere in maniera povera e senza migliorare le proprie condizioni di vita e delle case. La motivazione di ciò è dovuta alla loro superstizione: sono convinti che il male viene dall’invidia. Mi racconta la storia di un ragazzo che lui aveva aiutato per continuare gli studi. «Era diventato un bravo falegname e aveva iniziato a lavorare, riuscendo a mettere da parte anche qualche soldo. A un certo punto questo ragazzo si ammala di tumore e muore. Sono andato dalla famiglia dicendo loro che con i soldi che il ragazzo aveva messo da parte, volevo costruire una casa in cemento per loro. I parenti si sono opposti con resistenza per paura che migliorare la loro condizione, potesse portare la gente a ingelosirsi e a fare malefici. Ho comunque costruito la casa per reinvestire al meglio i soldi del ragazzo e la nonna e il resto della famiglia per più di un anno non sono entrati nella casa, rimanevano fuori durante il giorno e la notte tornavano nelle loro capanne per paura della sciagura che poteva abbattersi su di loro».
UNA NUVOLA DI POLVERE
Vedo arrivare una nuvola di polvere… sembra quasi un cartone animato. È padre Steven in moto, di ritorno dalle sue ore di insegnamento ai ragazzi di una scuola superiore. Dopo pranzo mi soffermerò a parlare con lui. Sono solo due i missionari ad Heka. Padre Steven oltre a occuparsi dell’amministrazione della missione, fa catechesi e organizza seminari per i giovani della zona, prepara i catechisti, fa pastorale e segue le jumuiya ndogo ndogo, ossia le piccole comunità di base. Mi ripete gli stessi problemi che ho toccato con mano anch’io.
Con padre Steven c’è un ragazzo, ventenne: Novastus. È un giovane che insegna matematica nelle secondarie. Viene da Sadani, una zona nella diocesi di Iringa, dove i missionari della Consolata hanno una missione. «Ho conosciuto i missionari della Consolata durante la scuola secondaria – racconta -. Quello che mi ha colpito da subito di loro è stato il sacrificio e la capacità di mettere insieme persone di culture diverse con professionalità e stile. Io provengo da una famiglia povera e ho avuto la fortuna di incontrare i missionari della Consolata che mi hanno aiutato non solo a studiare ma anche a crescere, a capire cosa volevo fare, come farlo e chi volevo diventare da grande. Sto bene con loro e vorrei continuare a seguirli proprio per apprendere il loro modo di stare con e in mezzo alle persone».
Chiedo a Novastus come vede il suo paese e cosa possono ancora fare i missionari della Consolata in Tanzania. «C’è uno sviluppo economico molto veloce in Tanzania, che però non va di pari passo con quello sociale. Dal punto di vista politico sembra che qualcosa possa migliorare, quindi anche le politiche sociali e assistenziali. Dovrebbe esserci una struttura che controlli bene le risorse che vengono spese nella formazione di maestri e di studenti, perché le differenze tra le zone sono enormi. Pensa alla diversità tra la regione di Iringa e questa. Tanti soldi vengono investiti male, per non dire che finiscono nelle mani di gente che non pensa allo sviluppo culturale, sociale e sanitario. I missionari possono continuare ad aiutarci solo investendo nella formazione: dall’asilo all’università. Solo la formazione culturale può sviluppare e migliorare la realtà. E se tu entri in un asilo o in una scuola dei missionari della Consolata capisci quest’attenzione globale alla persona».
Prima di ripartire per Sanza padre Saverio mi fa vedere la chiesa nuova che hanno finito da poco. Passiamo prima davanti a quella vecchia che è stata sostituita perché troppo piccola.
Entro nella nuova chiesa: è semplice ma elegante, proprio come padre Diaz che è un grande artista. I disegni originali e i mosaici sono opera sua come le modifiche alla struttura tecnica della chiesa per via del caldo. L’anima sudamericana si fonde con il ritmo africano e il risultato è spettacolare.
Romina Remigio