Sangue e orgoglio
Reportage dal cuore delle rivolta
La rivoluzione egiziana compie un anno. Ma il regime in carica sembra aver cambiato solo la testa. Le elezioni sono vinte dai Fratelli Musulmani.
Ora si attende il passaggio di potere ai civili e le prossime mosse del nuovo governo.
Egitto, venerdì 18 novembre. Milioni di persone affollano le piazze, colorandole di bandiere rosso-nere e bianche: «Via il regime militare. Vogliamo la democrazia e la libertà», è il mo-nito lanciato dagli egiziani, che danno vita a una protesta pacifica, rispondendo all’appello del movimento dei Fratelli Musulmani (Fm), uno degli attori politici più significativi nel nuovo «risveglio arabo». Non ci sono né morti né feriti, quel giorno. Il successo di pubblico è enorme. I giornali arabi escono con foto di piazze gremite e con articoli a tutta pagina. Parlano di regia dei Fm e della presenza dei salafiti. I due gruppi islamisti, con ideolo-gie e basi sociali molto differenti, si contendono la scena egiziana.
Il giorno dopo, invece, le piazze si tingono di rosso sangue: la polizia carica la folla e provoca 600 feriti.
Il Cairo, 20 novembre, ore 9. Oltrepassiamo Qasr el-Nil e ci dirigiamo verso una delle più famose piazze del mondo: Midan Tahrir, al centro, nel gennaio del 2011, di manifestazioni contro il trentennale regime del dittatore Hosni Mubarak, dimessosi poi l’11 febbraio.
Al centro della piazza si trova una grande rotonda spartitraffico; a Nord Est, è visibile la statua di Omar Makram, eroe nazionale che combatté contro Napoleone. Nell’area ci sono anche il famosissimo museo Egizio, il quartier generale della Lega Araba e altri importanti edifici.
Man mano che ci avviciniamo, la strada si riempie di gente. Prima di entrare nella piazza, siamo fermati a un posto di blocco volante, allestito dai manifestanti per tentare di evitare l’infiltrazione di spie, provocatori, «servizi» vari.
All’interno dell’enorme piazza ci sono già migliaia di persone, soprattutto giovani. Spieghiamo che siamo giornalisti italiani e che vogliamo registrare la manifestazione. Sembrano contenti: un simpatico adolescente si offre di accompagnarci. Questo ci permette di andare in giro con tranquillità, senza destare sospetti (stranieri che fotografano in un luogo come questo potrebbero essere solo giornalisti o spie). In generale, sono contenti che la loro lotta di liberazione riceva attenzione.
Rivolta popolare
Il cielo grigio-smog del Cairo sovrasta case, alberi e persone, dando un senso di immaninza e pericolo a tutte le azioni che si compiono. La piazza si riempie di manifestanti che giungono da tutti i quartieri della capitale, e anche da fuori. Giovani e vecchi si ritrovano per strada, si salutano, si sorridono, discutono, si organizzano. La lotta contro il regime militare ha coalizzato gran parte degli egiziani, soprattutto le classi popolari e medie, gli studenti, gli intellettuali.
Con il passare dei minuti, il clima diventa sempre più pesante, e non solo per il devastante inquinamento. Le facce sono tese: l’esercito e la polizia sono pronte ad attaccare i manifestanti. I ragazzi, cellulare all’orecchio, chiamano a raccolta i loro amici o raccontano la cro-naca momento per momento a chi sta «postando» notizie sulle pagine di Facebook, o su Twit-ter. Sono i social network che hanno fatto conoscere a tutto il mondo le «primavere arabe», scoppiate a dicembre del 2010 con la rivolta in Tunisia e seguite da Egitto e altri paesi.
Tra un lampione e l’altro sventolano bandiere egiziane di questo o quel partito, di sindacati, di gruppi giovanili. Per terra, sono ancora visibili i segni di altre manifestazioni.
Qua e là, venditori ambulanti offrono maschere anti-gas. Ce ne sarà presto bisogno. Dietro Midan Tahrir, verso via Mohammed Mahmoud, i militari stanno facendo un pesante uso di lacrimogeni, e il fumo avvolge ormai tutta l’area. Una moltitudine inizia a dirigersi verso il punto di «contatto» con esercito e polizia, mentre un corteo sta già sfilando in una via laterale urlando slogan. Le forze di polizia attaccano la folla, si inizia a correre per trovare riparo.
