Il racconto delle nozze di Cana (29)
Gv 2,6 (a): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra],
contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»
Con il v. 6 siamo arrivati al cuore del racconto dello sposalizio di Cana. Nella puntata Otto personaggi in cerca di simboli (MC 9 – 2009, pp. 20-22), presentando lo schema dell’intero racconto, che per noi è costruito a chiasmo, cioè a forma incrociata, dove si corrispondono il primo e l’ultimo elemento, il secondo e il penultimo, il terzo e il terzultimo fino a un punto centrale come al proprio cuore (per lo schema v. MC 9), abbiamo rilevato che l’autore con quello che precede e quello che segue vuole condurre il lettore a questo versetto, che è quindi la chiave più importante della narrazione.
Se questo è vero bisogna prestare molta attenzione non solo alla lettera del testo, ma alla «mens» dell’autore e cercare di capire quale messaggio vuole trasmetterci. Mettendoci in ascolto silenzioso e dinamico della Parola, cerchiamo di scoprirlo.
Dalla grammatica e sintassi …
Da un punto di vista testuale vediamo subito che la prima parte è costruita con un «ipèrbato», che è una figura letteraria per cui due termini che dovrebbero stare insieme sono interrotti da una o più parole: qui i termini «hydrìai – giare» e «kèimenai – collocate/giacenti [per terra]» sono separate dalla frase «per la purificazione dei Giudei», dando all’intero versetto un empito di suspence.
Alcuni codici antichi, sia importanti che meno importanti, eliminano il participio presente passivo «kèimenai – collocate/giacenti» per un evidente fine di semplificare e rendere il testo più scorrevole: «Vi erano poi là sei giare di pietra collocate/giacenti [per terra, pronte] per la purificazione dei Giudei». Invece l’autore, usando la costruzione che tecnicamente si chiama «perifrastica passiva», pone l’accento non sulla posizione delle giare, e cioè che erano per terra, ma sulla materia con cui sono fatte (sono di pietra) e sulla loro funzione e scopo, cioè «per la purificazione dei Giudei». La costruzione perifrastica è frequente nel quarto vangelo: cf, p. es., Gv 3,27; 6,65; 13,23; 16,24; 20,30 (cf BDR § 3522-3; M. Zerwick, Il greco 154 §362).
In altre parole, in questo modo, l’autore ci obbliga a considerare ancora una volta il rapporto che c’è tra lo sposalizio di Cana e ciò che è avvenuto ai piedi del Sinai: per ricevere la Torah, Israele tutto deve «purificarsi per tre giorni»; allo stesso modo per ricevere il compimento della Toràh, che è lo sposo-Gesù, bisogna che tutto il popolo nuovo si purifichi prima di accedere alle nozze.
Questo invito è dato in modo plastico e forte dalla presenza delle giare: «Vi erano poi là sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei»: la funzione delle giare è «permanete» perché esse non sono là occasionalmente, ma restano, anzi devono restare lì «collocate/giacenti per terra». Il loro immobilismo, quasi inerte come cadaveri, esprime la loro funzione permanente: c’è sempre bisogno di purificazione prima di accedere al cospetto di Dio.
C’è un altro elemento che ci porta alla stessa conclusione ed è l’uso della preposizione propria «katà» che noi abbiamo tradotto, semplificando, con «per». In greco questa preposizione si costruisce con il caso accusativo e indica una relazione, per cui si dovrebbe tradurre letteralmente con «in relazione alla purificazione dei Giudei», oppure «secondo la purificazione dei Giudei», oppure ancora «destinate alla purificazione dei Giudei».
Se si guarda dalla parte del soggetto, cioè le giare, la preposizione indica finalità/scopo: ci dice che le giare hanno come scopo proprio di essere sempre pronte per la purificazione dei Giudei. Se invece si guarda dal punto di vista della purificazione, cioè del complemento, allora si sottolinea la necessità della purificazione stessa. In questo senso si può anche tradurre: «Vi erano poi là, sei giare di pietra, destinate la purificazione dei Giudei»; oppure: «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione necessaria/obbligatoria dei Giudei».
… al significato pregnante dei simboli e parole
Ci soffermiamo su questi aspetti linguistici che a qualcuno possono apparire noiosi o pignoli, per fare notare ai nostri lettori che nella Parola di Dio, ogni sfumatura ha un senso e mai dovremmo cedere alla tentazione della superficialità o del pressappochismo. Se l’autore usa una frase piuttosto che un’altra non è per capriccio o perché ininfluente per la comprensione del testo. Quanti dei nostri lettori, infatti, nelle innumerevoli volte che hanno letto questo racconto, non hanno pensato che esso avesse come finalità di edificarci con un pensiero spirituale sul sacramento del matrimonio, mentre al contrario, prendendo lo spunto da un banale sposalizio, ci costringe a pensare all’alleanza del monte Sinai per concludere che ora davanti a noi non c’è un profeta, seppur grande come Mosè, ma c’è il Lògos in persona, il Figlio di Dio che è l’Alleanza del Padre?
