La terra contesa
Conversazione con padre José Auletta
Un’ora di dialogo, 35 anni di esperienza missionaria, e di storia Argentina. Sullo sfondo, senza tempo, la maternità (ferita) della Terra, il ventre da cui nascono quei popoli indigeni con i quali padre José Auletta vive e lotta da sempre.
Seduto al bar dell’aeroporto di Jujui di fronte a una tazzina di caffè. Tra le dita una bustina di zucchero «Chango», quello prodotto dall’industria agroalimentare contro cui padre José stava lottando insieme alla comunità indigena del Rio Branco banda sur per farle riconoscere il suo diritto alla terra ancestrale. Gli occhi lucidi di commozione per la nostra partenza che sarebbe avvenuta da lì a poche decine di minuti. Il missionario dalle parole e dai gesti chiari (e duri) in favore dei poveri e capace di parole e gesti altrettanto chiari in favore dell’amicizia, ci ha lasciato questa immagine di sé tra quelle più vivide del nostro soggiorno di qualche tempo fa presso di lui nel Nord dell’Argentina.
Ne sentiamo la voce risuonare nei corridoi della redazione e lo vediamo comparire con il suo sorriso che non nasconde mai un pizzico di ironia.
Non è cambiato nell’aspetto: nonostante ci parli di qualche acciacco, e dello stress degli ultimi mesi di intenso lavoro, ci sembra in forma. Come sempre, quando saluta una persona – che abbia 3 o 93 anni – si avvicina, ci abbraccia calorosamente, ci prende il viso tra le mani chiedendo come stiamo. Noi ne approfittiamo subito per farci raccontare qualche sua impressione sul suo paese d’adozione, sul suo lavoro.
Dal ’76 dei Generali all ’11 dei Kirchner
Padre Giuseppe Auletta, Pino per noi, José per la sua gente argentina, originario di Calciano, in provincia di Matera, è arrivato in Argentina nel 1976, tre anni dopo la sua ordinazione sacerdotale, otto mesi dopo l’inizio, il 24 marzo, della dittatura militare. In trentacinque anni di missione nel paese della Boca e del tango ha assistito ai suoi grandi cambiamenti: «Sono arrivato senza neppure sapere cosa stesse succedendo. Man mano che sono venuto a conoscenza della situazione ho compreso meglio la sofferenza del popolo, della nazione e tutto lo sforzo che si è fatto per tornare al regime democratico alla fine del 1983».
Padre José assume un tono vagamente didattico mentre parla del difficile cammino della democrazia in Argentina: «Ho visto come il paese cominciava a riprendersi, innanzitutto in quanto popolo, secondariamente dal punto di vista economico. Ci sono stati alti e bassi, c’è stato il grande inganno della parità dollaro-peso con la presidenza di Saul Carlos Menem negli anni ‘90: un sistema monetario che alla lunga ha portato alla crisi del 2001-2002. Quelli sono stati anni molto critici non solo dal punto di vista economico, ma anche della stabilità democratica. Grazie a Dio anche quella fase è stata superata, e ora siamo nell’epoca Kirchner, prima con Nestor, e adesso con Cristina».
Un guizzo improvviso nello sguardo del missionario e un leggero cambio di registro nella sua voce ci fa intuire il tema sul quale vuole proseguire la sua breve carrellata dei grandi cambiamenti avvenuti nella società argentina degli ultimi trentacinque anni: «C’è da registrare un avvenimento molto importante collocato nell’estate del 1994: l’Argentina ha rinnovato la sua Costituzione riconoscendo, finalmente, i diritti dei popoli indigeni. Ci vuole ancora un lungo cammino perché dalle parole scritte si passi a un riconoscimento effettivo dei loro diritti, però intanto un passo significativo è stato fatto. Il 12 agosto del 1994 è stata approvata la nuova Carta fondamentale, e proprio negli ultimi giorni precedenti quella data, dopo un confronto con diversi gruppi etnici, è stato approvato l’inciso – non un articolo, ma un inciso – 17 dell’articolo 75 che riconosce i popoli indigeni come popoli originari con diritto alla terra, alla propria educazione, alla propria organizzazione e con diritto ad essere consultati quando i loro interessi si vedessero messi in discussione».
Tra populismo, crisi ambientale e multinazionali
Conosciamo bene l’amore del missionario lucano per i popoli indigeni e sappiamo che il tempo a nostra disposizione potrebbe facilmente trascorrere parlando esclusivamente di loro. Già la segnalazione del citato inciso 17 mostra il suo desiderio di raccontare della sua passione. Lo prendiamo in contropiede chiedendogli se se la sente di darci ancora qualche spunto generale sull’Argentina: «Dal punto di vista sociale i dati parlano di un calo della povertà. Questo è, ovviamente, molto positivo, se non fosse che i programmi che hanno permesso questo calo rischiano di essere assistenzialisti, e hanno uno scopo populista: sono interventi basati sull’aiuto (sussidi per famiglie molto numerose, per le ragazze madri, ecc.), basati sul dare per poter poi ricattare. Questo è uno degli aspetti che mi fa sostenere la necessità di un perfezionamento del regime democratico argentino: oggi – come succede anche in Italia – il movimento politico, più che a coinvolgere le persone con coscienza critica, tende a usarle».
