Lotta di potere tra dame di ferro
Paese in cerca di riconciliazione, a 40 anni dall’indipendenza
Galleggiante sulle acque, ciclicamente afflitto da inondazioni spaventose, con una popolazione di quasi 170 milioni di abitanti su un territorio metà di quello italiano, il Bangladesh è uno dei paesi più poveri del mondo; le ferite ereditate da guerre e lotte per l’indipendenza, dopo 40 anni, stentano a rimarginare; alle tensioni etniche e religiose si aggiunge la ventennale rivalità politica tra due «dame di ferro».
Il 16 dicembre 1971 il Pakistan Orientale, che da lì a poco sarebbe diventato ufficialmente Bangladesh, trovava una difficile indipendenza, alla fine di una guerra breve ma sanguinosa, che doveva segnare non soltanto la neonata patria di 60 milioni di persone, tra le più povere del pianeta, ma anche i rapporti tra i protagonisti del conflitto e dell’intero Subcontinente Indiano.
Nasceva una nazione con forti limiti iniziali. Non solo i rapporti storici e culturali con la confinante India, che dovevano tradursi in un ingombrante protettorato, ma anche la povertà di risorse, la sovrappopolazione, la configurazione territoriale, la collocazione geo-politica…
Pianura galleggiante
Il Bangladesh ha sempre avuto un rapporto problematico con le sue acque, che insieme costituiscono una minaccia, ma anche garantiscono opportunità vitali per i suoi 170 milioni di abitanti concentrati su una superficie inferiore a quella italiana e un territorio generalmente piatto al livello del mare. Un territorio su cui convergono le acque dei fiumi Gange e Brahmaputra prima di gettarsi con la maggiore area deltizia al mondo nel Golfo del Bengala. Alle piene periodiche, sovente eventi disastrosi per l’apertura delle dighe a monte del territorio bengalese, in India, si aggiungono tifoni catastrofici o alte maree eccezionali.
Ora, tuttavia, e sempre più, è anche il progressivo crescere delle acque marine a preoccupare le autorità e le popolazioni costiere. Le statistiche degli ultimi 30 anni segnalano una crescita media delle acque di 5 millimetri l’anno e le proiezioni prospettano un futuro ancora più difficile.
I rifugiati del Bangladesh – in parte eredità del conflitto, in maggioranza migranti economici o veri profughi – in India, sono oggi oltre 10 milioni e crescono al ritmo di molte migliaia l’anno. Un numero di disperati contrastati non solo dal governo indiano, che pretende con provvedimenti repressivi spesso indiscriminati di contenere l’immigrazione illegale, i molteplici traffici frontalieri e l’infiltrazione del terrorismo islamista, che a più riprese in anni recenti ha portato devastanti attacchi in territorio indiano, ma anche dai fondamentalisti indù e dai movimenti che usano l’immigrazione dal Bangladesh come strumento della loro politica secessionista.
Né lingua né etnia distinguono le popolazioni ai due lati del confine e la comune cultura bengalese, quella che ha espresso il premio Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore e quello per l’economia Muhammad Yunus, li avvicina più di quanto la fede li divida.
Tuttavia il flusso di immigrati irregolari dal Bangladesh verso l’India, da un lato, la presenza di almeno 100 mila coltivatori indiani nel lato bangladeshi del confine restano una miccia sempre innescata nei rapporti tra New Delhi e Dhaka.
LE RAGIONI DI UN CONFLITTO
Il 16 dicembre 1971 il corpo di spedizione pachistano dichiarava la resa alle forze congiunte della resistenza bengalese e dell’esercito indiano. Finiva così la guerra d’indipendenza dell’odierno Bangladesh. Un evento traumatico che doveva ridisegnare la fisionomia del Pakistan, ma insieme proiettava nell’incertezza uno dei paesi più poveri e sovrappopolati del mondo.
Per 24 anni questo lembo di territorio nordorientale del Subcontinente Indiano era stato oggetto del destino disegnato a tavolino dai negoziatori britannici che nelle ultime, convulse settimane prima di lasciare al proprio destino la loro «perla» imperiale, incendiata dalle tensioni e divisa territorialmente, avevano delineato confini impossibili, tenendo solo conto della preponderanza religiosa della popolazione.
Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 1947 erano così nati due stati sovrani, l’India a maggioranza indù e il Pakistan a maggioranza musulmana. Un Pakistan però diviso in due tronconi ai due estremi dell’ex colonia indiana: il Pakistan Occidentale, oggi Pakistan, e il Pakistan Orientale, l’attuale Bangladesh.