Diciamo questo anche perché il Gv 2,6 che descrive le giare corrisponde nella costruzione sintattica a Gv 2,1, che abbiamo già esaminato nella puntata C’era là la madre di Gesù (MC 4 – 2011, pp. 30-32), dove avevamo già proposto il parallelo linguistico, osservando che la costruzione è tipicamente giovannea, riportando i testi di riferimento e mettendo in evidenza che la costruzione in Gv 2,1 e 2,6 è voluta espressamente dall’autore per creare un parallelo tra la madre e le giare secondo lo schema seguente:
– Gv 2,6: «Vi erano poi là sei giare di pietra»
(êsan dè ekêi lìthnai hydrìai).
– Gv 2,1: «Ed era la madre di Gesù là»
(kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi).
Abbiamo anche messo in evidenza che la costruzione «era/erano… là», avverbio locativo + verbo «essere», si trova circa una decina di volte nel quarto vangelo (cf Gv in 2,1.6; 3,23; 4,6; 5,5; 6,22.24; 11,15; 12,9.26); per cui rileviamo che l’autore vi attribuisce una certa importanza: il tempo imperfetto del verbo «essere» ha un valore «qualitativo» nella linea secondaria della narrazione: da una parte fornisce informazioni circostanziali, cioè in più, per permettere al lettore di farsi un’idea più completa del racconto, e dall’altra ci descrive la qualità dello «stare», che non è solo una presenza occasionale, come potrebbe essere la partecipazione a un matrimonio, ma sottolinea e mette in evidenza che tale «presenza» è determinante, in quanto «doveva essere là»: quasi uno stato di necessità.
In altre parole, Giovanni informa il lettore sul contesto del racconto, offrendo dati supplementari che in questo caso mettono in relazione la madre con le giare. Dicendo che sia la madre che le giare «stavano… là», ci suggerisce l’idea che esse dovevano essere là fin dall’inizio: sia la madre che le giare rappresentano quello che «c’era da sempre», cioè tutta la storia d’Israele che s’identifica nell’alleanza data sul Sinai e scritta su tavole di pietra, come le giare sono di pietra (di questo parleremo nella prossima puntata).
Le giare, la madre, la Toràh e Israele
La madre rappresenta Israele e le giare la Toràh incisa nelle tavole di pietra che segnano la storia costante del popolo di Dio. Il tempo imperfetto, infatti, indica un’azione continuativa e duratura nel passato. In parole più semplici: con quella costruzione «era/erano… là» l’autore ci dice che sia la madre che le giare sono il passato che cedono il passo al nuovo che è Gesù. Non si tratta però di sostituzione, quasi che l’alleanza del Sinai fosse superata dall’avvento di Gesù, ma di un superamento nell’ordine della pienezza: il passato che era inerte (le giare giacciono per terra) e che non ha più speranza (manca il vino che tanto preoccupa la madre), ora può riprendere vita e attingere linfa dal nuovo perché Gesù non è «venuto ad abolire la Legge o i Profeti… ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17).
Se Giovanni annette molta importanza al confronto «madre – giare», significa che le due presenze e le modalità del loro essere presenti non sono casuali: la madre non è venuta alle nozze solo perché ha ricevuto un invito, ma «era necessario» che fosse «là», perché essa è rappresentativa dell’attesa di Israele. Nella madre Giovanni condensa tutta l’attesa messianica di tutta la storia del suo popolo; ella è la personificazione di tutto Israele da cui si distingue nettamente.
Da un lato Israele, pur possedendo la Toràh, non ha accolto il Lògos (Gv 1,11), preferendo il buio della sua chiusura anche alle novità di Dio; dall’altro la madre che rappresenta l’Israele che attende si apre al nuovo, prende coscienza che manca il vino e chiede il nuovo vino del Messia, quello che inaugurerà gli ultimi tempi con una abbondanza senza misura.
Allo stesso modo deve dirsi delle giare di pietra, perché anche esse «erano là, distese per terra/che giacevano» e c’erano prima ancora che le nozze avessero inizio. Anche queste hanno uno scopo, che è «la purificazione dei Giudei», ma sono inerti, tanto inerti che devono ripetere all’infinito il rito purificatorio, allo steso modo delle tavole di pietra della Toràh, che dopo essere state spezzate, devono essere riscritte e riconsegnate.