Assieme al tema della povertà e del populismo, padre Auletta ci parla di uno dei problemi cardinali per l’Argentina e per l’America Latina: quello della terra. «Il tema ambientale è molto serio: si è sempre data ampia libertà alle imprese nazionali, e soprattutto interazionali, di comprare grandi estensioni di terra in tutte le latitudini. La soia ha invaso e distrutto zone intere dell’Argentina, danneggiando soprattutto, guarda caso, quelle in cui abitano le comunità indigene. Si vendono non solo i territori, ma anche le persone che vi abitano. Comunità intere si ritrovano senza casa né sostentamento e si vedono costrette a emigrare, nutrendo così il fenomeno dell’urbanizzazione disordinata e degli insediamenti precari». Anche nella città in cui il missionario ha lavorato fino a pochi mesi fa, San Ramon de la Nueva Oran, in provincia di Salta, si vedono da un momento all’altro nascere insediamenti di venti, trenta, cento famiglie in un pezzo di terra limitato, dando luogo a volte ad aspri conflitti per la sopravvivenza.
«Purtroppo lo Stato non ha messo limiti alla vendita della terra e di conseguenza ci ritroviamo con una Benetton – tanto per dire che anche noi italiani abbiamo le nostre responsabilità – che diventa padrona di un milione di ettari nel Sud, nella Patagonia, strappando la terra agli indigeni di quelle zone. Molte grandi multinazionali comprano terra in quantità, nonostante ultimamente la presidente Cristina Kirchner abbia cercato di introdurre un progetto di legge per limitarne la vendita».
Anche quello dei biocarburanti è un tema caldo: «È diventato una delle scuse per estendere l’area da deforestare. Nella nostra zona abbiamo assistito a disastri ambientali enormi. Per fare un esempio: qualche tempo fa una frana ha invaso nel giro di mezz’ora gran parte della città di Tartagal, la terza città della provincia di Salta. In quei momenti terribili si vedevano venire giù tronchi di alberi mescolati al fango: lo smottamento era stato causato dalla deforestazione, negata sfacciatamente dal sindaco, casualmente proprietario di una falegnameria».
I mass media e il calcio
L’esempio del politico proprietario di aziende ci stimola a orientare la nostra chiacchierata con padre Auletta sul tema dei mass-media. Abbiamo infatti avuto notizia di un disegno di legge argentino che vorrebbe limitare l’espansione degli oligopoli mediatici, e chiediamo al nostro interlocutore il suo parere a riguardo: «Penso che sia una sorta di guerra del governo che si sente toccato nei suoi interessi dal gruppo capeggiato dal quotidiano El Clarin. In effetti, bisogna riconoscere che questo ha le mani su una grossa fetta del panorama mediatico del paese: non possiede solo il giornale, ma anche diversi canali televisivi, case editrici, addirittura l’approvvigionamento della carta. È oggettivo che sia una minaccia. Quindi è stata varata e poi approvata la legge che dovrebbe limitare la concentrazione di proprietà dei mass-media. Il problema è che il governo tende a fare come El Clarin: sta riunendo diversi canali televisivi simpatizzanti che stigmatizzano come nemico chiunque esprime una qualche contrarietà rispetto al suo operato. Bisognerebbe invertire questa tendenza, e vedere riconosciuta a tutti la libertà di pensiero, di espressione. Al momento una vera libertà non c’è perché economicamente, commercialmente, è facile essere soggetti al taglio dei mezzi e delle possibilità».
Rimanendo sul tema dei media accenniamo di aver sentito di un’altra legge per la quale le partite di calcio in Argentina possono essere trasmesse solo dalla televisione pubblica. Ci chiediamo se questo non sia un segno di quanto il calcio in quel paese sia vissuto come un diritto inalienabile (che quindi lo Stato deve garantire), o una religione. Il missionario prosegue la sua riflessione sulle strategie populiste del governo: «Anche questa è stata una mossa per assicurarsi la simpatia del popolo argentino, sapendo che esso, come quello italiano, non può restare senza calcio. Assicurare la trasmissione gratuita delle partite è un’azione che raccoglie il consenso di tutti».
Figli della terra
Una buona fetta del tempo che ci eravamo dati per la nostra chiacchierata è consumata, è arrivato quindi il momento di chiedere a padre José di parlare del suo amore incondizionato per gli indigeni. In Argentina fino a tre decenni fa non c’era nemmeno la consapevolezza della presenza di popoli nativi all’interno dei suoi confini. Oggi questa è maggiore, benché ci sia ancora molto cammino da fare perché il mezzo milione di indigeni argentini, suddivisi in diversi gruppi etnici e sparsi su tutto il territorio nazionale, vengano percepiti come soggetti di diritti. «Dal 1990 ho avuto la grazia di vivere per 10 anni con gli indios Tobas nella colonia aborigena Chaco. Con loro ho scoperto il bisogno di vivere in una terra sentendomene figlio, non proprietario, ma figlio. Grazie a Dio ho potuto accompagnare la comunità nel cammino per il titolo comunitario della terra arrivato nel 1996. Nel frattempo ho collaborato anche in altri progetti infrastrutturali: strade intee, centri comunitari, piccoli progetti di case portati avanti con il sistema dell’aiuto vicendevole e dell’autocostruzione, però l’asse portante della mia esperienza è sempre stato quello di tendere ad essere figli, e non ospiti, della terra».