La regione occidentale era da lungo tempo islamizzata da diverse invasioni fino dal 9° secolo, vicina per lingua e abitudini al mondo mediorientale, iranico e centro-asiatico, con una lingua nazionale, l’urdu, portata dagli immigrati dall’India dopo la separazione, con un ampio vocabolario arabo-persiano e scritta in una versione adattata dell’alfabeto arabo. Una terra, con eccezione di poche aree, caratterizzata da un paesaggio desertico, semi-arido o montuoso.
Il Pakistan Orientale è stata antica terra di diffusione buddista, prima di essere induista e poi, dal 14° secolo, diventare in maggioranza musulmana. L’acqua è la sua benedizione e la sua condanna, l’elemento che ha plasmato la sua gente, le attività economiche, la cultura.
Con l’indipendenza le regioni del Pakistan Orientale avevano perso, perché annesso allo Stato indiano del Bengala Occidentale, il suo centro più prestigioso e grande fucina culturale, Calcutta, e all’India erano rimaste anche le fabbriche dove confluiva la juta, maggiore risorsa delle aree oggi in Bangladesh.
Inevitabilmente, il peso demografico, geografico, strategico ed economico del lontano Occidente doveva diventare un elemento di rottura, alimentato dall’intransigenza dei governi del Pakistan, insediati prima a Karachi e poi a Islamabad. Passata l’euforia dell’indipendenza e dell’acquisizione di una identità distinta dall’India sì, ma altrettanto duale all’interno del nuovo Stato, con i primi sintomi di insofferenza le regioni orientali diventarono di fatto colonie su cui imporre leggi e scelte elaborate a 1.600 chilometri di distanza.
LA GUERRA
Nel giro di qualche anno l’insofferenza doveva diventare rabbia e richiesta di autodeterminazione. Il movimento di protesta dalle molte anime, tra cui quella marxista e quella nazionalista, trovò espressione a partire dal 3 marzo 1971 nelle manifestazioni guidate da Sheikh Mujibur Rahman. Settori locali delle forze armate come pure pubblici dipendenti si unirono al movimento che crebbe di forza e consistenza nelle settimane successive, sottoposto a pressioni e poi ad aperta repressione dal 25 marzo, quando l’esercito intervenne, per ordine del presidente-generale Yahya Khan, per riprendere il controllo della capitale.
La dichiarazione d’indipendenza, letta il 27 marzo nella città di Chittagong dal maggiore Ziaur Rahman, e la contemporanea proclamazione della nascita dell’Esercito di liberazione del Bangladesh, rappresentarono l’avvio del vero movimento di liberazione. Nei mesi successivi, defezioni dall’esercito regolare e una crescente partecipazione di civili metteranno in grado il Mukti Bahini, il movimento di guerriglia che associava le varie «anime» della resistenza, di confrontarsi con una repressione durissima, fino a quando l’India, che per ordine di Indira Gandhi già aveva infiltrato spie e armi, non dichiarerà apertamente il proprio intervento a sostegno dei bengalesi e delle proprie esigenze strategiche verso l’avversario pachistano, determinando l’andamento del conflitto.
PROSPETTIVE, SVILUPPO E RICONCILIAZIONE
In sintesi, natura e storia recente contribuiscono a rendere il Bangladesh una realtà instabile che fatica a trovare un proprio equilibrio. Alla fine, anche nazionalismo e repressione non convincono ad allinearsi dietro una leadership velleitaria spesso corrotta, sovente repressiva. Alla guida, dopo la dura esperienza semi-dittatoriale di Muhammad Ershad dal 1981 al 1990, una classe politica litigiosa che ruota attorno a due donne: Sheikh Hasina, attuale primo ministro, figlia di Mujibur Rahman, a capo della Lega Awami, e Khaleda Zia, vedova del primo presidente del Bangladesh, Ziaur Rahman e leader del Partito nazionalista del Bangladesh. Una battaglia senza esclusione di colpi la loro, combattuta non solo dalle tribune elettorali o dai banchi parlamentari, ma anche nei tribunali e nelle piazze con scontri sanguinosi tra i loro sostenitori, a volte, anche se per periodi brevi, da dietro le sbarre di una prigione.