Questa è la realtà quasi quotidiana del Cairo e dell’Egitto tutto.
A quando il cambiamento?
La rivoluzione del 25 gennaio 2011 ha solo «tagliato la testa» al regime, senza sconfiggerlo. Il «corpo» è rimasto intatto, o quasi, e si è rafforzato. La nomenklatura militare ha il con-trollo dei settori più importanti della società: mediatico, politico ed economico.
La gente continua a manifestare, a morire nelle piazze, a sparire nelle prigioni, ad essere ferita, torturata, ma non cede: è una resistenza popolare determinata al cambiamento, questa volta definitivo. Questo ci spiegano le persone con le quali parliamo.
«Non sappiamo come andrà a finire – ci dice un manifestante -. Il regime non molla, ma neanche noi. Da gennaio (2011, ndr) è cambiata solo la facciata, il resto è uguale, con qualche lieve miglioramento».
Il 25 novembre ci rechiamo nuovamente in piazza Tahrir. La piazza è piena di gente, di famiglie con bambini, di ragazzini: è il nuovo Egitto che vuole nascere e vivere, senza più paura di repressioni e torture. Bancarelle sparse qua e là vendono «souvenir» della rivoluzione: bandiere, T-shirt, cappelli, spille, le consuete maschere anti-gas, kefiah, e ogni sorta di gadget che ricordi il «25 gennaio 2011». E non mancano i carretti con cibo e bevande.
Seduta per terra, contro un furgone, una mamma in hijab (velo islamico) e fascia tricolore egiziana, tiene in braccio un bimbo di pochi mesi, mentre vende braccialetti e altri oggetti. Poco dopo arriva il marito, e ci spiega che loro sono lì, tutti e tre, da mesi, per partecipare alla rivolta contro il regime (di Mubarak prima e militare dopo).
Altri ragazzi si lasciano fotografare davanti alle tende dei sit-in permanenti; altri, mentre suonano e chiacchierano su tappeti. Altri ancora sono arrampicati su pali della luce o sui leoni con occhi bendati del ponte di Qasr el-Nil, divenuti simbolo del «Leone d’Egitto» accecato e uscito di scena (Mubarak).
È la vita quotidiana che è scesa in piazza, per chiedere giustizia e libertà, come recita il nome del partito che uscirà vincente dalle elezioni parlamentari.
Avanti, a oltranza
Ci avviciniamo a un’area «calda» della piazza, dove, più tardi, sarebbero scoppiati altri scontri tra dimostranti ed esercito, e veniamo bloccati a un «check-point» popolare: sono ragazzi e ragazze cordiali e pronti a dare spiegazioni sugli eventi in corso e i problemi che attraversa l’Egitto. Uno di loro, Mustafa, un giovane ingegnere e «generale del gruppo rivoluzionario», ci racconta: «I militari se ne devono andare. Siamo noi a dare ordini a loro: andatevene, diciamo. Non sappiamo cosa succederà nei prossimi mesi, ma abbiamo diversi piani. Quando arriveranno, li affronteremo a mani nude. Siamo a un punto di non ritorno: andremo avanti fino alla morte, se sarà necessario».
Ahmed è uno dei tanti manifestanti adulti. È un commerciante, e membro dei Fratelli Musulmani. Tutti i giorni partecipa alle proteste popolari: «La gente è contro l’esercito. Ci sono stati troppi morti e troppi feriti. Non possono continuare a spararci addosso. Hanno usato persino il gas nervino.
I Fratelli Musulmani, come organizzazione, sono andati poco in piazza, perché temono la presenza di infiltrati, di provocatori, persone ignoranti, sostenitori di Mubarak. Questi ultimi sono ben conosciuti dalla polizia, che li usa. Collaborano, creano disordini e foiscono alle forze militari il pretesto per attaccare la folla che manifesta. Ci sono egiziani al soldo di Israele e degli Stati Uniti. Il regime israeliano ha paura del movimento dei Fm, perché sa che se questo vincerà le elezioni, i rapporti cambieranno a favore dei palestinesi.