Anche le giare dicono che sono ormai inadeguate a ricevere «la pienezza del tempo» (Gal 4,4) che si apre al Regno definitivo. Bisogna aprirsi al nuovo, la tradizione e le tradizioni non servono più, possono essere qualche volta un rifugio di sicurezza, ma non sono quasi mai una spinta a cogliere «il presente di Dio». A volte invece possono essere deleterie e pericolose: «Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,13).
La funzione ripetitiva delle giare
Le giare sono il simbolo visibile della Toràh scritta e orale, incisa su tavole di pietra (Es 24,12; cf Mateos – Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 133 e 137), che sono diventate il «sacramento» del cuore di pietra di Israele descritto dal profeta Ezechiele e in attesa del trapianto del cuore di carne (cf Ez 11.19; 36,26). La madre e le giare sono il simbolo della sinagoga che attende il Messia:
a) Le giare sono pronte per la purificazione dei Giudei, quasi un prolungamento di quanto avvenne ai piedi del Sinai, dove Dio stesso impose che il popolo si purificasse per essere pronto e degno a ricevere la Toràh: «Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo”» (Es 19,10-11).
b) La madre/nuovo popolo è già sulla scena perché deve accogliere sia lo sposo, il Figlio, sia i figli che tornano dall’esilio, ponendo fine alle lacrime di Rachele che piange i suoi figli esiliati (cf Ger 31,15). La madre assume un connotato dirompente di profezia, perché annuncia l’arrivo del Messia e, al tempo stesso, chiude il tempo dell’attesa: il vino conservato nella cantina del monte Sinai, il vino della Parola di Dio sta per scorrere abbondante e senza misura inaugurando i tempi del Messia.
Un dato è certo, nella prima parte del v. 6, l’attenzione deve porsi sul tema della purificazione, che quindi è una idea importante e che bisogna approfondire, entrando più intimamente nel testo, da cui scopriamo che l’aggettivo di materia «líthinai – di pietra» è esclusivo di Giovanni (in tutto il NT ricorre solo altre due volte: in 2Cor 3,3 e in Ap 9,20). Gli elementi che Giovanni mette nel versetto sono molteplici e interessanti: le giare sono di pietra, sono in numero di «sei», sono inerti perché giacciono distese per terra e sono sempre in attesa di servire i Giudei per la purificazione. Sono così importanti che anche la quantità del loro contenuto (l’acqua) è misurata: ognuna di esse è «chōroûsai – contenenti due o tre metrète».
Una misura senza misura
Il participio presente attivo femminile che concorda con le giare forma una seconda coniugazione perifrastica, qui attiva. Anche in questo caso, invece di dire che «le giare contengono due o tre metrète», l’evangelista dice che «le giare erano contenenti due o tre metrète». È evidente che l’autore con questa scelta sintattica sottolinea non la normalità, ma l’abbondanza del contenuto, perché in un certo senso prolunga le parole «erano contenenti», che richiama l’attenzione meglio e maggiormente del banale e semplice «contenevano». Nella prima forma, uno è costretto a fermarsi, nella seconda uno prende solo atto e passa avanti.
La metrèta, infatti, è una misura che indica qui una quantità considerevole (vedi riquadro), segno che le giare erano usate da molte persone. In questo contesto, però, è quasi obbligo pensare alla contrapposizione di due fatti: da una parte il vino è «poco», tanto che deve intervenire la madre, dall’altra l’acqua della purificazione è abbondante, anzi sovrabbondante. Il «poco vino» è insufficiente e sottolinea anche la povertà della condizione dei partecipanti al matrimonio, espressione dell’antica alleanza, se rimane chiusa in se stessa; dall’altra parte, «l’acqua che diventa vino» è in quantità incommensurabile e indica l’abbondanza dei tempi messianici, di cui abbiamo parlato a lungo in due puntate precedenti: Un protagonista delle nozze: il vino del Messia, MC 2- 2010, pp. 24-26) e Un protagonista delle nozze: il vino dell’abbondanza, MC 3 – 2010, pp. 22-24).
Ancora una volta, attraverso la struttura letteraria, i particolari e i personaggi, l’autore del racconto ci riporta ai piedi del Sinai per riprendere in mano di nuovo il codice dell’alleanza e risciacquarlo nel vino delle nozze di Cana che continuano ad essere sempre di più un «midràsh» di Es 19, mettendoci in guardia che se non ci apriamo al nuovo, simboleggiato dal «vino bello», anche noi rischiamo di chiuderci nelle nostre sicurezze di una religione di comodo, con il rischio di vanificare la Parola di Dio. Delle giare di pietra e del fatto che fossero «sei» parleremo nella prossima puntata.
(29 – continua).
Paolo Farinella