La domanda che sale più spesso dalla società civile è: quale paese ci avete dato dopo una guerra di liberazione che tutti hanno pagato a caro prezzo? Almeno l’80% dei bangladeshi sono poveri, speranza di vita e reddito sono tra i più bassi al mondo; libertà civili e democrazia vedono seri limiti. «C’è da chiedersi – dice la docente di storia e studiosa delle ripercussioni sociali dei confitti Yasmin Saikia, originaria del Bangladesh – su che cosa basi la pretesa di guidare il paese la leadership attuale, che si propone come erede dell’esperienza della guerra di liberazione. Troppi servono i propri movimenti politici e non la popolazione che resta divisa per origine e opportunità».
«Oggi – dice ancora la dottoressa Saikia – davanti a una storiografia ufficiale che continua a parlare di eroi, di personaggi eccezionali e non della gente comune che la guerra ha vissuto e sofferto, la popolazione non è incoraggiata a evolversi verso un dialogo reale tra le parti intee e con gli altri paesi del conflitto per puntare alla riconciliazione».
La recente ondata di arresti e di incriminazioni per crimini di guerra di esponenti della politica islamista radicale, personaggi non a caso all’opposizione nel Parlamento, ha più il sapore della vendetta che della giustizia.
Il Tribunale per i crimini inteazionali creato nel 2010 dal governo con l’intento di giudicare i leader collaborazionisti con il Pakistan Occidentale, ha finora sollevato più critiche che entusiasmo, non avendo alcuna legittimazione internazionale, che il Bangladesh non ha cercato.
Quello che la storia non racconta, in un difficile bilanciamento tra i massacri descritti con dovizia sui libri di testo e la realtà che fu di sofferenza di più popoli, è una verità che va emergendo oggi, a quattro decadi di distanza. A chiederla, la storia e le società civili dei paesi coinvolti nel conflitto: a portarlo avanti, in modo non sempre specchiato, le autorità che hanno riscoperto come sofferenze antiche e antichi rancori possano oggi coprire mancanze e promesse tradite.
Come sottolineato da Taslima Nasreen, la più conosciuta scrittrice del Bangladesh, in esilio perché minacciata di morte dai fondamentalisti islamici nel suo paese, «forse per i ricercatori inteazionali, il Bangladesh non è importante. Tuttavia, i cittadini del mio paese hanno ora la possibilità di diventare liberi pensatori, devono trovare il coraggio e l’orgoglio di condividere le proprie vicende passate con il mondo».
FEDI E CHIESA
In Bangladesh su una popolazione di circa 170 milioni di cittadini, i musulmani sono oltre l’85%, gli indù il 10%, i buddisti lo 0,6%, i cristiani lo 0,3%. Come nella confinante India, le problematiche delle fedi minoritarie si intrecciano con quella delle etnie meno favorite dalla storia e dal numero. Le minoranze, e fra esse gruppi consistenti come Oraon e Santal, non essendo contemplate e garantite in alcun modo dalla Costituzione, hanno scarse possibilità di sviluppo ed emancipazione.
La Chiesa denuncia da tempo come i loro diritti siano negati e calpestati. In gran numero e in modo sovente ignorato subiscono quotidiane discriminazioni, abusi e violenze da parte dei connazionali di fede musulmana, maggioritaria nel paese, nel disinteresse se non con la complicità di funzionari di polizia, pubblica amministrazione e magistratura.
Secondo un rapporto di qualche tempo fa, in parte diffuso dall’Agenzia Fides, le minoranze «sono spesso defraudate indebitamente della terra che hanno coltivato o delle case che hanno abitato per secoli; le donne subiscono stupri, sequestri, conversioni e matrimoni forzati; i cittadini non musulmani sono discriminati nella ricerca di lavoro e nell’istruzione. Vi sono violazioni aperte e continue dei diritti umani fondamentali, senza che nessuno intervenga».
Proprio perché tra le minoranze la Chiesa locale, e per molti decenni a partire dalla fine dell’Ottocento la missione ad gentes, ha lavorato non solo in termini di evangelizzazione ma anche e soprattutto di promozione umana, esse sono al centro delle molte iniziative di sostegno alla ricerca di giustizia e dignità. Come Hotline Human Rights Bangladesh, creata con il sostegno della Commissione Giustizia e Pace dei vescovi del paese, per monitorare il rispetto dei diritti umani; oppure di azione concreta sul territorio come il Resource Centre for Christian Youth in Bangladesh, attiva tra i gruppi etnici e le comunità indù, buddista e cristiana.
Stefano Vecchia