Processo storico dell’anima albanese
Nata come provincia romana dell’Illiria (II sec. a.C.), attraversati quattro secoli bui sotto il dominio ottomano, indipendente nel 1912 e conquistata dall’Italia nel 1939, dopo quasi mezzo secolo di regime nazional-comunista (1946-1990), l’Albania è tra i paesi emergenti d’Europa. La sua economia continua a crescere, ma il paese è ancora alle prese con seri problemi di arretratezza politica e sociale, che frustrano le sue richieste di integrazione nella comunità auropea.
Situato nella parte sudoccidentale della penisola balcanica, affacciata sul mare Adriatico in corrispondenza del canale d’Otranto, il cui punto più stretto è di circa 75 km, l’Albania ha una superficie di 28.748 km², poco più grande della Sicilia, e quasi 3 milioni di abitanti, secondo il censimento del 2011. La maggior parte della popolazione vive nelle periferie dei grandi centri urbani che, da soli, ne agglomerano oltre due terzi.
Per descriversi, il popolo albanese pone al di sopra di tutto l’importanza dei valori dell’etnia, in contrapposizione al concetto di stato. Ogni forma di ricostruzione storica del Paese va quindi fatta alla luce di come gli albanesi «pensano» l’Albania, ricordando che tale schema è alla base del modello di nazione albanese.
Dall’indipendenza alla «grande albania»
La discendenza storica dagli Illiri costituisce un titolo di vanto riaffermato indistintamente da tutti i leader albanesi: pirati di professione, furono sottomessi da Roma verso il II secolo a.C. e la loro regione fu inetgrata nella provincia romana dell’Illiria.
Nei secoli del dominio ottomano i clan albanesi continuavano a praticare di nascosto la loro fede: di notte nelle case si svolgevano le antiche liturgie e, nascoste sotto terra, si celavano spesso le statue dei santi, mentre il battesimo era amministrato in segreto cosicché molti albanesi avevano un nome islamico e un secondo nome, ufficioso, cristiano.
Intoo al XVIII secolo iniziò quindi a svilupparsi quella cultura turco-albanese che raggiungerà, alla fine del secolo, traguardi di raffinatezza soprattutto nel settore letterario.
Una serie di contingenze determinarono nel corso del XX secolo un’inattesa alleanza con Italia e Austria che temevano il controllo serbo e greco del territorio: unica alternativa possibile era la trasformazione del paese in uno stato indipendente, sotto tutela italo-austriaca. L’allora governo di Francesco Crispi – un italo albanese – riuscì a imporre all’Europa la faticosa nascita dell’Albania, attraverso la Conferenza degli Ambasciatori del 1910, che due anni dopo confermò la costituzione della nuova nazione: il 28 novembre 1912, a Valona, Ismail Qemalil dichiarò l’indipendenza dell’Albania.
Seguirono anni di assestamento politico, segnato da arretratezza economica e lotte tra anacronistici capi-tribù, finché si affermò Ahmet Zogu che diede vita al Regno albanese, proclamandosi re col nome di Zog I, e intensificò i rapporti economici con l’Italia. Roma considerava l’Albania come una propria colonia e vedeva con sospetto l’ingerenza nazi-tedesca nei Balcani, finchè il governo fascista, attraverso il proconsole Ciano, rovesciò la monarchia albanese: era l’alba del 7 aprile del 1939, Venerdì Santo. Da allora l’Italia controllerà l’Albania fino al settembre del 1943, trascinandola nella rovinosa campagna di Grecia, il cui risultato per gli albanesi si risolse in un trionfo storico del tutto inaspettato: sotto la guida di un re italiano e con l’appoggio tedesco, realizzarono la «Grande Albania», recuperando l’Epiro del nord (Ciamuria), alcuni territori della Bulgaria e soprattutto il Kosovo.
La dittatura di Hoxha
Nel periodo che va dal 1943 al 1945 comparvero nel territorio albanese numerosi movimenti partigiani tra loro contrapposti, mentre per i kosovari tali anni furono particolarmente drammatici: la componente albanese, che per decenni aveva subito la repressione serba, e i tentativi di «pulizia etnica» del governo di Belgrado, forte dell’appoggio nazista, cornoperò con particolare ferocia nelle rappresaglie compiute dagli occupanti contro i serbi, dando ai vari gruppi politici kosovari un indirizzo ideologico esasperatamente antisemita.