Quella del Chaco è stata la prima importante tappa di innamoramento di padre Auletta per gli indigeni. Una seconda tappa è stata quella di Oran, conclusasi pochi mesi fa, dove ha lottato accanto a una comunità di Tupì-Guaranì per il diritto a vivere e lavorare sulla loro terra ancestrale dalla quale erano stati sfrattati (ma in seguito riammessi), anche violentemente, da un’azienda agroalimentare facente parte della Seabord Corporation, multinazionale Usa. «In questa e nelle altre comunità native accompagnate negli anni di Oran ho potuto ammirare la loro costanza nella fiducia, la loro testarda speranza, di poter arrivare a sperimentare di essere figli della terra. Non siamo arrivati a ottenere il titolo comunitario, ma è in atto un confronto legale che in questo momento comunque sta garantendo alle comunità una relativa tranquillità nella loro terra». Il missionario lucano è visibilmente emozionato nel parlare della «sua gente»: «Queste comunità mi hanno dato un esempio di resistenza e di fiducia nella giustizia, sempre pacifiche, convinte del loro diritto, però con uno spirito di pace». E ricordando gli ultimi momenti trascorsi a Oran si commuove, interrompendosi, ma senza sentirsi in imbarazzo per quell’affetto che è frutto e strumento della missione: «Quando ci siamo salutati, hanno ricordato tutti i momenti trascorsi insieme, ringraziandomi e esprimendo il loro affetto per me. Quando si sono espressi così io mi sono sentito piccolo, come un seme che ho cercato di essere per loro e con loro. Veramente posso dire di avere, più che dato, imparato e ricevuto».
Il «buen vivir»
Padre José a Oran era parroco in un territorio non indigeno, ed è entrato in contatto con la realtà indigena grazie alla sua partecipazione a un’equipe interpastorale di cui ci parla come di un’esperienza molto interessante: «Essa è sorta quando la comunità era stata sfrattata dalla sua terra e aveva vissuto sulla strada, la nazionale 50, quasi cinquanta giorni con sole, pioggia, freddo. Allora ci riunimmo, membri delle diverse pastorali diocesane e scegliemmo il tema «terra» come l’asse portante su cui girano la maggior parte dei problemi, costituendo l’equipe interpastorale con la quale hanno iniziato a collaborare anche persone senza un’identificazione cristiana specifica come alcuni avvocati che stanno dando un loro contributo importantissimo. Questa equipe ha fatto sì che s’intervenisse, non solo su situazioni concrete come i conflitti fondiari, ma anche sulla sensibilizzazione della società bisognosa di essere messa al corrente della realtà culturale, sociale, giuridica dei popoli indigeni attraverso alcuni convegni sul tema dell’interculturalità. Il recupero dell’identità indigena è un cammino per gli indigeni stessi che nei decenni passati erano arrivati addirittura a vergognarsi di ciò che erano, mentre il loro specifico culturale, linguistico, religioso è una ricchezza straordinaria che andrebbe condivisa con tutti: se parliamo, ad esempio, anche solo della loro vita improntata all’equilibrio con l’ambiente, sarebbero veramente dei buoni maestri per molti. Potrei fare riferimento ad un sistema di vita che sviluppano soprattutto i popoli andini, e magari non solo loro, parlando del “vivere bene”, che è molto diverso dal “vivere meglio a scapito di…”. Vivere bene significa vivere in armonia, economicamente, religiosamente, culturalmente».
Prima di chiudere la nostra conversazione con il solito e, ormai, atteso abbraccio seguito da un cantilenato Muy bien, chiediamo a padre José se può rivelarci la sua prossima destinazione, ma subito capiamo che ancora non sa dove andrà al suo ritorno in Argentina: «Intanto vorrei ricordare le parole con cui mi hanno salutato le comunità. Pur soffrendo per la mia partenza da Oran – perché ci siamo veramente voluti bene – mi han detto: “Che tu possa continuare a fare il bene dovunque ti troverai, come lo hai fatto con noi”. Il mio desiderio è quello di tornare a lavorare con i poveri, con gli indigeni, con i criollos che lottano per una vita più degna. Non sono troppo anziano: mi rimangono ancora un po’ di forze per potermi spendere in realtà come quelle in cui ho lavorato negli ultimi due decenni, anche se gli acciacchi si faranno sentire, però sento che il Signore mi offre ancora questa possibilità».
Luca Lorusso