La popolazione aspetta un nuovo governo, democratico, giusto, che cambi tutto il sistema malato egiziano, e che tronchi i rapporti con Israele».
Ancora violenza
La settimana che va dal 18 al 25 novembre è contrassegnata da un bilancio di vittime della violenza di stato molto alto: 40 morti e migliaia di feriti.
Il 21, il movimento dei Fratelli Musulmani, che si presenta alle elezioni con il Partito «Freedom and Justice, Fjp» (Giustizia e Libertà), diffonde un comunicato stampa in cui critica lo Scaf (Supremo consiglio delle forze armate egiziane) per gli «eventi di sangue», e chiede l’apertura di un’inchiesta, le dimissioni del governo militare, leggi anticorruzione, il passaggio dei poteri a un’amministrazione civile entro la metà del 2012.
Mentre sono in corso le elezioni parlamentari, ripartite in tre tui, e iniziate il 28 novembre, proseguono le manifestazioni e la repressione da parte dell’esercito. Uno degli episodi che fa il giro del mondo, grazie al video diffuso via Inteet è quello del 17 dicembre, quando una giovane donna viene brutalmente picchiata dalla polizia, in piazza Tahrir.
Anche il mese di dicembre è contrassegnato da scontri e vittime. Nonostante l’evidente ri-chiesta popolare di libertà e giustizia, il regime militare non molla le redini del potere, e continua a reprimere i manifestanti.
Fratelli vittoriosi
Domenica 14 gennaio è l’ultima giornata elettorale: i Fratelli Musulmani, con il loro Fjp ottengono il 46% dei seggi parlamentari. Di fatto sono il partito più forte dello schieramento politico egiziano. Il 16, il partito annuncia la nomina del proprio segretario generale, Mohamed Saad al-Katany, come candidato alla presidenza del nuovo parlamento egiziano, che viene eletto all’apertura dei lavori il 23 gennaio.
I due vice-presidenti apparterranno agli altri due schieramenti che hanno ottenuto i maggiori risultati: il salafita «Nour Party» (il Partito della Luce), e il liberale «Wafd».
I leader del Fjp ribadiscono l’impegno a raggiungere gli obiettivi della rivoluzione.
In un articolo pubblicato dal quotidiano «Al Masry al Youm» il 16 gennaio, Katany afferma:
«La priorità di questo parlamento saranno i diritti dei martiri e dei feriti della rivoluzione. Il parlamento lavorerà per andare incontro alle aspirazioni della rivoluzione sia a livello legislativo sia di controllo. Il parlamento non escluderà alcun partito, al di là della sua rappresentatività (…). È tempo di accordi, non di competizione».
Lo stesso segretario generale aggiunge che il parlamento collaborerà sia con lo Scaf sia con il governo del primo ministro Kamal al-Ganzouri, fino a che il potere passerà nelle mani di un governo eletto.
Secondo quanto prevede l’agenda stabilita dal regime militare, ciò dovrebbe accadere a lu-glio. Mercoledì 25 gennaio, primo anniversario della Rivoluzione, migliaia di cittadini si danno appuntamento a piazza Tahrir, per chiedere la fine della giunta militare e il passaggio a un governo civile.
La folla intona slogan contro i leader militari e sventolano striscioni contro il regime instauratosi dopo la caduta di Mubarak. Due giorni prima, Tantawi aveva annunciato la parziale rimozione dello stato di emergenza, in vigore da decenni nel Paese. La decisione è parsa più un tentativo di blandire il popolo egiziano e di impedire nuove manifestazioni, che un vero e proprio cambiamento di direzione.
La rivoluzione del 25 gennaio e la caduta di Mubarak avevano scatenato grandi speranze e aspettative, che sono andate deluse: lo Scaf occupa con la forza e la repressione il trono lasciato libero dal «Faraone». Le recenti elezioni parlamentari, che hanno dato la vittoria ai movimenti islamici, e le manifestazioni di piazza che non s’arrestano, sono un chiaro messaggio alla giunta militare: «Andatevene!». Resta da vedere se l’esercito, abituato a governare l’Egitto da molti decenni, lascerà ai civili tutti i poteri come aveva promesso un anno fa. E se i Fratelli Musulmani sapranno mantenere le promesse di cambiamento, giustizia sociale ed economica, democrazia e libertà.
Angela Lano