Nel generale contesto di anarchia in cui il Paese stava precipitando emerse, per disciplina e forza militare, l’insieme dei gruppi partigiani guidati da Enver Hoxha, che condusse una spietata guerra di liberazione, ben presto sfociata in guerra civile, quando l’anticomunismo spinse i nazionalisti monarchici e repubblicani a unirsi tra loro per combatterlo, arrivando addirittura ad affiancare i nazisti.
Hoxha goveò l’Albania dal 1944 al 1985, anno della morte, con un comunismo molto rigido e autoctono: è classificato tra i peggiori despoti del Novecento. Nonostante la stesura di una monumentale opera omnia, prodotta in ben 71 milioni di copie, che doveva consacrarlo a solo, autentico, continuatore di Lenin, Hoxha fu sempre legato a quel culto della etnia definito «albanità».
Quando il Cremlino si alleò, tradendo la besa (la parola data), con la Jugoslavia, storica nemica del popolo albanese che opprimeva i kosovari, la rottura con Mosca fu sancita definitivamente e Hoxha affidò agli intellettuali il compito di esprimere senza reticenze la messa in secondo piano dello schema marxiano fino ad allora sostenuto e imitato. L’alleanza con Pechino costituì una scelta di tipo strumentale, per la foitura di armamenti e strumenti per l’industrializzazione e lo sviluppo del Paese.
Nel 1976 anche la Cina fu accusata di «imperialismo» e il dittatore si ispirò a nuovi ideali da seguire, come quelli rappresentati dalla Svizzera, unica nazione che appariva neutrale rispetto alla Nato, e dall’Austria. Ma il popolo albanese, ormai guidato da Sali Berisha – il medico che sarebbe poi stato alla guida del primo governo anticomunista albanese – cominciò a capire che dietro tali scelte vi erano per lo più le solidità bancarie dei due Paesi, dove Hoxha teneva i suoi conti privati.
Gli albanesi giudicano oggi negativamente il quasi mezzo secolo di comunismo dominato da Enver Hoxha. Tuttavia, alcuni attribuiscono al dittatore alcuni meriti, come quello di aver permesso loro di imparare a leggere e scrivere, aver dato accesso al sistema sanitario e aver portato a coltura tutta la terra possibile; non da ultimo, sotto il suo regime la durata media della vita è passata da 38 a 70 anni.
L’era di berisha
Alla morte del dittatore, nel 1985, gli successe Ramiz Alia, che faceva parte dell’entourage di Hoxha, anche se, a differenza di gran parte degli altri, durante la guerra di liberazione non aveva avuto un ruolo militare di spicco. Nel 1987 Alia fece sì che l’Albania entrasse come membro permanente delle varie Conferenze balcaniche promosse dal governo Jugoslavo. Sul fronte interno, pressato dallo scontento popolare, avviò timide riforme politiche e, in concomitanza con il crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale, introdusse il multipartitismo.
Tra gli intellettuali e funzionari statali del regime c’era anche la casta dei medici, all’interno della quale si trovava Sali Berisha, un cardiochirurgo che si era conquistato ampia notorietà a livello internazionale e di cui Hoxha si fidava ciecamente. Ma spinto dall’illimitata brama di potere, alla fine del 1990, Berisha scese in piazza assieme agli studenti che protestavano contro il regime di Alia, l’anno seguente riuscì a manovrare e diventare capo del Partito democratico albanese, al quale impresse una ideologia semplicemente e ferocemente anticomunista e presentandosi ormai come leader incontrastato. Le elezioni del 1992 sancirono un risultato del 66% dei voti al Partito democratico: Berisha diventò presidente e venne rieletto nel 1996; ma quello stesso anno il «crollo delle Piramidi Finanziarie» provocò proteste di massa: nei primi mesi del 1997 il Paese precipitò in una specie di anarchia con circa 2.000 morti; le responsabilità del presidente non sono mai state chiarite ma erano evidenti: Berisha fu costretto a dare le sue dimissioni.
Nonostante nel settembre 1998 avesse preso parte al tentato colpo di stato contro il governo di Fatos Nano, nell’estate 2005 la coalizione del partito di Berisha, dopo otto anni di opposizione, ebbe nuovamente la maggioranza in parlamento, grazie alla ripetizione del voto in tre circoscrizioni, tra polemiche su compra-vendita di voti, insulti tra i leader e indicazioni elettorali di clan: Berisha divenne primo ministro; nel 2007 fece eleggere presidente un candidato di sua fiducia, Bamir Topi; nel 2009 consolidò la vittoria elettorale, continuando nella carica di primo ministro per il secondo e attuale mandato.
Dalla caduta del regime comunista a oggi, la storia della direzione del Paese si consuma in un’alternanza che vede protagonisti, fin dal 1991, Sali Berisha e Fatos Nano.
Dal boom economico alla crisi
A fine 2006 il Capo delegazione del Fondo monetario internazionale a Tirana, Istavan Szekely, lanciò l’allarme per il fatto che il governo albanese aveva appena sottoscritto un contratto con il gruppo americano-turco Bechtel-Enka per i lavori di un tratto dell’autostrada Durazzo-Morina, lungo circa 50 km, al prezzo di 418 milioni di euro: l’Albania, secondo le normative del Fmi, non avrebbe potuto richiedere più di 50 milioni di euro di debiti al mercato finanziario. Intrappolato nella promessa elettorale della riduzione delle tasse, vincolato dal contratto che richiedeva ulteriori spese, ridotte le entrate per via della crisi, il governo optò per una terza via: congedare il Fmi dall’Albania.
Nel 2007 l’Albania registrò una crescita economica del 6% e l’anno successivo dell’8%, cifre che solo la Cina superava. Con una crescita economica simile si sarebbero potute finanziare non una, ma ben due strade Durazzo-Morina senza eccessive preoccupazioni. Con un Pil di circa 10 miliardi di euro l’anno e una crescita economica dell’8%, la ricchezza finanziaria albanese aumentava di 800 milioni di euro l’anno, in dieci anni il Paese poteva diventare due volte più ricco e, nella stessa misura, crescevano i redditi pro-capite.
Tutto ciò in teoria. La realtà si sta rivelando coerente alle paure del Fmi che, complice la crisi del 2009, vede la crescita economica albanese crollata dall’8% al 2,8% in un anno: una catastrofe per la finanza albanese, poiché il piano della spesa pubblica – avendo assorbito anche la famosa strada – era stato calcolato sulla base di una crescita economica maggiore.
A fine novembre 2008 il deficit pubblico era a quota 23,5 miliardi di leke, un anno più tardi il deficit si triplica arrivando a 63,5 miliardi di leke, pari a più di 450 milioni di euro. Al Goveo non restava che giustificarsi dicendo che «ovunque in Europa il deficit pubblico è esploso a causa della crisi».
Anticamera europea
Il 14 aprile 2010 l’Albania ha consegnato al Commissario europeo per l’Allargamento, Stefan Fule, il dossier con le risposte ai 2.284 quesiti utili alle istituzioni dell’Ue perché esprimano un giudizio sulla richiesta di adesione dell’Albania. L’Ue ha sollevato dubbi circa la stabilità democratica delle istituzioni, l’esistenza di un’economia in grado di reggere le regole della competizione e del mercato unico, il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze, lo stato del sistema giudiziario, la corruzione e la criminalità. Per entrare nell’Unione europea l’Albania dovrà fare particolarmente attenzione al raggiungimento dei criteri di Copenhagen.
Il 2011 è stato un susseguirsi di episodi di piazza. A gennaio le proteste scaturite dagli scontri tra partiti di maggioranza e opposizione hanno fatto 3 morti e decine di feriti; a maggio le elezioni amministrative, dopo numerosi colpi di scena e riconteggi, hanno conferito al Partito democratico di Sali Berisha anche la guida della capitale, strappata allo storico sindaco Edi Rama e di nuovo gli albanesi sono scesi in piazza per protestare, nel disinteresse totale dell’opinione pubblica mondiale.
A ottobre è stato pubblicato il rapporto della Commissione europea sull’avanzamento dei paesi balcanici verso l’integrazione europea. Anche quest’anno l’Albania si è vista rifiutare lo status del paese candidato.
A dicembre sono stati infine pubblicati i risultati del censimento della popolazione, svoltosi nel mese di ottobre: sembra che la popolazione sia diminuita del 2,8% in 10 anni, ma molti sollevano dubbi su come si è svolta la ricerca.
Paolo Rossi